La grande tristezza

In questi giorni ho ascoltato una bellissima affermazione di Marta Cartabia, vice-presidente in carica della Corte Costituzionale. La riporto a senso: “Bisogna essere convinti che il distruggere non serve per migliorare la società”. Un monito che viene dal rispetto dell’etica individuale e collettiva, dal profondo della coscienza democratica, dall’esperienza della storia e dalla sana spinta della politica. La miglior chiosa culturale possibile al fallimento di tutti i terrorismi, in particolare di quello sviluppatosi in Italia nel secolo scorso. L’arresto di Cesare Battisti, il latitante terrorista pluriomicida, segna una grande tristezza: la misera fine di una illusione che diventa delinquenza; l’ansia di giustizia e di progresso che rovina nella più brutale violenza; la sconfitta del bene ad opera del male ammantato di bene.

Ho sentito esprimere soddisfazione. Ma quale soddisfazione!? È un episodio ulteriore di una tragedia che ci ha colpito tutti. Finisce giustamente anche l’illusione di coprire con il giudizio benevolo della storia i reati collegabili al terrorismo politico.  La follia omicida di chi pretendeva di cambiare il mondo con l’odio e la violenza viene rimessa al suo posto e come tale giustiziata. Quante vittime innocenti sull’altare di una rivoluzione fasulla!

Non sentiamoci però buoni e bravi, non mettiamo a posto la nostra coscienza facendo pulizia in quella di chi si è macchiato di crimini orrendi in nome di una fantomatica rivoluzione. Abbiamo tutti di che riflettere, di che sentirci colpevoli, di che fare ammenda, di che cambiare individualmente e collettivamente. Non ha senso vivere questi fatti come una tardiva vendetta. E tantomeno imbastire anacronistiche polemiche su chi ha tentennato nel condannare, nel prendere le distanze, nel vagheggiare assurdi colpi di spugna. Non si sentano giusti e assolti nella loro ingiusta politica coloro che cercano legittimazione nei tragici errori dei nemici. Meditino seriamente anche quanti amano correre sul filo del rasoio della violenza politica.

Di fronte all’epilogo della vicenda giudiziaria di Cesare Battisti vengo colto da una profonda tristezza: è il fallimento della vita di una persona che fa ancora fatica a prenderne atto, è il fallimento di una pazza ideologia terroristica, è il fallimento di un’epoca, è il fallimento di un’ansia trasformata in violenza distruttiva, è il fallimento di un sistema che non riesce a rispondere alla voglia di giustizia sociale, è il fallimento di una democrazia che non ha gli anti-corpi necessari a combattere le sue malattie, è il fallimento della politica incapace di affrontare  i problemi e li lascia marcire, è il fallimento di un mondo che divora gli aneliti progressisti vomitandoli nel letamaio della violenza criminale.

Non basta giustiziare i colpevoli, spettacolarizzandone insensatamente la cattura, strumentalizzando vergognosamente le operazioni di polizia. Bisogna capire e approfondire le colpe e rimuoverne, per quanto possibile, i presupposti. Occorre un bagno di umiltà nel sangue di tutte le vittime dell’ingiustizia. Occorre tornare alle spinte ideali che hanno vinto la violenza e hanno trasformato la nostra società. Occorre prendere in mano la Costituzione italiana, piangerci sopra e ricominciare a fare politica, a costruire con pazienza.

 

 

 

Il fascino indiscreto della “grilletica”

Siamo in mezzo ad una bagarre politica che si tinge di ideologia. Prendiamo le questioni e le scelte che connotano l’azione del governo giallo-verde, ma, all’interno di esse, soprattutto quelle sostenute dai cinque stelle. Ne tento una rapida e sintetica rassegna.

Caldissima e contrastatissima è la “tav”, la controversa linea ferroviaria ad alta velocità, la Torino Lione, in via di realizzazione, ma sottoposta a riesame; abbiamo la “tap”, il gasdotto trans-adriatico; sono rispuntate le trivelle nel mar Ionio per la ricerca del petrolio; tengono sempre banco i forni inceneritori, impianti per lo smaltimento dei rifiuti tramite combustione ad alta temperatura; cambiando completamente campo, ci imbattiamo nella crisi delle banche dovuta a gravi difficoltà finanziarie; nel settore sociale incontriamo in tanto discusso reddito di cittadinanza, un sostegno alle persone in gravi difficoltà per mancanza di lavoro e insufficienza di reddito; potremmo concludere con la lotta alla corruzione, ai privilegi, ai conflitti di interesse.

Sono i temi principali su cui basa il proprio consenso il M5S, facendone oggetto di una vera e propria strategia mediatica, accoppiata ad una demagogica tattica elettoralistica. Non si può affermare che siano questioni risibili o insignificanti. L’aspetto inaccettabile, a volte persino intollerabile, sta nel taglio con cui vengono più cavalcate che affrontate: una logica moralistica, che arriva a prefigurare un vero e proprio stato etico, una strategia anti-sistema, una sorta di anti-politica proposta in chiave populistica, vale a dire mirata a soddisfare epidermicamente le pulsioni protestatarie di base indipendentemente dalla loro effettiva ed organica soluzione.

Singolarmente e sostanzialmente esaminate sono nient’altro che i punti critici ed i nodi del sistema liberal-capitalistico: lo sviluppo economico condizionato dalla difesa dell’ambiente; un reddito di sussistenza garantito a tutti a prescindere dalle leggi del mercato; la finanza piegata agli interessi della collettività; la moralità pubblica difesa col giustizialismo. Esistono due approcci a queste tematiche: un radicale vagheggiamento pseudo-rivoluzionario, che l’esperienza storica ha rimosso dal popolarismo consentendo solo un ripiegamento sul populismo; un riformismo sistemico, che la storia ha rivalutato, ma che la prassi ha squalificato, rendendolo poco credibile e quindi “facilonariamente” rifiutabile.

Il secondo approccio è, o dovrebbe essere, quello della sinistra sempre più incapace di coniugare le idealità con gli interessi generali e questi ultimi con la gradualità della politica. Alle crescenti difficoltà della sinistra si aggiunge la sempre maggiore incapacità della destra liberale e moderata di governare il sistema partendo dalla difesa degli interessi privati e dal mercato in un quadro di compatibilità sociale.

Privati di questi due riferimenti, i cittadini restano in balia mediatica dei grillismi e dei leghismi, vale a dire delle scorciatoie illusionistiche. E allora partono i “no” assoluti alle infrastrutture funzionali al sistema, i “no” ai salvataggi degli istituti di credito visti come la cassa mafiosa di regime, il conflitto di interesse e la corruzione vissuti come la degenerazione progressiva ed inarrestabile delle classi dirigenti, i contentini sociali per recuperare fuori dal sistema i soggetti in bilico. Si rinuncia cioè a fare i conti col sistema per riformarlo e cambiarlo e si ripiega sull’esorcizzarlo e combatterlo alle grida.

Qual è il rischio storico che si ripresenta puntualmente? Il populismo di destra alla fine viene riassorbito e finisce col fare da supporto alla destra di regime, in un miscuglio in cui non si riesce più a capire fin dove arriva la velleitaria voglia di nuovo e la testarda difesa del vecchio. Il populismo di sinistra non si piega alla politica e disperde tutto e tutti in una confusione fine a se stessa, che finisce con l’essere funzionale alla destra. Bisognerebbe rompere al più presto questi schemi, prima che sia troppo tardi, prima che il leghismo diventi l’anticamera di un nuovo fascismo riveduto e camuffato e il grillismo diventi la brutta copia delle tentazioni aventiniane. I tempi per smantellare questi equilibri perniciosi sono misurabili in un ventennio con tanto di guerre mondiali; senza guerre andremo per le lunghe e la maggior parte dei viventi non ne vedrà la fine.

 

La politica nel pallone

Aspettavo al varco il ministro Matteo Salvini sul problema della violenza negli stadi. Aveva lanciato qualche provocazione interessante allorché aveva dichiarato insostenibile l’onere a carico dello Stato per garantire l’ordine pubblico dentro e intorno agli stadi e quando si era scagliato contro il comportamento diseducativo dei fuoriclasse del pallone. Mi ero detto: vuoi vedere che siccome tutti i matti hanno le loro virtù, Salvini avrà il coraggio di mettere il dito nella piega su cui finora si sono esercitati i pietosi medici rendendola sempre più puzzolenta? Come spesso succede, tanto tuonò che non piovve.

Ne sta uscendo la solita politica dei pannicelli caldi, che parte da due presupposti sbagliati. Il primo consiste nel considerare ristrette minoranze quelle degli ultras, contrapposte demagogicamente alla stragrande maggioranza dei tifosi perbene. Non è proprio così. Dal punto di vista quantitativo il fenomeno non è affatto marginale: è consistente, diffuso, generalizzato, politicizzato, scatenato. Che fa opinione nelle tifoserie sono questi grossi gruppi di prezzolati ed esaltati, i quali riescono a condizionare l’intero mondo del calcio, dalle società agli allenatori, dai media ai giocatori. Riescono a tenere in scacco le forze dell’ordine, sempre troppo prudenti rispetto all’atteggiamento tenuto nei confronti delle proteste politiche e sociali. Proviamo a chiederci cosa succederebbe dentro e fuori gli stadi se la polizia usasse lo stampo dell’interventismo adottato col G7 di Genova: furono autenticamente massacrati, con violenza inaudita, i giovani che protestavano contro i potenti a convegno. Facendo le debite proporzioni, i tifosi violenti dovrebbero essere sterminati con i gas nervini.

Il secondo presupposto sta nel considerare le misure estreme di lotta alla delinquenza calcistica come una resa della società ai violenti. È lo stesso discorso che si fa con i terroristi islamici: non ci faranno cambiare il nostro stile di vita. Nel caso dei terroristi calcistici: non ci faranno sospendere le partite, non ci costringeranno a chiudere gli stadi, a vietare le trasferte, a sequestrare gli striscioni. In poche parole non ci rovineranno il bel giocattolo pallonaro col quale milioni di persone si trastullano. Il fenomeno calcistico ha in sé ormai ben poco da salvare: non è sport, non è costume, non è spettacolo, non è divertimento. È diventato un puro business per chi ci campa sopra, più o meno lautamente, ed un puro sfogo individuale e collettivo per chi vuole momentaneamente allontanare le proprie frustrazioni. Questa è la verità!

Il governo non ha nessun interesse a toccare i fili di questa alta tensione perché rischierebbe di essere fulminato. Silvio Berlusconi utilizzava anche il calcio per accreditare la sua immagine di benefattore del popolo. Matteo Salvini non può permettersi il lusso di violare il suo populismo intaccandone il pilastro portante del calcio. E allora continueremo coi pannicelli caldi, con qualche occasionale sfuriata, con grida scandalizzate che lasciano il tempo che trovano. Come potevo illudermi che un personaggio che fa politica da bar sport potesse sovvertire l’ordine costituito degli stadi.  Il razzismo triviale dei tifosi è ben poca cosa rispetto all’elegante (?) neo-razzismo dei governanti. La strategia dell’urlo adottata dai tifosi non è che la parafrasi sportiva dell’impostazione politica ormai dominante. L’incontenibile entusiasmo delle curve è la versione calcistica delle illusioni politiche vissute nell’attuale momento storico. Toccare il calcio vorrebbe dire autoflagellarsi, masochisticamente segnare i limiti della presuntuosa incapacità politica di chi è nel pallone.

La vergognosa tifoseria dei fratelli coltelli

Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli: questi detti significano che più stretta è la parentela tra i litiganti, maggiore sarà il livore che ognuno serberà nei confronti dell’altro. I protagonisti dell’attuale stagione politica italiana sono partiti con l’astuzia dei serpenti in una coalizione governativa parentale, una sorta di patto di non belligeranza, stipulato per convenienza e impostato contrattualmente per tirare a campare e guadagnare tempo. Strada facendo, l’insorgere delle varie emergenze, l’aggravarsi dei problemi, il cercare soluzioni concrete li hanno necessariamente avvicinati, costretti a diventare cugini pronti a battagliare fino all’ultimo sangue pur di non soccombere l’uno all’altro in una malcelata sfida demagogica alla conquista della supremazia elettorale. Le sempre più bellicose intenzioni si sono via via accentuate e sono cominciati a spuntare i coltelli tra fratelli con genitori in comune (populismo e sovranismo), ma con il problema della spartizione dell’eredità elettorale. E quando c’è di mezzo un’eredità sappiamo che tutto il peggio può succedere in un crescendo di violenza non solo verbale.

Non c’è questione su cui non scoppi un litigio, volano parole grosse, si incrociano accuse pesanti, emergono idee opposte, i coltelli sono sotto il tavolo di palazzo Chigi dove il premier Conte fa finta di non vederli, ma poi si scende in piazza, quella mediatica e quella reale, e lì i conflitti esplodono apertamente e brutalmente.  Non regge più il gioco di scaricare le colpe sull’Unione europea, sul partito democratico, sui poteri forti, sulle banche, sul passato più o meno recente. L’esternalizzazione delle colpe non regge più, gli sfoghi asimmetrici non bastano, le rassicuranti dichiarazioni di stabilità governativa hanno l’effetto di calmare il pelo dell’acqua sotto cui ci si avvicina al redde rationem. I tifosi non stanno più nella pelle e si schierano apertamente.

Marco Travaglio capisce di avere fatto una scelta insensata e si para il culo facendo dei continui distinguo, arrampicandosi sugli specchi di una diversità politica fra i contendenti, sempre più invisibile, a difesa dell’indifendibile M5S. Gli ho sentito dire che i grillini sarebbero di sinistra in quanto promotori di aiuti ai poveri (reddito di cittadinanza), come se la storia non insegnasse che i regimi di destra si sono sempre ammantati populisticamente di misure sociali per coprire le loro sostanziali mire anti-democratiche (Benito Mussolini fece ben più e meglio dei grillini nel campo dell’assistenza sociale). Si sta rivelando apertamente infatti il tasso di consanguineità politica e proprio per questa ragione aumenta vertiginosamente la necessità di distinguersi tatticamente in conflitti di maniera, di duellare sui ring elettoralistici, di chiamare a raccolta le proprie truppe e di stipulare alleanze in vista della guerra.

Anche Forza Italia è costretta dopo tanto rancore anti-salviniano a soccorrere l’infido alleato leghista, proponendogli il ritorno ad un problematico letto pseudo-coniugale: l’atteggiamento del coniuge tradito, disposto a scordare il passato pur di tornare ai vecchi amori. Non parliamo dei Fratelli d’Italia, i “guardoni” che tifano Lega pur non occupando la curva degli ultras. Ormai si ha la netta sensazione che il governo faccia da cenere rispetto ad un fuoco che cova in attesa di esplodere al momento opportuno.

Nel frattempo come Paese stiamo perdendo la faccia e la dignità. Come Italiani stiamo perdendo la coscienza. Giustamente Massimo Cacciari in una incontenibile invettiva televisiva, partendo dalla distinzione tra giustizia e legge, gridava “vergogna” alla patetica ministra Giulia Bongiorno. “Vergognatevi, ripeteva, ossessivamente, abbiamo tenuto per giorni e giorni una cinquantina di disgraziati in alto mare, vergognatevi…”. Poi, ad un certo punto, ha cambiato la voce del verbo vergognarsi e gridava: “Vergogniamoci”, lasciando intendere che non gli interessava tanto la buffonata continua di Salvini, ma il destino dell’Europa e delle coscienze della gente.  Il pericolo che sta dietro i fratelli coltelli è proprio quello che vede lucidamente il professor Cacciari: diventare più o meno consciamente tifosi di una guerra immorale, antistorica, antipolitica, antitutto ciò che di buono è stato costruito in democrazia.

 

 

I cortili transazionali ed antieuropei

Sono cominciati ufficialmente i viaggi pastorali alla ricerca delle pecorelle europee da ingaggiare in vista delle prossime ed imminenti elezioni. Salvini e Di Maio litigano su quasi tutto: è il riflesso di una convivenza governativa obbligata e travagliata, ma anche del posizionamento in vista della consultazione elettorale europea, che dovrebbe costituire la prova del fuoco per il futuro di Lega e M5S.

I bambini, quando litigano, si ritirano indispettiti nei propri cortili a giocare con gli amicissimi, salvo poi litigare anche con i più fedeli compagni. Ebbene anche Salvini e Di Maio sono alla spasmodica e dimostrativa ricerca dei loro cortili europei, forse sarebbe meglio dire dei loro pollai, dal momento che in essi esistono troppi potenziali galli in competizione sovranista e populista.

Matteo Salvini fa l’amicone col polacco Kaczynski, con l’ungherese Orban, con la francese Le Pen, con lo svedese Akesson, con l’olandese Wilders: una squadretta niente male a servizio degli ultras nazionalisti, con il chiaro obiettivo di buttare all’aria l’Europa, facendone l’improbabile coacervo degli egoismi nazionali.

Luigi Di Maio vede i suoi futuri possibili alleati nel polacco Kukiz, nel croato Sincic, nella finlandese Kahonen, leader di movimenti alternativi, nei loro rispettivi Paesi, ai partiti tradizionali: la variegata combriccola dell’anti-politica, schierata, lancia in resta, contro i fantomatici poteri forti dell’Europa ed i burocrati invadenti della Ue.

Sono cominciate le grandi (?) manovre, che intendono intaccare la storica contrapposizione tra popolari e socialisti. Non so quale sarà la risposta di questi due nemici/alleati: si chiuderanno nei loro gusci europeisti cercando di isolare e marginalizzare i contestatori a destra e manca oppure corteggeranno questi rompicoglioni, facendo finta di disprezzarli per poi comprarli in una confusionaria bottega europea.

La politica è condizionata da una scelta di fondo: tornare allo schematismo ideale e valoriale destra-sinistra, che a livello europeo si connota nello scontro tra europeismo ed euroscetticismo, oppure rimescolare tutto nella pentola in ebollizione ed estrarne nuove minestre sulla base di sconclusionate ricette. La situazione è assai problematica per essere governata a livello di pentolone europeo e allora ogni Stato membro potrebbe ripiegare sulla propria pentola, in una cucina incasinata dove odori e sapori finirebbero col nauseare gli elettori, allontanandoli ulteriormente dalla rimanente e modesta sensibilità europea.

Purtroppo non vedo leader in grado di ergersi a livello transnazionale, capaci di rilanciare in senso deciso ma innovativo il progetto di Europa: in questo caso la politica ha più che mai bisogno di pensare in grande, mentre la cultura dominante è tutta ripiegata sul piccolo. Il futuro passaggio elettorale potrebbe ricacciarci indietro nella storia: esistono molti segnali negativi e preoccupanti. L’Italia ne è portatrice: tutti ci guardano in cagnesco, siamo i lebbrosi dell’Europa. Ci stiamo chiudendo nel nostro lazzaretto pentaleghista, ma facciamo anche incursioni in campo aperto col rischio di propagare l’infezione sovranista e/o il virus populista.

Di fronte a questo marasma sostanzialmente antieuropeo sarà meglio puntare a un grande rassemblement a difesa delle attuali istituzioni europee o ad un coraggioso, selettivo e rifondante ritorno ai valori pionieristici da cui partirono i “sognatori” europei? Meglio il pragmatico consolidamento dell’esistente o la rischiosa e fantasiosa ripartenza ideale? Siccome la politica senza ideali non porta bene…

 

 

 

 

La sviolinata gialla

Il movimento cinque stelle è ormai senza ideologia e senza guida: ha perso il suo “moderno e paradossale Suslov” che si celava dietro le teorie di Casaleggio senior (il figlio non ha la stoffa, la testa e il carisma del padre), ha visto allontanarsi il militante impegno del suo capo-comico Beppe Grillo. È rimasto col vuoto doppiopettismo di Luigi Di Maio in combinato maldisposto col rivoluzionarismo da strapazzo di Alessandro Di Battista. Sono pecore senza pastore, che cercano qua e là un ovile in cui rifugiarsi e difendersi dalle intemperie immanenti. Lo cercano in quel che passa il convento della storia o, meglio, della cronaca dei nostri giorni.

Eccoli a contatto con l’ambientalismo più spinto, quello dei no a Tav, Tap, etc. etc. Ma la necessità di tirare a campare li mette in crisi ed allora bisogna ripiegare sul colpo al cerchio del ribellismo ecologico e alla botte dell’infinita e impossibile analisi dei costi-benefici, delle trivellazioni nel mar Ionio e, alla più brutta, del dare tutte le colpe a chi è venuto prima. Eccoli a cavalcare la dittatura del proletariato in versione “reddito di cittadinanza”, salvo accorgersi che la dittatura dei poveri è franata sotto le macerie di chi aveva in testa qualche idea in più di loro. Eccoli alle prese con i guai delle banche, pronti a sposare la causa dei danneggiati dai terremoti finanziari, costretti ad usare i soldi pubblici per, seppure indirettamente, sostenere l’odiato sistema bancario.

Gli appigli non mancano ma durano lo spazio d’un mattino: l’inganno si scopre e qualcuno comincia a storcere il naso tra gli eletti e gli elettori. E allora quale migliore soluzione dell’affidarsi a quanto avviene fuori dai confini nazionali, nella patria degli odiati e odianti cugini transalpini: i gilet gialli sono una ghiotta occasione da non perdere, hanno il vento protestatario in poppa, sono talmente confusionari da andar bene per tutte le stagioni, interpretano l’antieuropeismo del “si salvi chi può”, picconano l’establishment macroniano in versione “puzza sotto il naso”, hanno un bell’appeal a cui tatticamente legarsi.

“Gilet gialli non mollate”, questo il motto sfornato da un Di Maio con il lanternino in mano alla disperata ricerca del “cambiamento” dell’Europa promesso dai grillini ai propri elettori. In una lettera ai contestatori francesi fa loro una sviolinata ed offre supporto logistico attraverso la piattaforma Rousseau e, soprattutto, un’alleanza alle urne in vista delle prossime lezioni europee. Sembrano più le mosse donchisciottesche di un finto generale con le truppe allo sbando che una seria, seppur disperata, strategia di attacco. Quando si è in difficoltà nel governare all’interno si è soliti spostare l’attenzione con mosse bellicose all’esterno.

Questi escamotage stanno creando attriti con i pentastellati di vertice e di base oltre che con l’alleato leghista che si vede scavalcato e spiazzato. Il governo francese ha invitato Di Maio a fare pulizia a casa propria, vale a dire in Italia. Sinceramente non ho capito la battuta, probabilmente uscita dalla infastidita fretta di reagire polemicamente in qualche modo alle provocazioni grilline. Mi sembra che si possa delineare un movimento internazionale: “Incapaci di fare politica di tutto il mondo unitevi!”. Non so se durerà e quanto durerà la stagione dei gilet gialli. Per i pentastellati mi sembra più un ulteriore e pericoloso legame contro natura, che un interessante aggancio strategico. Quando si è allo sbando tutto può fare comodo, ma per poco tempo. Forse nemmeno fino alle prossime elezioni europee.

 

Il burocratico silenzio che grida contro i disperati.

Da tempo mi sono chiesto cosa stiano a fare nel governo i cosiddetti ministri tecnici, i Tria e i Moavero, tanto per non fare nomi. Qualcuno sostiene che siano utili contrappesi alla strafottenza dei pentaleghisti, altri che rappresentino un punto di riferimento europeo a protezione dalle derive euroscettiche, altri ancora che siano lo specchietto delle allodole per chi si illude di ottenere moderazione da un governo sostanzialmente estremista, per finire c’è chi favoleggia di quinte colonne mattarelliane all’interno del governo giallo-verde.

Tutte ipotesi teoricamente plausibile, ma effettivamente inconsistenti. Certo lo stile sciorinato da questi ministri è un tantino più equilibrato rispetto a quello messo in campo dai ministri più fortemente e politicamente connotati. Tuttavia non sono né carne né pesce; se proprio li vogliamo considerare carne, li possiamo ritenere cibi precotti da scaldare a bagnomaria senza aggiunta di condimenti; se invece pensiamo siano dei pesci in barile, serviamoli in tavola come pesci lessi, che non hanno odore e sapore e che non fanno male alla digestione in quanto a bassissimo contenuto calorico.

L’ultima chicca di lor signori riguarda la caldissima questione dei naufraghi sballottati in mare. Contemporaneamente a questa situazione emergenziale si è tenuta una riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi europei a cui ha partecipato l’italiano Enzo Moavero Milanesi. I cronisti si sono precipitati a chiedergli se l’argomento sarebbe stato discusso in quella sede. Lui, con imperturbabile e distaccato tono, ha risposto che non era all’ordine del giorno e quindi che probabilmente non se ne sarebbe parlato: “Non è detto che se ne discuta”: queste le sue testuali parole. Ma di cosa è fatta questa gente? Facciamo tanto gli schizzinosi con i burocrati europei, rei di coprire gli spazi propri della politica e poi, quando tocca a noi, inviamo a Bruxelles dei politici, che sembrano la brutta copia dei burocrati, dei gelidi e insignificanti incroci tra politica e burocrazia. Possibile che a Moavero non sia venuta l’ispirazione di chiedere un confronto con i colleghi sulla vicenda Sea Watch e Sea Eye, battendo magari anche, se necessario, i pugni sul tavolo: sembrava un alieno capitato per caso in terra.

Spero lo abbia fatto magari sotto traccia, diplomaticamente parlando, per sondare almeno gli umori degli altri governi e riportare in sede italiana l’aria che tira. Ho seri dubbi e spero vivamente di sbagliarmi. Quando ho colto in televisione la freddezza con cui il ministro degli Esteri italiano ha liquidato le giuste aspettative per un dibattito, anche improvvisato, in sede comunitaria, ho reagito in malo modo indirizzando parole grosse e offensive all’indirizzo di questo personaggio sgusciante ed insignificante. Ero solo davanti al video e non le ripeto, perché non ho alcuna intenzione di fare spazzatura e non intendo scendere nelle solite bagarre contenute nei social. Però, potrò dire che un simile ministro, pur preparato ed esperto che sia, mi fa venire il latte alle ginocchia? Si sbilanci, dica qualcosa, faccia qualcosa.

È pur vero che mio padre ammirava le persone che parlano poco in quanto evitavano, a suo parere, il rischio di dire cazzate. Forse varrà anche per il ministro Moavero? Può darsi non voglia unirsi al coro dei suoi colleghi, che di cazzate ne sparano in continuazione, facendo di esse la vernice mediatica con cui nascondere le loro incapacità. Il più bel tacer non fu mai scritto! Ma chi glielo spiega a quei quarantanove disgraziati che aspettano da giorni un gesto di accoglienza e che hanno iniziato persino a rifiutare il cibo, non per protesta ma per rassegnata sottomissione alla totale noncuranza della politica nei loro confronti. Signor Ministro degli Esteri, per favore, dica qualcosa, chieda qualcosa ai suoi colleghi. Mi risulta che decenni or sono un convinto europeista come il ministro dell’agricoltura Giovanni Marcora sbottasse di brutto durante le riunioni comunitarie, chiedendo cosa avrebbe dovuto riferire agli agricoltori che aspettavano risposte ai loro problemi. Abbia il ministro Moavero un analogo sussulto di dignità e di iniziativa per sapere cosa dire a quei quarantanove migranti in fila per sei col resto di uno.

I buchi nelle ciambelle di salvataggio

Papa Francesco ha lanciato un pressante appello a favore dei 49 migranti a bordo di Sea Watch e Sea Eye, le navi delle ong, che da giorni attendono di sbarcare in qualche porto. Durante l’Angelus del giorno dell’Epifania il pontefice si è rivolto seccamente ai governanti dei Paesi dell’Europa: “Da parecchi giorni quarantanove persone salvate nel mare Mediterraneo sono a bordo di due navi di ong in cerca di un porto sicuro dove sbarcare. Rivolgo un accorato appello ai leader europei perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di queste persone”.

Tra le vergognose risposte di chi gioca a ping-pong sulla pelle di questi disgraziati o a scaricabarile fra gli Stati chiamati in causa, ho colto la più forbita dal punto di vista giuridico: un appunto alle ong le quali avrebbero soccorso un barcone che non era in pericolo di affondare e/o persone che non stavano affogando; una seconda critica per aver soccorso un’imbarcazione navigante in acque libiche e quindi per essersi intromesse in un mare non di loro competenza. Non ho ben capito da quale eccelso cervello siano state partorite queste sciocche, provocatorie e risibili argomentazioni.

Si deve aspettare ad intervenire quando ormai la situazione è in balia delle onde? Si deve stare a sottilizzare in quali acque ci si trova mentre diverse persone stanno rischiando la vita? Questo non è diritto internazionale, questa è follia marinara. Si dica chiaramente che non si vuole intervenire a costo di lasciar perire decine di naufraghi e si lasci perdere il diritto. Devo ammettere che almeno il ministro Salvini dice fino in fondo come la pensa: i suoi discorsi sono inaccettabili, ma chiari. Altri si nascondono dietro il dito dell’accoglienza a donne e bambini, separati dagli uomini lasciati a ballare in mare aperto. Altri scaricano le colpe su Malta: ma cosa si può pretendere da uno Stato largo come un cappello? Altri continuano col solito ritornello della spartizione dell’accoglienza, mentre i potenziali immigrati aspettano i comodi dei potenziali Paesi ospitanti, capaci solo di litigare fra di loro. Altri arriverebbero a concedere un’accoglienza limitata e contingentata, senza far sbarcare le navi nei porti italiani.

Siamo in presenza di una penosa, irritante, e delinquenziale diatriba che mette a repentaglio la vita di parecchi esseri umani. Fateli sbarcare, concedete una prima accoglienza e poi discutete fin che volete! Qualcuno sostiene che il papa faccia il suo mestiere, lasciando intendere che non dovrebbe impicciarsi e dovrebbe rassegnarsi alle decisioni dei governanti eletti dal popolo. Meno male che c’è qualcuno che fa il proprio mestiere, perché in troppi non lo stanno facendo affatto. L’unica parola adatta a sintetizzare e definire la vicenda è “vergogna”. Non capisco come certa gente possa andare a letto tranquillamente, postarsi e pavoneggiarsi sui social, sparare cazzate a raffica, ben sapendo che dalle sue decisioni dipende la salvezza o la morte di tanti esseri umani disgraziati e ridotti in condizioni penose: qualcuno in preda alla disperazione si è persino lanciato in mare. Meno male che papa Francesco tiene accesa una fiammella etica su cui peraltro molti soffiano a pieni polmoni per spegnere ogni e qualsiasi possibilità di incendio umanitario.

Non è possibile continuare con questo stillicidio razzista e populista. Bisogna cominciare a pensare veramente che non basta commuoversi, ma occorre muoversi, come dice don Luigi Ciotti. Non so se la strada sia la disobbedienza civile, la protesta di piazza, l’intromissione etica, la testimonianza religiosa, il coraggio di gridare allo scandalo. Durante il periodo fascista pochissimi furono i docenti universitari che si rifiutarono di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo: una quindicina su 1251 e persero la cattedra. Ricominciamo da capo: ribelliamoci, disposti a rimetterci di persona, sforzandoci di trovare spazi di accoglienza. Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso si scendeva in piazza per molto meno. Oggi esistono i social, ma un sit-in sotto le finestre dei due pubblici amministratori di Trieste e Monfalcone, autori di gesti razzisti belli e buoni, non sarebbe da scartare. Mettere pressione a chi sta (s)governando il fenomeno migratorio. Certe leggi e certi regolamenti vanno violati, certi comportamenti governativi vanno duramente rifiutati e contestati se non addirittura calpestati. Non abbia timore la presidente del Senato Alberti Casellati: questa non è anarchia, è solo ribellione civile. Matteo Salvini dichiara che occorre mettersi il cuore in pace perché è lui a decidere. E lui si metta il cuore in pace perché ci sarà chi non gli ubbidisce.

 

Il rigore costituzionale

Il durissimo scontro parlamentare sulla legge di bilancio, in mezzo ad inaccettabili forzature di metodo ed a stravaganti equivoci di merito, ha riservato anche qualche bella espressione democratica: dopo il pianto istituzionale di Emma Bonino, l’invettiva costituzionale di Guido Crosetto.

Il parlamentare di Fratelli d’Italia, ha pronunciato un discorso molto importante e interessante, affermando con foga: «L’articolo 72 della nostra Costituzione dice che ogni disegno di legge è esaminato dalla commissione e poi dalla Camera stessa che l’approva articolo per articolo. La stessa Costituzione prevede che per il disegno di legge finanziaria ci sia una procedura rafforzata. La finanziaria è qualcosa di diverso nel quale la Costituzione interviene e dà ancora più diritti al Parlamento…Se domenica una squadra avesse iniziato a giocare la partita non mettendo la palla al centro, ma sul dischetto del rigore, ci sarebbero 630 deputati qui a stracciarsi le vesti, perché le regole non vanno cambiate. Invece, se si infrange la Costituzione, ce ne sbattiamo e ci passiamo sopra, perché la maggior parte delle persone non ne capisce la gravità».

Guido Crosetto, per quanto conosco di lui, è un parlamentare che riesce a ragionare sempre con la sua testa, andando spesso e volentieri al di là della sua appartenenza politica. E non è poco! Questa volta si è superato: ha fatto una intelligente, appassionata e motivata difesa della Costituzione, partendo dai banchi di un partito, che non ha sicuramente una simile storia e una tale tradizione alle proprie spalle.  La cosa assume un rilievo ancora maggiore. Mi perdonerà l’onorevole Crosetto, ma se per tornare al dettato costituzionale abbiamo bisogno del forte e puntuale richiamo di un esponente della destra di ispirazione non proprio storicamente in linea con la nostra Carta fondamentale, bisogna dire che siamo arrivati, anche e soprattutto per “merito” dei giallo-verdi, nei bassifondi della democrazia. Ben venga il richiamo al rispetto delle regole democratiche, da qualsiasi parte arrivi, anche se non sembra sortire un grande effetto.

Sì, perché Guido Crosetto ha capito molto bene anche un’altra cosa: che la politica non si sta facendo con la Costituzione alla mano, ma considerando gli effetti mediatici sulla gente e, come lui ha acutamente osservato, siccome la maggior parte delle persone non riesce a cogliere i termini delle questioni in ballo, si alzano le spalle, si va avanti “come se niente fudesse” e come se la Costituzione fosse un arnese usurato e superato.

Si sta cioè, come sostiene opportunamente Massimo Cacciari, avallando un processo di revisione anti-democratica delle coscienze, tacitandole o sporcandole con ripetuti messaggi demagogici e populisti. Non c’è in ballo solo la manovra finanziaria del 2019, non sono in precario equilibrio solo i rapporti con l’Europa, non è solo in pericolo la quadratura dei conti pubblici, non è solo discutibile il contenuto della manovra, stiamo arrivando alla frutta della democrazia rappresentativa e parlamentare. Il problema è far sì che se ne accorga la gente, il cittadino comune stordito dai proclami pentaleghisti e dalle manfrine legastellate. Ben vengano i Crosetto con i loro aiuti imprevisti, che valgono doppio.

Voce uscita dalla pattumiera leghista

L’assessore comunale alla Sicurezza del comune di Monfalcone, Massimo Asquini, ha postato sui social questa filastrocca: “Il migrante vien di notte con le scarpe tutte rotte; vien dall’Africa il barcone per rubarvi la pensione; nell’hotel la vita è bella nel frattempo ti accoltella; poi verrà forse arrestato e l’indomani rilasciato”. Quando ho ascoltato la notizia, successivamente verificata su internet, ho fatto letteralmente un balzo sulla seggiola. Non è possibile, ma purtroppo è vero.

Siamo giunti a questo punto: un amministratore pubblico si diverte sulla pelle dei migranti. Ecco il clima che stiamo respirando in Italia. Avevo appena ascoltato don Luigi Ciotti dichiarare, con la sua solita partecipazione emotiva e con il suo solito coraggioso impeto, la necessità di gridare “vergogna” per come l’Europa e l’Italia stanno gestendo il problema degli immigrati. Ebbene non solo si porta avanti una politica vergognosa, ma qualcuno ha addirittura il pessimo gusto di deridere persone che vivono drammi umani incredibili.

L’interessato si è difeso: “Non c’è nulla di offensivo, è quello che tutti gli italiani pensano. La filastrocca non è roba mia, l’ho copiata dal web. In ogni caso non è un’offesa per nessuno. È uno scherzo in tema con la leggerezza del giorno della Befana”. La difesa è ancor peggio dell’offesa. Ho riflettuto prima di riportare e commentare questo episodio: forse era meglio sorvolare. Alla fine ho ritenuto di non ignorare questa penosa vicenda. Per diversi motivi. Il primo per il fatto che fotografa effettivamente un sentire piuttosto diffuso tra la gente: non tutti gli italiani, non certamente il sottoscritto, ma molte persone arrivano a tanto.

Mio padre, nella sua disincantata e implacabile ironia al limite del sarcasmo, sottolineava come suscitasse generalmente grande ilarità la caduta di una persona, mentre davanti alla caduta di un cavallo ci si intristisce: “Povra béstia…”. Non si sbagliava affatto. Quell’assessore non oserebbe parafrasare la filastrocca della Befana applicandola al suo cane: avrebbe se non altro timore di offendere tutti coloro che possiedono un animale domestico. Con gli immigrati si va invece sul velluto. Roba da matti.

In secondo luogo questo triste e vergognoso episodietto dimostra come in politica seminare vento possa comportare raccogliere consenso: la Lega sta scherzando col fuoco, finisce col portare acqua al (suo) mulino razzista, ma prende caterve di voti. Si badi bene che la filastrocca non è stata lanciata in un triviale bar di periferia, ma da un assessore comunale di Monfalcone. Questo comune è stato governato dalla sinistra dal 2011 al 2016. Ora imperversa la Lega. Leggete cosa scriveva una certa Sara il 30 maggio 2011 alle ore 20,18 a commento delle elezioni comunali di Monfalcone vinte appunto dal centro-sinistra: “Mi son de Monfalcone e fiera della mia cittadina!!! Come se fa a dir Ke i Bangla non servi a niente??? Xe persone non bestie, fin che xe certa “gente” che parla cussi no andremo da nessuna parte”. Sara sprofonderà, come tutti i monfalconesi e gli italiani con un minimo di cervello e di coscienza, nella vergogna di vedere gli immigrati considerati come bestie da soma, da sfruttare e oltre tutto da deridere.

Cosa è successo nell’elettorato di sinistra? Ci possono essere tanti motivi psicologici, sociali ed economici per spiegare il passaggio di larghe fasce di elettori dalla sinistra alla Lega (non sarà, ne sono certo, il caso della citata Sara): di fronte a questi episodi clamorosi speriamo che qualcuno si ravveda e capisca lo schizofrenico errore commesso. L’opposizione in comune di Monfalcone ha reagito, ha chiesto le dimissioni dell’esponente leghista e la convocazione di un Consiglio comunale urgente, con la presenza del Questore e del Prefetto. Il sindaco leghista invece dice che Asquini non voleva offendere nessuno e se l’ha fatto si scusa. Le scuse sono quelle sopra riportate. “Voce dal sen sfuggita poi richamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì”.

Sia chiaro non intendo infierire su una seconda o terza fila leghista, non voglio speculare su un infortunio di un poveraccio, che forse effettivamente dovrebbe togliere il disturbo.  Ben altro politico a terger dèssi l’offesa! Vediamo cosa avranno da aggiungere Salvini e c., specialisti in messaggi facebook e twitter. Sghignazzeranno assieme ad Asquini, si incazzeranno per la dilettantesca caduta di stile, rincareranno la dose, la butteranno in rissa, daranno la colpa all’Europa e alla sinistra? Resta, al di là della politica e delle pattumiere social, lo sconfortante interrogativo di Adriana Lecouvreur, vittima di una vendetta amorosa perpetrata con fiori avvelenati inviati dalla sua rivale in amore: “Ma perché mai discendere a tanta scortesia?”.