La legge del cosa vogliamo essere

“Mi ricordo che tanti anni fa, mentre discutevamo della legge sul divorzio, allora sottoposta a referendum, mio padre Aldo – da buon giurista – ebbe modo di spiegarmi che una legge non contiene solo delle norme, ma definisce anche che cosa vogliamo essere come Paese, come società e come persone”. Da questo mirabile insegnamento parte Agnese Moro, l’indomani della cattura di Cesare Battisti, scatenante demagogici, inutili, e vendicativi atteggiamenti, per affrontare, coraggiosamente, coerentemente e credibilmente, il problema dell’impostazione del nostro sistema penale e dei principi che debbono reggerlo.

Proprio mentre gran parte della classe politica e dell’opinione pubblica si esercitano nel fegatoso gioco al massacro dei rei, la figlia della vittima più emblematica e significativa del terrorismo, si schiera a favore della tesi Costituzionale, in base alla quale chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia.

Siamo in presenza di una commovente lezione di vita: Aldo Moro aveva seminato molto bene, nella sua famiglia, tra i suoi allievi, nella politica, nella società. Non dimentichiamo i suoi insegnamenti: è vissuto ed è morto per essi. Proprio lui, che teorizzava la testarda ricerca del riscatto del condannato, è stato violentemente sequestrato, ingiustamente processato, follemente condannato a morte, barbaramente ucciso. Non so cosa proverà Cesare Battisti leggendo la testimonianza di Agnese Moro. Non credo che potrà rimanere indifferente o scettico. Sarà costretto a riflettere e a ripensare. Glielo auguro.

Tutti però dovremmo riflettere e ripensare, abbandonando lo scudo fatto dell’amarezza e della rabbia delle vittime, con il quale, come sostiene Agnese Moro, faremmo prevalere la linea vendicativa, che porta fuori dalla nostra Costituzione e moltiplicheremmo anche la forza di quella catena del male, che parte da ogni gesto di violenza, privato o pubblico che sia, e che si allarga e si rinforza continuamente.

Agnese Moro ha giustamente applicato l’insegnamento paterno al discorso del sistema giudiziario penale, paradossalmente sollecitata dall’angoscioso evento dell’arresto e della consegna al carcere “fine pena mai” di un sedicente terrorista, condannato per crimini peraltro assai poco politici e molto comunemente delinquenziali.    A me viene spontaneo allargare il discorso alla “criminalità pubblica” che si sta scatenando sugli immigrati. Anche qui esistono due visioni e chiedo scusa ad Agnese Moro se rischierò di parafrasare il suo discorso.

Una prima visione sostiene che si debba aiutare solo i più disperati fra i disperati, respingendo o rimpatriando gli altri; che si debba scoraggiare e bloccare le partenze per diminuire le morti in mare; che si debba fare guerra ai trafficanti comprendendo fra di essi tutti e comunque coloro che danno una mano a queste masse di disgraziati; che si debbano chiudere i porti e alzare i muri in attesa di regolamentare la spartizione dell’accoglienza; che si debba combattere senza pietà la clandestinità in quanto causa assoluta di criminalità. Queste sono regole, che stante quanto sosteneva Moro, definiscono prima di tutto cosa vogliamo essere: un Paese chiuso, una società razzista, persone egoiste.

La seconda visione non nasconde le enormi difficoltà, non sostiene di accogliere tutti “buonisticamente” e scriteriatamente, ma si ricollega ai principi costituzionali della protezione delle persone nei loro diritti fondamentali e nella loro dignità, quali esseri umani senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Dopo avere chiarito se vogliamo essere un Paese civile e aperto, una società che non discrimina, persone solidali, possiamo scrivere le regole. Altrimenti le regole non si possono accettare: la legge viene dopo la giustizia, dopo il rispetto dei diritti umani e la solidarietà verso i propri simili. Come dice Massimo Cacciari, scadiamo nella legge di Creonte, che impedisce di seppellire i morti, di soccorrere il naufrago in mare, etc.  Buttiamo tremendamente a mare, assieme ai migranti, i principi di giustizia della cultura europea.

La pelle di Fico e il muro pentastellato

Il presidente della Camera Roberto Fico non perde occasione per prendere clamorosamente le distanze dal governo e dal suo movimento. In materia di immigrazione ha dichiarato: «L’accoglienza è un valore sempre. È scritto nella Costituzione. La legge suprema dell’umanità ti chiede di aiutare le persone in sofferenza o in naufragio: una regola che va oltre le norme scritte, i governi, i parlamenti».

A chi gli ha fatto osservare di avere una posizione isolata rispetto alle scelte dei vice-premier, Fico ha risposto: «Io non sono isolato, io non sono nel governo. Io ho un ruolo terzo e di garanzia. E come terza carica dello Stato vi dico che l’accoglienza e il salvataggio in mare sono valori fondamentali. Ogni volta che muore qualcuno nel Mediterraneo ci dobbiamo sentire coinvolti. Io personalmente mi sono sentito in lutto dopo la strage dei 117 immigrati. Vale anche quando ne muore uno, ma quella è stata una gravissima pagina». Poi quasi per farsi perdonare lo “svarione” buonista ha rimarcato le responsabilità “dell’Europa tutta” ed ha aggiunto: «Dobbiamo riuscire a fare un nuovo progetto per il Mediterraneo; va bene anche il piano di investimenti per l’Africa, ma deve essere chiaro e trasparente».

Non si è fermato agli immigrati ed è andato giù duro anche sulla restituzione dei fondi pubblici da parte della Lega: «Chi sbaglia deve pagare e si devono eseguire le sentenze». Ha commentato persino il baciamano avvenuto ad Afragola a favore di Salvini da parte di un simpatizzante della Lega: «Sono accadute anche a me situazioni imbarazzanti, che vanno smontate».

Vista la continuità e varietà di questi clamorosi distinguo, i casi sono due: o si tratta di un gioco elettorale, vale a dire di una strumentale copertura al M5S sul fronte di sinistra o comunque verso gli elettori contrari alla sempre più imbarazzante alleanza con i leghisti, oppure Roberto Fico deve prendere atto delle proprie sostanziali divergenze e abbandonare i pentastellati, senza necessariamente dimettersi da presidente della Camera, anche se sarebbe opportuno e darebbe ulteriore patente di correttezza lasciando l’alto scranno di Montecitorio.

Fino ad ora lo vedevo con una certa simpatia, adesso basta: il gioco è bello quando è corto. I sondaggi danno i grillini in chiara flessione di consensi, il piccolo test elettorale sardo ha evidenziato un notevole malcontento tra le file pentastellate. Alessandro Di Battista è tornato ad incarnare l’anima protestataria più spinta, mentre Fico fa la parte del poliziotto buono. Gino Strada non si è sputato nelle mani e ha dichiarato senza peli sulla lingua: «Quando alla fine si è governati da una banda dove una metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni, non c’è una grande prospettiva per il Paese». Mi aspetto provocatoriamente che Roberto Fico esprima solidarietà a Gino Strada e compia i conseguenti passi politico-istituzionali, diversamente rischia, prima o poi di essere incollato al muro come una pelle di fico, non tanto dagli avversari ma dagli amici.

À bas la France, viva l’Italia

La storia europea è sempre stata caratterizzata dal conflitto tra Francia e Germania: due Stati in cerca di un primato a costo di guerre e scontri epocali. I rapporti tra Francia ed Italia, senza esser così decisivi e fondamentali come quelli appena ricordati, non sono mai stati idilliaci. Mi basta ricordare aneddoticamente come un mio conoscente, volendo far capire i rapporti piuttosto burrascosi con la propria moglie, l’aveva soprannominata “Francia”.

Niente di strano quindi se ancor oggi i rapporti possono essere piuttosto tesi tra il nostro Paese e la Francia. L’assurdità sta nei pretestuosi e strumentali motivi del contendere: la Francia a detta del vice-premier Luigi Di Maio persisterebbe in una sorta di politica coloniale tesa a prosciugare ricchezze dei Paesi africani, impoverendoli e causando l’emorragia da cui provengono migliaia di immigrati annaspanti davanti alle nostre coste.

Se è vero che gli interessi economici europei hanno impedito ed impediscono un equilibrato sviluppo dei  Paesi africani (non solo quelli francesi, ma anche quelli italiani), se è vero che l’irreversibile casino libico post-Gheddafi  è una grossa e colpevole responsabilità francese  (leggi Sarkozy), se è vero che anche l’era Macron non ha sgombrato il campo transalpino da dubbi ed equivoci, è altrettanto vero che non esiste un comprovabile ed esauriente rapporto di causa-effetto tra le politiche internazionali francesi è la fuga dai Paesi africani verso l’Europa.

La polemica scoppiata, che ha portato persino le parti sull’orlo di una crisi diplomatica, ha infatti ben altre motivazioni e scopi. Innanzitutto parte col piede sbagliato: un vice-premier, all’insaputa del Presidente del Consiglio, del Ministro degli Esteri e del Capo dello Stato, parte lancia in resta per sputtanare i cugini d’oltralpe con atteggiamenti manichei e argomenti frusti. Si tratta molto probabilmente di pure scaramucce preelettorali volte a segnare una concezione europea spregiudicatamente rissosa e strumentalmente faziosa. Siamo già al solito tentativo di recuperare consenso all’interno scontrandosi all’esterno: il M5S sente puzza di bruciato nel calo di popolarità della sua azione di governo e quindi alza la voce contro i nemici per ricompattare gli amici. Storia vecchia decrepita!

Un secondo probabile motivo di questa levata di scudi antifrancese sta nella tattica unicamente polemica di due formazioni politiche. M5S e Lega, incapaci di fare serie proposte e specializzati nel demolire quelle altrui. Su ogni tema e problema il dibattito scende a livello squisitamente polemico e violentemente verboso. Quando un litigante si accorge di non avere argomenti è portato a urlare a vanvera per coprire il proprio sostanziale silenzio. La si butta continuamente in rissa e ogni pretesto è buono per scatenarla. In questi giorni il governo è in chiara difficoltà sui temi dell’immigrazione e dell’economia. Ebbene si reagisce tentando di demolire le istituzioni interne ed internazionali, che stanno sollevando, direttamente o indirettamente, dubbi e perplessità sull’azione di governo italiana: la Francia appunto, Bankitalia e Il Fondo Monetario Internazionale. Non si risponde ai loro argomenti, ma si preferisce ributtare la palla nella metà campo altrui invertendo le critiche: la Francia guardi la sua politica coloniale, la Banca d’Italia guardi le banche a cui non ha saputo prestare la necessaria attenzione, il Fmi guardi i disastri che ha combinato nel mondo economico-finanziario. È il modo per salvarsi in corner, ma per accentuare la propria posizione disperatamente difensiva, che porterà inevitabilmente ad incassare goal e a perdere le partite. Qualcuno nella confusione butta addirittura la palla in tribuna: un senatore grillino, nel commentare l’attuale momento storico, è arrivato al punto di adottare uno schema interpretativo che è stato uno dei capisaldi teorici che giustificarono lo sterminio nazista degli Ebrei (non faccio nomi e non entro nel merito, perché siamo nella follia pura e i malati di mente andrebbero curati e non spediti in Parlamento).

Ci sarebbe un terreno adatto su cui misurarsi con la Francia: quello di proporre un’alleanza sviluppista tra i Paesi del Sud-Europa. Sarebbe un bel chiarimento sulla politica economica, sempre imprigionata   nello scontro fra rigoristi del bilancio e sviluppisti del lavoro. Sarebbe uno scoprimento degli altarini franco-tedeschi, su cui si celebrano i patti di potere fra i due contendenti storicamente portati più a comandare che a collaborare. Questo sarebbe fare politica estera. Ci si accontenta invece di fare i politicanti: in Italia ci si può anche riuscire, fuori dai confini nazionali casca l’asino.

L’apparente non senso del dovere

Il civismo consiste nella consapevolezza e nell’alto senso dei propri doveri di cittadino e di concittadino, coscienza che si manifesta in azioni e comportamenti utili al bene comune. Al fine di alimentare e guidare questo atteggiamento nel 1958 Aldo Moro introdusse l’educazione civica come insegnamento nelle scuole medie e superiori, affidato al professore di storia. Dal 2010/2011 si è cambiato nome alla materia, passando al nome “Cittadinanza e Costituzione”. Comprende cinque argomenti: educazione ambientale, educazione stradale, educazione sanitaria, educazione alimentare e Costituzione italiana.

In una recente notte, lungo la superstrada Milano-Meda, un 47enne comasco si è fermato per soccorrere due fidanzati rimasti incastrati tra le lamiere della loro Fiat 600, speronata da un Audi il cui autista era scappato dopo lo schianto senza prestare soccorso. Il soccorritore ha indossato il gilet catarifrangente, ha tenuto accese le luci per segnalare la presenza del suo automezzo, ma quando è uscito dalla sua macchina è stato travolto da altri due automezzi. I due giovani fidanzati sono finiti all’ospedale in stato di choc, il conducente di uno dei due automezzi del tragico tap-in ha riportato qualche ferita, mentre il soccorritore è morto sul colpo.

Un dramma della strada in cui si sovrappongono la paura di ammettere le proprie colpe, la generosità del soccorso agli altri e la fatalità del non riuscire ad indicare in tempo la situazione di pericolo. L’accertamento delle responsabilità verrà fatto dagli organi competenti. Resta il paradosso della dinamica di un doppio incidente da cui esce ucciso colui che ha compiuto un gesto di alto senso civico. Guidare un automezzo è un’azione ad alto rischio per se stessi e per gli altri: non basta la prudenza, non basta la correttezza, non basta nemmeno la solidarietà. Sì, forse, se il primo investitore si fosse fermato e non si fosse fatto prendere dal panico, le cose sarebbero andate diversamente: avrà temuto il ritiro della patente, il non aver rispettato la distanza di sicurezza, aver tenuto una velocità oltre i limiti consentiti. Non mi sento di colpevolizzare nessuno, ma resta il fatto che chi ha agito con senso civico è diventato vittima della propria generosità.

Sono rimasto molto toccato da questo fatto. Posso immaginare il dolore straziante dei famigliari della vittima, posso immaginare la crisi di coscienza dell’automobilista fuggito, posso immaginare il dispiacere di chi si è salvato e di chi è rimasto coinvolto nel tragico e complicato incidente. Dante Alighieri ha introdotto nella sua Divina Commedia la regola del contrappasso: la pena alla quale sono sottoposti i peccatori nell’oltretomba riproduce i caratteri essenziali della colpa per analogia o per contrasto. In questa vita purtroppo molto spesso esiste una sorta di contrappasso a rovescio: vengono puniti i senza colpa o addirittura coloro che si sono dati da fare per aiutare gli altri. È follia! Non c’è spiegazione. Chi si comporta bene è spesso costretto a recitare la parte di un angelo capitato in terra per caso. Dovremmo diventare tutti angeli? Sarebbe l’impossibile soluzione. Cerchiamo almeno di essere un po’ meno demoni: ce lo chiede chi nelle battaglie fa obiezione di coscienza civica e ci lascia le penne.

Il pianto sul mare versato

Di fronte al vuoto pneumatico della politica ridotta a cassa di risonanza degli sfoghi egoistici e malpancistici della gente, urge un ritorno coraggioso e provocatorio alla vera ed alta politica, quella delle idee, delle visioni, dei valori. Accanto all’ideale europeo messo a durissima prova e che necessita di un forte rilancio a livello culturale, abbiamo il discorso dell’immigrazione sul quale stiamo rovinosamente precipitando con la chiusura delle menti, dei cuori e dei porti.

Di fronte ai continui e drammatici naufragi con il conseguente tragico bilancio di vittime, non è più il tempo di nascondersi dietro le colpe dell’Europa, di irrigidirsi sulla lotta alla clandestinità, di semplificare il problema riducendolo all’opera malvagia dei trafficanti, di rinviare l’ondata ai mittenti Paesi sottosviluppati incapaci di frenare l’emorragia, di illudersi sul freno della dissuasione, del respingimento e del rimpatrio, di criminalizzare e generalizzare certi comportamenti fisiologici all’interno del fenomeno. Bisogna prima di tutto e soprattutto risolvere il nodo etico e culturale: siamo o non siamo disposti ad accogliere queste persone alla ricerca di uno spiraglio di vita? Se sì, si può parlare di governo del fenomeno, di prevenzione dello stesso, di integrazione etc., altrimenti, se la risposta è no, è inutile bluffare e bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome, vale a dire col ritorno, più o meno elegante, ad atteggiamenti di tipo intransigente, discriminatorio e razzista.

Si tratta di un confine sul quale stiamo ballando come nel caso del Titanic: siamo noi che stiamo andando a fondo con la nostra cultura del rifiuto, e il nostro naufragio è molto più grave di quello dei barconi dei migranti in fuga, di cui è peraltro la causa principale e storica. Le forze politiche devono avere il coraggio di fare chiarezza sulle loro intenzioni e la gente di fare le scelte conseguenti. È giunta l’ora! Non si tratta di buonismo o cattivismo, si tratta di una scelta di fondo da porre alla base dell’atteggiamento de tenere verso questo fenomeno, che assume proporzioni sempre maggiori ed incontenibili. La mentalità leghista è vomitevole e vergognosa, così come la commedia degli equivoci pentastellati non è ammissibile. La sinistra si sforzi di assumere atteggiamenti chiari di apertura su cui imbastire una politica positiva di gestione del fenomeno, senza preoccuparsi di perdere consenso (lo ha già comunque perso), senza precalcoli di convenienza e senza collocarsi a mezza strada nelle guerre fra poveri (i poveri sono tali e non vanno distinti a seconda del colore della pelle).

Non mi interessano le balle salviniane (mi fanno solo ribrezzo), non mi accontento delle oscillazioni dimaiane (mi fanno solo pena), non mi lascio fuorviare dalle stonature di un dibattito mediatico fine a se stesso (mi fanno rabbia),  non mi bastano le commozioni del momento (mi fanno pensare alle lacrime di coccodrillo); è ora di finirla di piangere sul mare versato sopra i barconi della vergogna, è ora di esigere chiari, seri e forti impegni sul problema enorme delle disuguaglianze, di cui i flussi migratori sono un effetto da non enfatizzare, ma da non sottovalutare. Ricominciare a fare politica oggi significa ascoltare la disperazione di chi preferisce morire piuttosto che rimanere nei campi libici di concentramento, molto simili a quelli nazisti. Anche allora le nazioni fecero finta di niente, si voltarono dall’altra parte, perfino il Vaticano rimase prigioniero della realpolitik religiosa. Mentre il Vaticano ha cambiato musica, noi stiamo tornando all’omertà razzista di un tempo.

Il mare grande dell’europeismo a venire

In passato le elezioni europee venivano vissute come un test secondario, una specie di surrogato rispetto alle competizioni elettorali nazionali; le stesse candidature erano proposte in chiave consolatoria per i “trombati” o in funzione alternativa per i “rompipalle” o, nella migliore delle ipotesi, come lancio per i “promettenti”. L’Europa era vissuta come un bene scontato o come un male necessario. Non è più così. L’Unione europea è messa in discussione da chi la vuole ridimensionare o addirittura distruggere e da chi la vuole rilanciare sul piano istituzionale e politico. La prossima consultazione elettorale di maggio assume pertanto i connotati di un passaggio delicato, anche perché i partiti storici e tradizionali, i popolari ed i socialisti, non sono più in grado di fare sintesi e di interpretare compiutamente il sentire dei cittadini europei, i quali sembrano alla spasmodica ricerca di forze sovraniste, populiste, nazionaliste, ambientaliste, protestatarie, glocalizzanti, estremiste.

Ci si prepara ad una sorta di tagliando europeo tutt’altro che scontato. Provo a schematizzare forzatamente la situazione. A destra il partito popolare europeo, che già ora imbarca cani e porci (dagli europeisti moderati tedeschi ai sovranisti alla Orban), tenta di inglobare i recalcitranti populisti destrorsi, tentando una difficilissima mediazione, non tanto sul piano ideale (gli ideali in Europa hanno purtroppo perso, strada facendo, tutto il loro iniziale impulso), ma sul piano pragmatico, del potere continentale, basata sulla difesa degli attuali assetti burocratici e sul contenimento nazionalistico dei futuri sviluppi. Operazione sulla quale intende cimentarsi Silvio Berlusconi, che intravede la possibilità di riciclarsi, partendo dal suo striminzito 7%, per dare una patina di accettabilità al “salvinismo” dilagante ma sterile, diventando addirittura il protagonista emblematico del rassemblement europeo moderato che guarda a destra.

Anche a sinistra sono cominciate le grandi manovre per chiamare a raccolta gli europeisti più convinti. Si sta ponendo la questione pregiudiziale se sia opportuno puntare su liste aperte ed accoglienti, finalizzate al rilancio dell’Europa o se sia meglio, come si suol dire, marciare divisi per combattere uniti. Il dibattito, piuttosto datato e anacronistico, è aperto.  Per stare in Italia, alla proposta dell’ex ministro Carlo Calenda, che intende lanciare una lista aperta a tutti i possibili e immaginabili fermenti eurofili, risponde Enrico Letta sostenendo come la lista unica contro i populisti finirebbe col fare un piacere ai populisti stessi, offrendo loro su un piatto d’argento il nemico comune da combattere, mentre Matteo Renzi si appiglia al diversivo “macronistico”, vale a dire ad una formazione moderata, sganciata dalla tradizione, euro-pragmatica e fuori dagli schemi radicaleggianti.

Non è il momento di incartarsi nei tatticismi, c’è una posta in palio troppo alta per giochicchiare a nascondino sperando alla fine di fare “tana per tutti”. Sento il giusto odore dell’ideologia geo-politica, della rifondazione europea, della diga valoriale alla esplosiva miscela di conservatorismo, burocratismo, populismo e sovranismo. Enrico Letta può avere qualche ragione tattica, ma è giunta l’ora di misurarsi sulle idee più che sulle beghe pratiche, di affogarsi nel mare grande dell’europeismo a venire piuttosto che nuotare negli stagni dell’europeismo attuale. Matteo Renzi vuol giocare le sue residue carte e sparare le proprie ultime cartucce in campo europeo, ricopiando i compiti in classe di Macron, i cui limiti ed errori sono tra l’altro brutalmente sottolineati col giallo dei gilet.

In conclusione, guardando a sinistra con la mente e soprattutto col cuore, ritengo sia il momento di viaggiare uniti (con grande apertura di idee a livello culturale, politico e sociale), di guardare oltre i confini nazionali (per allearsi con quanti hanno a cuore un futuro di giustizia, pace e solidarietà), di combattere insieme la buona battaglia dell’Europa. Ero un pessimo giocatore di ramino, non sapevo utilizzare i jolly al momento opportuno e rischiavo sempre di perdere, facendomeli “rubare” dai giocatori più abili ed esperti. La sinistra ha in mano il jolly della storia e non deve temere di metterlo in tavola rifugiandosi nel gioco di rimessa: metta le carte in tavola, è il momento delle scelte importanti, vale la pena di rischiare piuttosto che vivacchiare.

 

Decreto di sussistenza disorganica

Ho seguito con estrema attenzione e senza alcuna prevenzione la conferenza stampa con la quale il governo ha presentato il decreto-legge su reddito di cittadinanza e quota 100: sono intervenuti il presidente del consiglio Giuseppe Conte e i due vice-premier Salvini e Di Maio. Parto dai contenuti così come emergenti da questa prima sintetica illustrazione.

Onestamente non mi sento di liquidarli come provvedimenti di stampo meramente elettoralistico e propagandistico. Sotto ad essi c’è un’impostazione di politica economica, ci stanno scelte sociali di un certo tipo.  L’obiettivo di fondo di una seria politica dovrebbe puntare alla ripresa economica collegata ad un significativo aumento dell’occupazione. Il decreto va in questa direzione? A prima vista sembrerebbe di sì. Purtroppo se si va al di sotto della crosta ci si accorge che in realtà non si punta a rimettere in moto l’economia per creare nuovi posti di lavoro, ma si parte da teorici nuovi posti di lavoro (in conseguenza di pensionamenti accelerati) per sperare in un rilancio dei consumi interni. Nel frattempo si concede qualche ristoro a chi non ha lavoro e reddito. Il meccanismo è invertito e il provvedimento potrebbe essere quindi denominato “decreto di sussistenza disorganica”: è il solito meccanismo di aiuto, peraltro piuttosto confuso e improvvisato, che non tocca il sistema e non dà risposte organiche al problema di fondo.

Le considerevoli risorse che verranno impiegate concedono una momentanea bombola di ossigeno, da non disprezzare, ma non influiscono sulla capacità di respirare con i propri polmoni. L’eccezione, che comunque va presa in seria considerazione e curata, rischia di diventare la regola. Mandare in pensione anticipatamente la gente è come illudersi di rendere respirabile l’aria con un turnover (peraltro tutto da dimostrare e verificare nel tempo) di respiranti, anziché con l’apertura di finestre e l’entrata di aria nuova. Dare un aiuto reddituale a chi non lavora rischia di essere una flebo ricostituente per un malato di cui non si affronta la vera e propria malattia. Si dirà: sempre meglio di niente…Mi sembra un po’ poco per chi si candida a cambiare il sistema. Se si deve viaggiare da Milano a Roma in modo più veloce e sicuro, non basta accelerare per un breve tratto per poi tornare alla bassa velocità: la durata finale non cambierà, anche se all’inizio si poteva sperare.

Qualche breve considerazione di metodo. I componenti del governo, ai quali concedo una notevole capacità comunicativa, sprizzavano ottimismo dai pori della pelle, vendevano troppo bene una merce dubbia, enfatizzavano risultati ancora tutti da verificare sulla carta e da ottenere nella realtà. Non mi sembra giusto gufare a tutti i costi verso un governo che ha l’aria di recitare a soggetto, ma bisogna uscire dalla bolla mediatica per atterrare sulla materia programmatica. I contratti si possono rispettare o si può far finta di rispettarli. Per ora, con tutte le cautele e le comprensioni del caso, mi sembra si stia verificando la seconda ipotesi.

La politica vive anche di ricordi

In questi giorni di gennaio 2019 ricorrono due anniversari: cento anni dall’appello  di don Luigi Sturzo e dei dirigenti del neonato partito popolare “a tutti gli uomini liberi e forti”, con il conseguente programma “sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai principi cristiani” del nuovo partito, una formazione politica cristiana appunto nell’ispirazione, ma laica nell’impostazione e nei comportamenti; il centenario della nascita di Giulio Andreotti uomo politico importantissimo del secolo scorso, democristianissimo uomo più di governo che di pensiero, che interpretò, lui laico, in modo molto blando rispetto a Sturzo sacerdote, la laicità della democrazia cristiana, il partito erede dei popolarismo sturziano.

Metto in collegamento questi due eventi celebrativi proprio per sottolineare come soprattutto nella storia italiana, ma non solo in essa, la gerarchia cattolica abbia cercato e avuto un ruolo invadente e compromissorio col potere politico al fine di ottenere vantaggi e privilegi e per garantirsi illusori spazi di presenza religiosa. Quando il Vaticano intravide la possibilità di stipulare con relativa facilità e immediatezza patti col partito e col regime fascisti, non esitò a scaricare don Luigi Sturzo, provocandone le dimissioni e l’esilio, anche se per la verità questo prete, che intendeva separare nettamente la vita religiosa da quella politica, era sempre stato piuttosto indigesto se non inviso agli esponenti di vertice ed a parecchi personaggi di base del cattolicesimo italiano.

Il Vaticano ed il cattolicesimo più integralisti e conservatori ebbero, dal secondo dopoguerra e per quasi tutto il novecento, l’interlocutore politico privilegiato in Giulio Andreotti: egli, così com’era spregiudicato e disinvolto nei metodi, era particolarmente e rigorosamente attento e legato alle volontà clericali. Mentre De Gasperi frequentava le chiese per pregare, Andreotti preferiva le sagrestie per confabulare coi preti. Così dice un noto aforisma di non so chi. A chi gli chiedeva ironicamente il perché di tanto feeling tra lui e gli ambienti clericali rispondeva, con altrettanta arguzia, che probabilmente la ragione stava nel fatto che i preti lo conoscevano meglio dei giornalisti e dei politologi.

Al di là delle battute e dei giudizi sommari su Giulio Andreotti, resta questo vizio antievangelico di intromissione religiosa nelle cose della politica. La Democrazia Cristiana seppe resistere abbastanza bene alla tentazione di cedere alle pressioni vaticane: l’ultimo sofferto cedimento fu quello del referendum abrogativo dell’istituto del divorzio, anche perché, in quello come in parecchi altri casi, la furbizia clericale consisteva nel far esporre i democristiani per poi ripiegare frettolosamente quando le cose si mettevano male.

La presenza dei cattolici nella politica ha offerto all’Italia un serbatoio fondamentale di classe dirigente: l’ultimo dei giusti di questa salutare osmosi è probabilmente Sergio Mattarella, e si vede. Conclusa in modo negativo la parabola democristiana, periodicamente nasce la nostalgica domanda se esista ancora in Italia un ruolo per un partito cristiano. Se si intende ripetere pedissequamente l’esperienza della Democrazia Cristiana credo non si vada da nessuna parte. Se invece, come sostiene acutamente Alberto Guasco nel numero di gennaio del mensile Jesus, si volesse riscoprire il patrimonio ideale e politico di Sturzo, Dossetti, La Pira, Moro, Fanfani, la lezione di Montini e la capacità di coniugare libertà personale e giustizia sociale, potrebbero aprirsi interessanti praterie di approfondimento culturale, di formazione di classe dirigente, di riscoperta etica.

Nel maggio scorso il presidente della Conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti ha lanciato un rinnovato appello ai “liberi e fori”, alla “responsabilità di uomini e donne che nell’arena pubblica “sappiano usare un linguaggio di verità”. Parole sante e opportune nell’attuale e penoso clima politico italiano. Attenzione però a non vivere di ricordi. Lo dico io, che nei miei libri ho ripetutamente apposto un sottotitolo: “si vive anche di ricordi”. Forse, non voglio essere presuntuoso, sviscerando quell’”anche”, potrebbe nascere o rinascere qualcosa di buono.

Le porte girevoli della brexit

Ammetto di essere piuttosto prevenuto contro gli inglesi, ma la loro menata sulla brexit è decisamente vergognosa da tutti i punti di vista. Hanno pazzamente lasciato che il popolo sfogasse le sue frustrazioni in una decisione scriteriatamente antistorica, dettata da motivazioni che quasi nulla avevano a che fare con la Ue, hanno improvvisato uno stile di democrazia diretta su un tema che non si presta per niente ad un simile esercizio, si stanno rivelando incapaci di gestire l’emergenza dell’uscita, infilandosi in un quasi comico meccanismo di porte girevoli, dimostrando tutta la debolezza del loro tanto decantato senso democratico a livello popolare ed istituzionale.

Dopo il clamoroso no da parte del parlamento britannico all’accordo negoziato con la Ue, si aprono scenari piuttosto incerti e variegati. Il leader della minoranza laburista Corbyn punta decisamente allo scioglimento del Parlamento con elezioni anticipate: poco senso di responsabilità, molta strumentalizzazione di un problema europeo a fini interni, fino ad ora poche probabilità di riuscita. La Gran Bretagna potrebbe andare fino in fondo alla strada intrapresa ed uscire dalla Ue sbattendo la porta, senza un accordo, in un insensato clima di contrasti e ripicche: una sorta di divorzio al buio con tutte le conseguenze possibili ed immaginabili.

Il governo, dimostratosi incapace e inadeguato a gestire questo passaggio stretto e difficile, potrebbe preparare un nuovo accordo e sottoporlo al Parlamento, prima o dopo averlo contrattato con la Ue: una scelta del tirare a campare in ossequio al pensiero andreottiano tanto chiacchierato in questi giorni di celebrazioni del centenario dalla nascita del personaggio (sempre meglio che tirare le cuoia, diceva l’inossidabile Giulio, il quale peraltro avrebbe tutto da insegnare a Theresa May). Un’altra possibilità sarebbe quella di chiudere questa fase e indire un nuovo referendum: la speranza in un improbabile ravvedimento operoso del popolo britannico o in una sua testarda conferma, entrambe le ipotesi tali da mettere le istituzioni britanniche in grado di saltarci fuori (?) in una qualche maniera.

Tutto ciò succede a presuntuosamente voler “pisciare contro vento” e a voler essere più democratici della democrazia. Questa antistorica vicenda ha l’aria di essere partita male e di risolversi ancor peggio. Ne vengono due insegnamenti di cui fare tesoro. Il mondo è progredito, ma si è anche complicato: i problemi sono enormi e non possono essere affrontati e risolti con una semplicistica e anacronistica fuga nel particolare. Se l’Europa ha limiti e debolezze, figuriamoci i singoli Stati chiusi a riccio nelle loro illusorie certezze.

Una seconda riflessione riguarda il sistema democratico, che proprio un famoso politico inglese, Winston Churchill, ha definito, con un suo pragmatico ma saggio aforisma, “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre”. La democrazia rappresentativa non ha alternative praticabili, è una strada obbligata: provare a sperimentare scorciatoie dirette porta a perdere la bussola. I referendum sono armi a doppio taglio e molto difficili da maneggiare: chi in Gran Bretagna lo aveva promosso o frettolosamente subito pensava di rafforzarsi, invece si è indebolito tutto il sistema che si è avvitato su se stesso e rischia di impantanarsi.

C’è di che spaventarsi anche perché in Italia tirano venti assai simili alla brexit e ai referendum spropositati: c’è chi vagheggia una sostanziale presa di distanza dalla Ue, chi guarda al di fuori di essa, chi la vorrebbe ridimensionare se non snaturare; quanto alle derive referendarie c’è chi rincorre una fantomatica democrazia diretta a livello informatico. Demenzialità belle e buone. Teniamoci strette l’Europa e la democrazia rappresentativa. Stiamo nei primi danni e non andiamo a muovere del freddo per il letto.

 

Vestivamo alla democratica

Il sindaco di Danzica è morto accoltellato mentre partecipava a una manifestazione di beneficienza. Era esponente di punta dell’opposizione al governo polacco sovranista e conservatore di Jaroslaw Kaczynski. L’aggressore è stato arrestato: sarebbe un soggetto psichicamente disturbato, uscito recentemente dal carcere dove aveva scontato una pena per reati comuni. Si sospetta comunque un delitto politico.

Pawel Adamovicz era una figura di riferimento dell’opposizione liberale, capofila dei sindaci progressisti, politico tollerante, difensore dei diritti delle minoranze, favorevole all’accoglienza degli immigrati nella sua città. In poche parole rappresentava l’altra faccia della Polonia, quella filoeuropea, aperta e dialogante, erede delle conquiste liberali risalenti a Solidarnosc.

Danzica, la città dei cantieri navali, dei grandi scioperi e delle battaglie per la libertà ai tempi del regime comunista, gli ha reso omaggio con una fiaccolata assai significativa del clima di contrapposizione culturale e politica esistente in Polonia. In Italia, come nel resto d’Europa, poche righe per fotografare l’inquietante vicenda. Un tempo saremmo scesi in piazza in difesa della libertà, oggi scendiamo in piazza solo per difendere la tav.

In Europa si sta giocando grosso, si scontrano due visioni socio-culturali prima che politiche. Probabilmente questo scontro caratterizzerà le prossime elezioni. Ho evocato le manifestazioni transnazionali di un tempo per sottolineare come l’Unione Europea la si difenda e la si rilanci in una logica che va oltre i confini nazionali: in questo periodo la geopolitica viene prima della sociopolitica. È molto importante il contesto entro cui si vogliono affrontare e risolvere i problemi. Il sovranismo, vale a dire la logica nazionalista riveduta e (s)corretta, che tende a ripiegare gli Stati su loro stessi, sfocia nel populismo, vale a dire nello stile demagogico e strumentale di (non) mettere mano, o meglio di mettere pancia pancia, ai problemi della gente.

Questi fermenti malefici, che si stanno propagando, devono essere combattuti per tempo e in campo aperto: senza tentennamenti tattici e senza ripiegamenti all’interno dei confini nazionali. In questa logica si è perdenti in partenza rispetto all’avanzata degli egoismi e dei particolarismi.

Danzica non si smentisce. È sempre una città che fa storia. Il suo attuale sindaco ci ha rimesso le penne. Non interessa se il suo uccisore sia un pazzo isolato o lo strumento di un attacco politico. Adamovicz era un liberale, un uomo moderno e aperto, un europeo convinto, un oppositore dell’attuale regime polacco. È sicuramente rimasto vittima del clima negativo fatto di intolleranza  e di chiusura, montato in Polonia e non solo. Cerchiamo di aprire la mente e il cuore: la sua morte ce lo chiede. Torniamo alla politica e scacciamo i fantasmi nazionalpopulisti del passato vestiti alla sovranista.