Chiudere baracca e burattini

Nel 2003 Silvio Berlusconi, insediandosi come Presidente del Consiglio dell’Unione Europea, di fronte al Parlamento di Strasburgo ebbe uno scontro verbale col socialdemocratico tedesco Martin Schulz, invitandolo ironicamente a farsi scritturare come “kapò” in un film sui nazisti. A distanza di otto anni, nel 2011 Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, durante una conferenza stampa risero di Berlusconi, sghignazzando in risposta alla domanda se il premier italiano avesse loro dato rassicurazioni sull’introduzione in Italia delle riforme economiche necessarie per togliersi dal rischio di un default. Ci vollero otto anni alla Unione Europea per accorgersi fino in fondo del disastro in cui Berlusconi aveva portato il nostro Paese. L’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ebbe il coraggio di prendere in mano la situazione e di voltare pagina, dimissionando il cavaliere e formando il governo Monti allo scopo di evitare la caduta italiana nel gorgo economico-finanziario.

Con Giuseppe Conte l’Unione Europea ha impiegato meno tempo a rendersi conto della situazione penosa in cui si trova il nostro Paese. Durante il dibattito all’Europarlamento seguito all’intervento di Giuseppe Conte, il nostro premier è stato letteralmente ridicolizzato, con toni e sfumature diverse, dai rappresentanti di liberali, popolari e socialisti. Il leader dei liberali, Guy Verhofstad, ha dichiarato, riferendosi al Presidente del Consiglio italiano: «Per quanto tempo ancora sarà il burattino mosso da Di Maio e Salvini? Io amo l’Italia, ma oggi mi fa male vedere la degenerazione politica di questo Paese, iniziata 20 anni fa con Berlusconi e peggiorata con questo governo. L’Italia è diventata il fanalino di coda dell’Europa. Un governo odioso verso gli altri stati membri, con Di Maio e Salvini veri capi di questo governo, che ha impedito la unanimità sul Venezuela sotto pressione di Putin. Salvini si è specializzato nel bloccare porti ai migranti, ma blocca anche una riforma europea di Dublino e di una politica dei confini europea. Di Maio sta abusando del suo ufficio incontrando un movimento sì popolare, ma oggi dominato da un gruppo di demolitori che distruggono tutto, guidato da Chalencon, che ha chiesto un colpo di stato militare contro il presidente della Repubblica. Il vostro governo non ha una strategia per la crescita, ma solo una tattica per farsi rieleggere con regali e debiti».

Poi è stata la volta di Manfred Weber, il candidato popolare alla successione di Juncker: «La mancanza della crescita in Italia è una vostra responsabilità, non degli altri, ma del governo italiano. L’Italia è oggi il Paese con il tasso di crescita più basso dell’Ue. Non è un problema solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa, perché parliamo di uno dei nostri motori economici, un paese del G7. Come Ppe pensiamo che sia essenziale avere investimenti nell’Ue, ma vediamo che in Italia c’è un governo che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo su un progetto già approvato tra Italia e Francia».

Sul punto dei migranti, Conte si è visto attaccare anche da Udo Bullman, leader dei socialisti: «Non è questa l’Italia che conosciamo, l’Italia che conosciamo è quella di Spinelli. Il vostro governo deve smettere di mostrarci questo viso inumano, sui migranti. Sui migranti sono gli amici di Salvini che non vi aiutano: Orban, Kaczyski e Kurz sono gli amici di Salvini, che non vogliono riformare Dublino».

Al Parlamento europeo ci hanno fatto una nitida fotografia, hanno detto la verità che fa male, anche se farebbe peggio ignorarla e tirare a campare. Le repliche di Salvini e Conte vanno nella direzione di tendere ancor più i rapporti: ormai sono in ballo e devono ballare. Il vice-premier leghista ha risposto: «Che alcuni burocrati europei, complici del disastro di questi anni, si permettano di insultare il presidente del Consiglio, il governo e il popolo italiano è davvero vergognoso: le élite europee contro le scelte dei popoli. Preparate gli scatoloni, il 26 maggio i cittadini finalmente menderanno a casa questa gente». Il premier Conte si è così difeso: «Un capogruppo ha dato del burattino a chi rappresenta il popolo italiano: io non lo sono e non mi sento tale. Sono orgoglioso di interpretare la voglia di cambiamento del popolo italiano e di sintetizzare la linea politica di un governo che non si piega alle lobby. Forse i burattini sono quelli che rispondono a lobby, gruppi di potere e comitati di affari». Effettivamente Guy Verhofstad ha sbagliato il raffronto doveva dargli (solo) della marionetta.

Stiamo toccando il fondo, stanno succedendo cose di una gravità inaudita. Siamo tornati ad essere gli zimbelli d’Europa. Oggi sono talmente sconvolto da non riuscire, a botta calda,  a riflettere in senso politico, perché mi stanno togliendo la dignità. Di fronte a queste figuracce mi vergogno di essere italiano. La ricreazione è finita. Siamo nelle mani di un manipolo di irresponsabili, che giocano a (s)governare l’Italia. Basta! Sono contento che il Parlamento europeo ci abbia spiattellato in faccia la triste realtà. Speriamo serva. Che Sergio Mattarella ci aiuti e che Dio illumini gli elettori italiani per un rapido ravvedimento: forse siamo ancora in tempo. E chissà che a fine maggio gli scatoloni non li riempiano Salvini e Di Maio con buona pace di Giuseppe Conte. Io spero ancora in un rigurgito di lucidità dei miei connazionali.

Silenzio, rientra l’umanità

Sul fine pena di Anna Maria Franzoni si è scatenato lo sciacallaggio mediatico, a cui ha dato involontario impulso l’interessata, affrettandosi a rivendicare la propria innocenza: a un sacrosanto diritto concesso a chi riceve e sconta una condanna ha fatto riscontro la ciarliera e superficiale riapertura del caso con la solita (molto calcistica e poco giudiziaria) contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti.  Così come avevo positivamente accolto la notizia della sua ammissione agli arresti domiciliari dopo un periodo di reinserimento sociale in una comunità, ho tirato un respiro di sollievo all’annuncio della definitiva riconquista della libertà da parte di Anna Maria Franzoni, condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio del figlioletto Samuele.

Avevo umanamente considerato un autentico capolavoro la sentenza di condanna, in quanto, operando sulle attenuanti, aveva saputo coniugare la colpevolezza con i residui dubbi di infermità mentale, ma soprattutto aveva iscritto quell’episodio in una sorta di limbo cerebrale in cui quella madre aveva potuto sopprimere con inaudita violenza il figlio, probabilmente senza nemmeno accorgersene, spinta all’epilogo di  un dramma psicologico o addirittura sull’onda di una insopprimibile crisi di nervi: una pena piuttosto breve, che forse ha consentito  alla Franzoni di rielaborare l’accaduto, di toglierlo dalla mente se mai c’era entrato e di archiviarlo dalla sua coscienza se mai in qualche modo vi si era depositato  e che le ha concesso un graduale ritorno alla normalità di vita.

Il percorso giudiziario e quello umano meriterebbero grande rispetto. Invece, ecco i soliti mestatori nel torbido, i quali riprendono a discutere di un caso sconvolgente, che chiede alla sua fine solo assoluto silenzio. In questa nostra società è vietato tacere per dare la possibilità di chiacchierare a vanvera. C’è il pietismo di maniera di chi prende le parti del piccolo Samuele: non ha bisogno della nostra pietà, ma del riguardo dovuto alla sua tremenda fine per cui è stata condannata sua madre. Un doppio dramma che ci dovrebbe consigliare di astenerci da ogni e qualsiasi ulteriore speculazione. C’è l’ostinazione di chi non riesce a concepire un gesto omicida di tale violenza a carico di una madre: la vita purtroppo non esclude niente ed è inutile volere chiudere gli occhi. C’è lo spirito vendicativo di chi pensa che la pena sia stata troppo breve e ne chiede quasi un supplemento mediatico. C’è chi non aspetta altro che infangare la giustizia, incapace di affrontare le situazioni. Nei salotti televisivi tutto è facile e serve a ciarlare del più e del meno.

Ricordo una frase detta da Anna Maria Franzoni al marito dopo la scoperta del cadavere del figlio: ne facciamo un altro…Parole che in tutti i casi esprimono follia, che in ogni ipotesi collocano l’accaduto al di fuori delle umane categorie. Dopo una decina d’anni possiamo rientrare nel consesso umano: non pensiamoci più. Sarei portato a fare una carezza di bentornata ad Anna Maria Franzoni, non perché la ritenga innocente sul piano giudiziario, ma perché era uscita obiettivamente, forse senza deliberato consenso, dall’umanità e finalmente vi rientra con riconquistata dignità. Basta e silenzio! Da lei e da tutti.

 

 

Rutti o pernacchie, questo è il problema

È vero che ogni elezione fa storia a sé, come le partite di calcio, è vero che il test abruzzese non era un granché dal punto di vista quantitativo e sul piano del significato politico, tuttavia mentre l’elettorato di centro-destra si allarga e si avvinghia alla Lega di Matteo Salvini, il M5S prende una batosta ragguardevole (200.000 voti in meno rispetto alle politiche dello scorso anno, 24.000 voti in meno rispetto alle regionali del 2014); il centro sinistra regge il colpo anche se il Pd non riesce a frenare l’emorragia parzialmente compensata dall’affermazione delle liste civiche. I dati politici emergenti sono sostanzialmente tre.

La deriva destrorsa aumenta e il relativo elettorato è inequivocabilmente affascinato e guidato dal bullismo leghista e salviniano. La parte più moderata e ragionevole del centro-destra può avere solo un valore aggiuntivo, che potrebbe però diventare decisivo in proiezione nazionale al fine di conquistare una maggioranza assoluta, ipotesi possibile ma piuttosto improbabile al momento. C’è da chiedersi come mai gli elettori di centro-destra sopportino la politica dei due forni di Salvini. A lui l’italiano medio concede tutto, gli sta vendendo l’anima e la coscienza per un piatto di lenticchie pseudo-razziste.

Il M5S pare in caduta libera. Non so se il motivo sia la sudditanza politica alla Lega o l’evidente inadeguatezza governativa: i grillini duri e puri probabilmente sono stanchi del compromesso giornaliero con la vuota e pericolosa sbruffonaggine salviniana; i grillini d’occasione vanno in crisi davanti alle porcherie ed alle follie di una classe dirigente incompetente, ignorante e presuntuosa.

La situazione è in movimento, ma il Partito democratico non riesce a sfruttare gli spazi e rimane sulla difensiva: il suo contropiede non parte e continua a cincischiare a centrocampo. Il dato abruzzese forse dimostra che per il centro-sinistra rimane un certo qual bacino elettorale di riferimento, che non trova nel Pd il perno e la guida. Il messaggio degli elettori abruzzesi è un pressante invito a interrompere le battaglie interne, a cercare collegamenti col territorio, ad esprimere una dirigenza credibile ed autorevole.

Non credo sia ancora giunto il momento per Salvini di passare all’incasso previa rottura del contratto di governo con i pentastellati. Conviene cavalcare la tigre ancora un po’ e ridurre i comprimari del centro-destra a pappagalli berlusconiani che non riescono mai a dire “Eurobello”. Poi, quando la stagione sarà matura, si farà la raccolta definitiva. Attenzione comunque alle sette vite di Silvio Berlusconi: andrei adagio a considerarlo finito ed un certo appeal continua ad averlo almeno sul fronte antigrillino.

Non penso che il M5S sia in grado di riprendersi una certa autonomia e rilanciarsi a livello di protesta: sta cercando disperatamente di farlo, ma comincia ad essere la brutta copia di se stesso. Sul fronte destro regala voti a Salvini: l’elettorato vociomane e triviale finisce col preferire i sonori rutti salviniani alle sorde pernacchie dimaiane. Vivacchieranno fino alle elezioni europee continuando a sbandare per recuperare la strada e portando magari il Paese a sbagliarla su qualche fondamentale problema interno e/o internazionale.

Il Partito democratico è tutto preso dal suo congresso, convocato e svolto inopportunamente in un momento delicato, in vista di una consultazione elettorale europea, che dovrebbe essere l’occasione irripetibile per riprendersi il centro della scena e interpretare una parte importante. Qualche insoddisfatto grillino lo raccoglierà, qualche astensionista spaventato lo recupererà, qualche “maddaleno” pentito lo imbarcherà. Poca roba per dare una svolta o quanto meno per approfittare dei seppur lievi ripensamenti in atto nell’elettorato. L’unico libero pensatore e commentatore politico che merita attenzione è Massimo Cacciari. Alla domanda sui tempi e sui modi del redde rationem del governo giallo-verde ha risposto ponendo il limite di fine 2019 per raccogliere i cocci della crisi economica, della crisi europea, della crisi governativa. Ha però aggiunto a bassa voce: speriamo nel frattempo di non andare a sbattere.

 

La schizofrenia del governante protestatario

Pensavo che la mia protesta fosse forte finché non ho visto la tua con i gilet gialli: è la parafrasi di un noto spot pubblicitario del passato applicato all’attualità politica. Ormai tutti protestano: di motivi ce ne sarebbero a non finire. Un tempo si parlava e si scriveva di “contestazione globale”, ma era un discorso ideologico.

Oggi ritengo che la protesta, più che da obiettive ragioni socio-economiche (disoccupazione, povertà, ingiustizie), venga dalle paure: paura di altre culture, di altri valori religiosi; paura di perdere l’identità nazionale; paura dell’Europa; paura della mescolanza etnica e religiosa e della convivenza pacifica e rispettosa; paura della laicità dello Stato; paura… paura… Siamo paurosi. Ma con la paura non si costruisce. La novità, il futuro ci fanno paura e il passato è stato cancellato. La memoria storica è sempre più corta e affievolita: si dimenticano i lager, gli olocausti, i gulag, le foibe, le lotte per la liberazione, le dittature; si mettono sullo stesso piano oppressori e oppressi, padroni e schiavi, sfruttati e sfruttatori, onesti e mafiosi, politici onesti e disonesti.

Che ci sia chi aizza le paure e cavalca le proteste è storia di sempre, anche perché chi ha paura non cerca tanto chi gli può dare rassicurazione e speranza, ma chi lo istiga ad essere sempre più pauroso e protestatario. Il fatto gravissimo della politica italiana sta nel fatto che queste forze politiche, che intercettano la paura e fomentano la protesta, siano al governo del Paese e adottino lo stesso schema di comportamento. Non c’è niente di strano se un leader politico italiano strizza l’occhio ad una ribelle formazione politica francese. Se questo politico è vice-presidente del Consiglio e ministro del Lavoro, il discorso cambia e diventa schizofrenico. Non è solo una questione di incompatibilità politico-istituzionale, è, come dice Massimo Cacciari, una questione di confusione mentale.

Gli esempi di questa riproposizione in chiave politica dello strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde sono all’ordine del giorno: dopo la bagarre nei rapporti fra Italia e Francia, è scoppiata l’intenzione di azzerare Bankitalia e Consob. I casi sono due: o chi si comporta così ha in testa un progetto rivoluzionario in senso proprio o è un pazzo in senso proprio (e politico). La storia ha visto parecchie volte personaggi populisticamente protestatari occupare le istituzioni governative per poi distruggere il sistema e compiere svolte autoritarie, instaurando veri e propri regimi antidemocratici. Non so se in Italia si possa rischiare anche questo, ma non lo escluderei del tutto.

Il nuovo segretario confederale della Cgil Maurizio Landini durante la manifestazione sindacale indetta per protestare contro le politiche del governo giallo-verde, ha lanciato una pertinente e intelligente provocazione soprattutto ai pentastellati: «Incontrino noi, non chi protesta all’estero». Il discorso non fa una grinza: la smettano di giocare alla protesta, la lascino esprimere a chi ne è o ne dovrebbe essere l’interprete autentico a livello nazionale e lo incontrino nell’ambito delle loro competenze e funzioni istituzionali.

Inquietante è che la strada protestataria fine a se stessa non ha limiti, anzi si autoalimenta continuamente, si deve giornalmente spostare da un argomento all’altro, si deve attaccare a tutto per rimanere a galla sul mare tempestoso dell’antipolitica. Se l’antipolitica la fa l’uomo della strada, col gilet e col giaccone, c’è pur sempre da preoccuparsi, ma non da disperarsi; se invece l’antipolitica la fa il politico investito di responsabilità governative c’è da mettersi le mani nei capelli. Quando potrà mai finire questo assurdo gioco delle parti. O quando la drammaticità dei problemi romperà l’ignobile connubio tra chi li solleva sguaiatamente e chi li dovrebbe affrontare e non lo fa; o quando qualcuno riuscirà a convincere la gente a protestare cum judicio, vale a dire cercando di interloquire con chi ha serie intenzioni di affrontare i problemi. Sarebbe meglio la seconda ipotesi, anche se è purtroppo più realistica la prima. L’importante è che l’equivoco venga sciolto al più presto.

 

Un castigamatti di risulta

La CONSOB, Commissione nazionale per le società e la Borsa, è un’autorità amministrativa indipendente, dotata di autonoma personalità giuridica e piena autonomia, la cui attività è rivolta alla tutela degli investitori, all’efficienza, alla trasparenza e allo sviluppo del mercato mobiliare italiano; la funzione di vigilanza si svolge di concerto con la Banca d’Italia per quanto riguarda l’attività delle banche.

Non so se esistano incompatibilità per la nomina di Paolo Savona a presidente della Consob, non conosco il suo curriculum scientifico e professionale se non per sommi capi e soprattutto in conseguenza dei suoi incroci, ultimamente molto burrascosi, con la politica e il governo, non ho una chiara idea sui compiti istituzionali della Consob se non per i tanti casi in cui viene chiamata in causa e spesso messa sul banco degli imputati.

Mi limito pertanto ad alcune considerazioni di carattere squisitamente politico. Innanzitutto questa nomina ha tutta l’aria di un “contentino”, dopo che Savona era stato opportunamente stoppato da Mattarella per la carica di ministro dell’economia a causa della sua ambigua posizione verso l’Unione europea, dopo che era stato dirottato paradossalmente e provocatoriamente al ministero per gli affari europei, dopo non aver certo brillato per iniziativa all’interno del governo Conte. I passaggi dall’area politica a quella tecnico-scientifica non sono di per sé negativi, anche se avvengono spesso con troppa disinvoltura. Nel caso in questione è chiarissimo che a Paolo Savona, prima o poi, bisognava dare una ricompensa per aver fatto da testa di ponte durante la formazione piuttosto tribolata del governo giallo-verde. Siamo nella più bieca ritualità tanto bistrattata dal M5S. Provate a immaginare se il partito democratico al governo avesse nominato alla presidenza della Consob Enrico Letta per rimetterlo in pista dopo la sbrigativa ed eccessiva giubilazione governativa. Si sarebbe scatenato il finimondo.

Una seconda considerazione riguarda l’opportunità di questa nomina. Ho voluto richiamare in premessa la funzione autonoma di questo ente nella sua delicatissima opera di vigilanza e controllo. Che a ricoprire l’incarico di presidente sia chiamato un personaggio chiaramente opzionato da alcuni partiti e direttamente spostato da un incarico ministeriale alla Consob non mi sembra il massimo ossequio all’indipendenza di giudizio richiesta alla Commissione. Si tratta di una nomina fatta da chi predica bene “l’antipolitica” e razzola male “la politica”.  Proviamo a pensare quale polemica sarebbe sorta se ad un certo punto il governo Gentiloni avesse preso Pier Carlo Padoan e lo avesse insediato alla Consob.

Un’ultima riflessione maliziosa. Mi sembra un avvertimento fazioso ai cosiddetti poteri forti, tanto osteggiati da questo governo debole: state ben attenti perché c’è un castigamatti in arrivo. D’ora in poi le banche avranno a che fare con noi. Un ulteriore atto conflittuale nel panorama bellicoso del governo Conte: tutto viene fatto contro qualcuno e mai a favore di tutti. Un governo di classe! Non in senso sociale, non in senso stilistico, ma in senso politico: un governo non di maggioranza ma di parte, se non addirittura di partito. Buon lavoro a Paolo Savona!

Le dimissioni della (o dalla) dignità

Due questioni gettano discredito, negatività e preoccupazione sul nostro Paese. L’economia, secondo le stime e le valutazioni del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea, sta andando male, molto peggio rispetto agli altri Paesi Euro, con una crescita ridotta al lumicino, con lo spettro di una vera e propria recessione, con la probabile necessità di dolorose correzioni sui conti pubblici, con la festa del dopo manovra appena cominciata e già finita. Il governo nega l’evidenza, attacca in modo scriteriato il Fmi, non prende sul serio gli avvertimenti comunitari, gioca a fare la vittima e conferma sostanzialmente le proprie rosee previsioni: la parte recitata in Parlamento da Giovanni Tria, ministro dell’economia e delle finanze, è risultata come una penosa e stucchevole difesa d’ufficio.

Poi c’è la questione francese. I cugini d’oltralpe si sono stufati di essere attaccati dal nostro governo: su parecchi capitoli sono state lanciate autentiche bordate contro la politica francese in materia di immigrazione, di rapporti con l’Africa, di rifugio ai terroristi, di Tav, di gilet gialli. Quasi ogni giorno parte un siluro polemico verso la Francia: un vice-premier e leader del più importante partito di governo che fa la corte alle frange più estremiste dei ribelli francesi non è certamente un segno di rispetto e amicizia nei confronti di un Paese alleato e di un partner europeo. Enzo Moavero Milanesi assiste silenzioso a questi incidenti diplomatici: è stato addirittura ritirato l’ambasciatore a Roma (il precedente risale al 1940, dopo che la dichiarazione di guerra di Mussolini venne consegnata alla Francia). La politica estera del governo gli passa sopra la testa e lui, come si suol dire, abbozza.

Questi signori erano entrati al governo per fare da contrappeso tecnico agli strafalcioni politici, per riequilibrare e moderare le spinte oltranziste di un governo sbilanciato e sbracato: missione totalmente fallita. Qualcuno ritiene che Moavero e Tria siano le quinte colonne quirinalizie all’interno del governo Conte. Se Mattarella pensava di avere in essi punti di riferimento e di controllo delle situazioni, ha sbagliato per eccesso di fiducia. Ma lasciamo perdere Mattarella, che sta facendo tutto il possibile, anche troppo, per pararci i colpi. Questi due ministri, se avessero un minimo di dignità, dovrebbero dimettersi e andarsene a casa, facendo un po’ di ordine a livello di governo, togliendo ad esso le loro foglie di fico che non servono a nulla, prendendo atto di avere fallito la loro missione (se mai ce l’avessero avuta).

Invece continuano a scaldare le loro scomode seggiole, stanno perdendo reputazione e, tutto sommato, fanno un pessimo servizio al Paese. A questo punto serve chiarezza: non si può continuare a governare nell’equivoco e nell’incertezza. Battano un colpo e tolgano il disturbo. Potrebbero ancora recuperare in extremis un briciolo di credibilità. Se lo sapranno fare, meriteranno un grazie di vero cuore. Diversamente, quando li vedremo ai loro posti, non potremo che compatirli.

 

 

Le istituzioni trascinate in piazza

Mi è venuto spontaneo tentare un parallelismo tra la vicenda Lockheed e quella della nave Diciotti: confronto piuttosto arduo per i tempi molto distanti, per i reati ipotizzati assai diversi, per i riferimenti normativi cambiati nel frattempo, per le classi politiche quasi completamente mutate. Resta tuttavia un valido parametro di confronto: il discorso istituzionale.

Aldo Moro, in un memorabile intervento davanti al Parlamento riunito in seduta comune per discutere della messa in stato d’accusa di alcuni ministri davanti alla Corte Costituzionale, fece un’affermazione che viene spesso ricordata: non ci faremo processare nelle piazze. Ma espresse anche altri importantissimi concetti, riuscendo a trovare la sintesi fra la necessità di riconoscere il ruolo fondamentale della magistratura e l’orgogliosa e doverosa assunzione di responsabilità della classe politica rappresentata in Parlamento: «No, non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è di lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto. No, siamo in ballo anche noi; c’è un dovere di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona». Fin qui Moro e il suo altissimo senso politico ed istituzionale espresso in un momento delicatissimo della cosiddetta prima repubblica.

Matteo Salvini, dopo un tattico tira e molla, in una lettera al Corriere della Sera in ordine all’autorizzazione a procedere nei suoi confronti chiesta dal Tribunale dei ministri e riguardante il suo comportamento sulla nota vicenda Diciotti, scrive: «Dopo aver riflettuto a lungo su tutta la vicenda, ritengo che l’autorizzazione a procedere debba essere negata. E in questo non c’entra la mia persona. Innanzitutto il contrasto all’immigrazione clandestina corrisponde a un preminente interesse pubblico, posto a fondamento di precise disposizioni e riconosciuto dal diritto dell’Unione europea.  In secondo luogo, ma non per questo meno importante, ci sono precise considerazioni politiche. Il governo italiano, quindi non Matteo Salvini personalmente, ha agito al fine di verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i Paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti. (…) In conclusione, non rinnego nulla e non fuggo dalle mie responsabilità di ministro. Sono convinto di aver agito sempre nell’interesse superiore del Paese e nel pieno rispetto del mio mandato. Rifarei tutto. E non mollo».

Non credo che l’opzione del ministro dell’Interno sia orientata a ribadire il ruolo centrale del Parlamento nel giudicare l’operato ministeriale nei suoi limiti e nei suoi contenuti. C’è infatti un Parlamento (il Senato nel caso specifico): dovrebbe verificare che gli atti in questione siano di natura politica. Considerato che il confine tra l’azione personale e quella politica è molto labile e discutibile, che il giudizio parlamentare rischia di essere partitocratico e guidato da interessi di bottega elettorale, soprattutto che i senatori non mi sembrano in grado di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona (come auspicava Moro), è da ritenere comunque preferibile rimettere la questione al magistrato (un vero giudice come diceva Moro, non la piazza). Evidentemente Salvini preferisce farsi giudicare dalla piazza, che in questo momento gli è molto favorevole e chiede aiuto in tal senso al Senato. Mira inoltre a mettere in chiara difficoltà l’alleato di governo: siete legati a me, non potete scappare. Non si spiega diversamente la brusca inversione di marcia dalla difesa nel processo alla difesa dal processo.

Ho già scritto sulle conseguenze politiche che questa vicenda giudiziaria dovrebbe comunque avere; oggi, sulle ali nostalgiche del pensiero di Aldo Moro e dei giganti della nostra Repubblica democratica, mi soffermo a riflettere sulla totale mancanza di senso delle istituzioni, sul duro colpo che ad esse viene comunque inferto, e sull’attuale piccolezza politica degli uni e degli altri: la Lega vuole sottrarsi al giudizio del magistrato perché sente di avere il vento populista in poppa; il M5S preferirebbe (staremo a vedere se non si piegherà alla realpolitik per salvare il governo) passare la patata al giudice ordinario in nome di un giustizialismo demagogico e piazzaiolo ante-litteram, cavalcato a più non posso e che nulla ha da spartire con una seria considerazione delle funzioni e dei poteri della magistratura. La funzione del Parlamento, come già avvenuto di recente (legge di bilancio e manovra economica), è ridotta a registrazione delle convenienze politiche delle forze di governo: ecco perché sarebbe meglio, come detto sopra, rimettere il giudizio alla magistratura.

In questi giorni di confusa vita politica ed istituzionale mi viene oltremodo spontaneo tornare a personaggi che hanno fatto la storia italiana: i De Gasperi, i Moro, i Dossetti, i La Pira, i Togliatti, i Fanfani, i Berlinguer, etc. etc. Durante il dibattito parlamentare sulla fiducia al primo governo Berlusconi nell’ormai lontano 1994, un esponente di Forza Italia (non ricordo il nome) polemizzò con l’opposizione di allora, costituita da forze di centro-sinistra non ancora riunificate nel partito democratico: “Rimpiangiamo il partito comunista”, disse polemicamente. Rispose altrettanto polemicamente Massimo D’Alema: “E noi rimpiangiamo la Democrazia Cristiana”. Chiuso nel mio piccolo guscio democratico a prova di bomba pentaleghista, aggiungo: “E io rimpiango la democrazia cristiana e il partito comunista!”.

La tav…olata del governo scombinato

Non ho capito se la questione TAV sia effettivamente un argomento divisivo nei rapporti tra cinquestelle e leghisti o se sia soltanto il pretesto per far finta di litigare per poi magari litigare sul serio e arrivare alla separazione. Da quanto è dato sapere il problema (non) era affrontato nel contratto di governo. In esso infatti è scritto: “con riguardo alla linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”.

L’analisi costi-benefici a cui si è tentato di legare la soluzione del problema è arrivata a precisare i costi: due miliardi per fermare i lavori, tre miliardi per completarli. Quanto ai benefici è praticamente impossibile quantificarli, perché si spalmano nel tempo sull’intera comunità in termini di migliori comunicazioni, di minor inquinamento, di impulso ai traffici, di collegamenti più veloci, etc. I grillini scantonano, valutando cosa si potrebbe fare di meglio a livello di infrastrutture con gli stessi soldi: altro discorso piuttosto astruso e demagogico. C’è sempre un modo migliore per spendere: siamo al benaltrismo degli investimenti pubblici infrastrutturali.

La popolazione è divisa: lo scontro avviene più ideologicamente che programmaticamente: da una parte gli sviluppisti al limite dello scriteriato “andare avanti anche se si rischia di andare a sbattere”; dall’altra parte gli ambientalisti al limite del “cretinismo ecologico”. Il problema va tolto dalle secche ideologiche per essere portato sul piano delle scelte strategiche di uno sviluppo compatibile. L’operazione andrebbe fatta da una classe dirigente governativa competente e lungimirante: due qualità che mancano all’attuale compagine governativa.

I debutti governativi dei grillini sono sempre caratterizzati, a qualsiasi livello, da questioni strutturali affrontate con l’accetta: forni inceneritori per i rifiuti, Tav e Tap. Chi si pone in antitesi (non in alternativa) rispetto al passato ha bisogno di dare eclatanti segnali rivoluzionari di cambiamento, che poi generalmente si rivelano fuochi fatui, perché la continuità sistemica incalza e impedisce la distruzione di quanto già esiste.

Allora, o ci si converte frettolosamente al pragmatismo con il contraccolpo populista del tradimento o si insiste col fanatismo nuovista e ci si condanna alla paralisi governativa. I leghisti non si vogliono far stritolare da questa macchina “schiacciapartiti”; anch’essi puntano all’antipolitica, ma tendono a sposare la tesi del continuismo economico coniugandola con la versione egoistica del garantismo sociale. Credo sia questo il nodo fondamentale che si stringe attorno ai rapporti tra M5S e Lega. Sulle tante questioni, che quasi giornalmente emergono, si staglia lo spettro di cui sopra.

Fin che sarà possibile proveranno a tirare a campare, gara sempre più dura; quando non sarà più possibile tireranno le cuoia. Qualcuno dirà che negli accordi di governo è sempre stato così: non è vero. C’erano idee diverse, linee politiche diverse, priorità diverse, personalismi vari. Non c’era alla base il proposito di picconare il sistema e non si litigava sul piccone da usare. Oggi invece è così.

 

Il panico dell’ignoranza

All’articolo 87 della Costituzione Italiana, che fissa i poteri del Presidente della Repubblica, bisognerebbe aggiungere una dizione rispecchiante quanto sta avvenendo, fortunatamente e clamorosamente, nei fatti: “Individua gli errori del governo e ne propone la relativa correzione”. Siamo alla Costituzione materiale.

Di fronte alla penosa balbuzie governativa emergente di fronte alla situazione venezuelana, il Capo dello Stato è intervenuto con pazienza e classe infinite, dettando la linea a chi straparla o “stratace”, portando il nostro Paese all’isolamento e alla deriva internazionale. L’ambiguità del governo è inaccettabile: gioca a nascondino con l’Ue, facendosi dettare la linea da un illustre sconosciuto di nome Alessandro Di Battista, che osa farneticare: «Ci vuole coraggio a mantenere una posizione neutrale in questo momento, lo so. L’Italia non è abituata a farlo. Ci siamo sempre accomodati in modo vile agli esportatori di democrazia. L’Europa dovrebbe smetterla una volta per tutte di obbedire agli ordini statunitensi. Il mondo va avanti. Suggerisco coraggio e lungimiranza e soprattutto una difesa sostanziale dell’articolo 11 della Costituzione». Parole sparate sul filo dell’ignoranza totale, con la conseguente presunzione di un nano a giudicare la storia su cui hanno lavorato i “giganti”, da De Gasperi a Moro, da Fanfani a Saragat, tanto per fare qualche nome.

In poche soppesate e significative parole Sergio Mattarella ha smontato le contraddizioni di un governo assurdo e seppellito le velleitarie esercitazioni dei dilettanti allo sbaraglio. Si è limitato ad auspicare “chiarezza su una linea condivisa con tutti i nostri alleati e i nostri partner europei” e ha aggiunto che “la scelta è tra la volontà popolare e la richiesta di autentica democrazia da un lato e dall’altro la violenza della forza”.

Il Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri dovranno assumersi le loro responsabilità e smetterla di portarci in giro per il mondo a fare la parte dei cretini. Anche Matteo Salvini ha dovuto riconoscere che non stiamo facendo una bella figura. Lui dovrebbe starsene zitto, ma, sfoderando il minimo dei minimi di senso politico, forse ha capito che su certe cose non si può improvvisare o scherzare.

So benissimo cosa dirà la gente: cosa ce ne importa di Maduro e di Guaidò? Guardiamo in casa nostra! I venezuelani se la vedano fra di loro e decidano cosa vogliono fare! Questi commenti triviali fanno eco ad una classe politica, che usa le istituzioni italiane per giocare alla playstation. Probabilmente Mattarella riuscirà per l’ennesima volta a toglierci le castagne dal fuoco. Non manca più che dichiarare guerra alla Francia e bombardare la Tav finora realizzata: a parole sta già succedendo.

Quanto a Trump ed alla sua strampalata politica estera, il suo stratega Bannon non si è dichiarato il sensale del matrimonio pentaleghista e non ha una passione per il Movimento 5 stelle e per Beppe Grillo, di cui apprezza la rabbia sciorinata sulla scena politica? Improvvisamente Trump è diventato un golpista petrolifero?  Putin è un forte riferimento internazionale per grillini e leghisti: lui sta con Maduro e potrebbe avere speso una parola sulla loro mano per ottenere almeno una neutralità che fa comodo al dittatore venezuelano. E questo sarebbe il coraggio della neutralità? Forse è solo il panico dell’ignoranza!

Il setaccio congressuale delle idee

Il congresso del Partito democratico sta faticosamente prendendo corpo e vita: sono usciti tre contendenti che si apprestano a confrontarsi e misurarsi alle primarie, laddove il bacino si allarga dagli iscritti agli elettori, laddove le proposte politiche si dovrebbero meglio precisare e i gruppi dirigenti dovrebbero uscire allo scoperto.

L’attuale debolezza di questo partito rischia di condizionarne il futuro riducendo il dibattito alla politica delle alleanze: dialogo con il M5S o chiusura ad esso? Come se un soggetto con scarsi mezzi economici, prima di pensare a guadagnare di più, si ponesse il problema di cercare un partner economico con cui mettersi in affari. Ripristino di una certa cinghia di trasmissione con la CGIL o rispetto comunque dell’autonomia del sindacato? Sarebbe come se un soggetto che si sente isolato cominciasse a promettere stretti legami ai parenti con cui non ha frequentazione facile e spontanea. Ricucitura con i fuorusciti di sinistra o presa d’atto di un recente travaglio che è stato una importante concausa dell’indebolimento? Sarebbe come se due coniugi, che vivono separati, chiedessero ai figli il parere su una eventuale riconciliazione.

Un altro grosso rischio è quello di rimettere i contenuti in un anacronistico setaccio destra-sinistra, partendo dalle ideologie e non dalla realtà, privilegiando gli schieramenti rispetto ai problemi. Il partito democratico deve sforzarsi di affrontare le problematiche moderne (difficoltà economiche, disagi sociali, disoccupazione, povertà emergenti, etc.) non in chiave velleitaria, ma in una logica riformista, che riesca ad imporre sacrifici in una credibile prospettiva di crescita equilibrata.

Non basta rincorrere spasmodicamente ed episodicamente le periferie: bisogna andare incontro con realistiche proposte alle loro esigenze. Volendo usare una metafora, che mi è ormai spontanea, occorre portare la politica dalla irrazionale “pancia” in cui è sprofondata (le paure) alla preoccupante tasca in cui fare i conti (le reali difficoltà economiche e sociali) ed al fine cervello con cui ragionare di gradualità riformista (la miscela tra le libertà individuali ed economiche e le esigenze di uguaglianza e giustizia sociale). Non si può aspettare che emergano le contraddizioni altrui per poi riprendere il controllo della situazione. Sarebbe come aspettare sulla riva del fiume il cadavere dell’avversario senza accorgersi di essere in pericolo di morte.

L’ultimo rischio da evitare è quello di avere paura dell’Europa e stare alla finestra in attesa che l’Ue riprenda vigore. Il partito democratico si deve “testardamente” presentare come europeista, senza timore di essere considerato visionario, inconcludente e fuori moda. Su questa linea europeista convinta vanno cercate alleanze interne ed internazionali: l’opzione europea viene prima di tutto e quindi non ha senso temere di compromettersi con movimenti e manifesti non perfettamente inclusi nell’anagrafe del partito.

Senza l’ansia di recuperare i consensi, senza la paura di chiarire (troppo) bene i contenuti, senza il timore di mettere in piazza le soluzioni dei problemi, senza il pudore di confrontarsi apertamente tra dirigenti vecchi e nuovi, senza la vigliaccheria di coprire gli errori commessi, senza cedere alla tentazione di cominciare tutto daccapo, senza vergognarsi di essere (troppo) democratici. Chi ci sta ci sta!