Il maestro razzista e i maestri di razzismo

Non sono solito buttare la croce addosso a qualcuno perché mi sembra sempre un inaccettabile espediente per mettere a posto la coscienza collettiva. Non fa eccezione il maestro di Foligno protagonista di un episodio incredibile e sconcertante di razzismo ai danni di un bambino. Stando a quanto trapela dalle cronache l’insegnante sarebbe addirittura recidivo in quanto avrebbe già definito “scimmia” la sorellina del bambino mostrato ai compagni come esempio di bruttezza. Non so cosa sia passato per la testa di questo educatore: si difende e si scusa sostenendo di aver tentato “un’attività per l’integrazione finalizzata a far prendere coscienza agli studenti del concetto di differenza razziale e di discriminazione”. Saremmo al paradosso, anche se tutto è possibile: se ben capisco, questo maestro avrebbe commesso dei gesti razzisti per far capire agli alunni che non bisogna essere razzisti. Forse era meglio mostrare con immagini appropriate cosa hanno sofferto e cosa soffrono le vittime del razzismo. L’autorità scolastica e, se necessario, quella giudiziaria chiariranno le responsabilità e prenderanno i provvedimenti del caso.

“Sono vicino a quel bambino, ma non può essere tutta colpa di Salvini come pensano i professoroni e i commentatori di sinistra”, ha detto il vicepremier Matteo Salvini, commentando le polemiche successive ai fatti di cui sopra. Un tempo si diceva: la prima gallina che canta ha fatto l’uovo. Non sono un professorone, non sono un commentatore di mestiere ma una persona che riflette ed esterna le sue riflessioni, sono di sinistra e me ne vanto. Faccio un ragionamento che sicuramente non piacerà a Salvini, ma purtroppo lui continuerà a salire nei sondaggi e nei voti ed io rimarrò solo soletto con le mie crisi di coscienza.

Seminare paura e intolleranza non giova certamente a creare un clima di rispetto reciproco e di convivenza civile. La politica si sta assumendo la gravissima responsabilità di soffiare sul fuoco, se non addirittura di accendere il fuoco, della insofferenza e della discriminazione, che fanno da preludio all’insorgere o al risorgere di sentimenti razzisti. In una situazione di estrema tensione dove gli immigrati vengono vissuti come usurpatori di lavoro, come delinquenti in pectore, come profittatori di welfare, ci può stare anche la scorribanda pseudo-razzista di un maestro elementare.

Quando i governanti considerano i naufraghi come pacchi postali da respingere al mittente, quando si usano le ruspe per sgombrare i campi profughi, quando si afferma che la pacchia è finita intendendo per pacchia la possibilità per un disperato di essere accolto dalla nostra società, quando si criminalizzano le organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio in mare di quanti tentano la disperata fuga verso il miraggio della salvezza, quando si ritiene genericamente che  i gestori delle strutture di accoglienza siano personaggi senza scrupoli che speculano sugli immigrati, quando si dialoga con stati e governi che adottano la logica del muro per difendersi dall’invasione dei disperati, quando si restringe la politica dell’immigrazione alla guerra contro i trafficanti di profughi, quando si nasconde il problema dietro il paravento dell’indolenza europea, quando si adottano provvedimenti di legge burocraticamente finalizzati a sbattere fuori gli immigrati senza considerare i loro diritti e i nostri doveri, quando si raccolgono voti e consensi sparando cazzate sul tema immigrazione, quando si contravviene ai principi di umana solidarietà e si scavalcano bellamente i criteri alla base della nostra Costituzione, quando avviene tutto ciò in un coinvolgente crescendo rossiniano, non ci si può e deve stupire se qualche persona canta: il coro ha i suoi maestri.

D’altra parte il maestro di Foligno avrebbe detto ad una bambina di pelle nera: “Sei così brutta che possiamo chiamarti scimmia”. Nel 2013 Roberto Calderoli, senatore leghista e vice-presidente del Senato, alla festa del suo partito disse riferendosi al ministro Cecile Kyenge, donna di pelle nera e originaria della Repubblica Democratica del Congo: «Quando la vedo non posso non pensare a un orango». Francesco Speroni, capo delegazione della Lega all’Europarlamento, commentò così l’uscita del collega: «Dal punto di vista fisico Calderoli può anche avere ragione. D’altronde non si diceva che Celentano sembrasse uno scimpanzé. I paragoni tra animali e personaggi ci possono stare. Non si tratta assolutamente di razzismo, perché ognuno può dire quello che vuole».

 

Spazzacorrotti o spazzaciviltà?

Non provo alcuna soddisfazione nel vedere i politici sottoposti a processo penale e tanto meno nel vederli andare in carcere. Sono umanamente molto dispiaciuto per l’esito della vicenda giudiziaria di Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia ed ex esponente politico di primo piano, che dovrà scontare una considerevole pena conseguente alla condanna definitiva per reato di corruzione.

Innanzitutto ritengo inaccettabile la solita gogna mediatica con gli inviati speciali a stazionare davanti al carcere in cui dovrà fare il suo ingresso Formigoni: è ora di finirla con questi atteggiamenti incivili. Una persona condannata ha il diritto di essere lasciata in pace e rispettata nel suo dramma umano. Non credo abbia nulla a che fare con il diritto di cronaca e il dovere di informare la pubblica opinione lo sguinzagliare giornalisti e reporter per carpire qualche immagine di un “potente” che paga i suoi errori. C’è in questi atteggiamenti un che di giustizialismo che non condivido affatto.

In secondo luogo non capisco perché la cosiddetta legge “spazzacorrotti” non dia possibilità ai condannati per reati di corruzione di usufruire delle misure alternative al carcere: proprio a chi ha approfittato della propria posizione pubblica per lucrare vantaggi dovrebbe essere concessa la possibilità di ravvedersi e di risarcire la comunità, prestando la sua opera in iniziative di carattere umanitario e sociale. Il resto è pura cattiveria e spirito vendicativo che rifiuto da tutti i punti di vista.

In terzo luogo ho il timore che Formigoni possa fare da capro espiatorio politico per tutta la corruzione presente nella pubblica amministrazione: sarebbe veramente ingiusto per lui, ma anche per l’intera società. Non ho seguito l’andamento processuale e do per scontato che i reati a lui ascritti siano provati. Ciò non significa che la sua debba diventare la condanna esemplare all’insegna del “colpirne uno per educarne cento”. Non avrei mai pensato di dover scrivere queste cose per un personaggio politico che mi è sempre stato sullo stomaco. Mio padre, mia madre, mia sorella mi hanno insegnato che non bisogna mai attaccare le persone quando sono in posizione di debolezza, in quel momento deve scattare una sorta di tregua umana: davanti al dramma di un uomo che viene privato della libertà, che entra in carcere per scontare una pena, che patisce l’umiliazione di essere seppure provvisoriamente emarginato dalla società in cui ha vissuto, il più bel tacer non fu mai scritto.

Ribadisco di non aver mai avuto simpatia politica per Roberto Formigoni, ma, forse anche proprio per questo, mi sento di esprimergli umana solidarietà: che la sua fede religiosa, su cui peraltro si è fatta ironica speculazione, lo possa aiutare a ritornare serenamente nella società dopo aver pagato il suo caro prezzo.

La ricottina governativa

L’Unione europea esprime un durissimo giudizio su reddito di cittadinanza e quota 100 e sottolinea gli effetti negativi sulla crescita delle due principali misure approvate dal governo M5S-Lega nella manovra economica. Nelle intenzioni e nelle convinzioni (?) dei partiti di governo, i due provvedimenti dovrebbero rispondere a criteri di equità ed assistenza sociale, ma anche alla necessità di un impulso significativo della ripresa economica ed occupazionale. In molti a livello scientifico, tecnico, politico ed istituzionale (ultima la Commissione europea col suo rapporto annuale sulle economie dei paesi dell’Unione) hanno espresso dubbi e perplessità al riguardo.

Questi due provvedimenti, che dovrebbero consentire a migliaia di persone di ottenere il pensionamento anticipato rispetto alle regole precedenti ed a centinaia di migliaia di persone, in condizioni di conclamata povertà, di avere un sussidio, sono stati sostanzialmente finanziati in deficit, andando al di là delle possibilità di bilancio e forzandone ulteriormente l’equilibrio. Non sono un rigorista né di vocazione né di convinzione e quindi non considero il disavanzo nei conti pubblici una sorta di demonio da evitare sempre e comunque e da esorcizzare. Tutto dipende dal perché si crea deficit e dagli effetti che ne conseguono.

L’ideale sarebbe riuscire a coprire questo sbilancio aumentando le entrate fiscali, combattendo coraggiosamente l’evasione o alzando le imposte, non tanto sui redditi già sufficientemente tartassati, ma sui patrimoni. Diversamente lo squilibrio si ripercuote sul debito pubblico provocandone l’aumento e creando un clima di preoccupazione ed allarme nella filiera banche-imprese-investimenti-consumi. Gli istituti di credito devono quadrare i loro conti a spese della clientela, restringendo l’accesso al credito e/o rendendolo più oneroso; le imprese entrano in ulteriori difficoltà rispetto a quelle già riferibili all’andamento negativo dell’economia mondiale, europea e nazionale; gli investitori non trovano i riscontri dovuti e rinunciano ai loro progetti o fuggono altrove; i consumatori tirano i remi in barca ed acquistano sempre meno prodotti limitandosi allo stretto necessario.

Il clima di incertezza economica e politica aggiunge benzina al fuoco e compromette l’andamento dei mercati finanziari, aumenta lo spread, le banche restringono il credito, le imprese soffrono, gli investimenti latitano e i consumi restano al palo. Tutto come sopra: il cane che si morde la coda. Per rompere questa spirale negativa occorrerebbe almeno l’autorevolezza, la credibilità e la stabilità politiche, che ridessero fiducia agli operatori economici e finanziari. Siamo esattamente all’opposto e il governo italiano sembra faccia apposta a creare giornalmente motivi di polemica, conflitto e incomprensione a tutti i livelli. In un simile clima economico l’occupazione non può crescere: i pensionamenti non creeranno il turnover auspicato, gli assistiti non troveranno lavoro, i sussidi non spingeranno i consumi. Ecco quel che sta succedendo e rischia di succedere sempre più: i progetti, se non sono supportati da prospettive concrete, diventano sogni e vanno in fumo.

La povera Rosalina viveva nella più assoluta miseria in un paesino di campagna. Un giorno gli diedero in dono una bella ricottina: Rosalina la mise in un cestello e se ne andò al mercato. Lungo il cammino cominciò a fantasticare, facendo i suoi progetti: andrò al mercato, venderò la ricotta, con quei soldini comprerò delle uova che metterò sotto le chiocce e nasceranno i pulcini che diventeranno polli; venderò i polli e comprerò delle caprette che mi daranno i caprettini: io li venderò e comprerò una vitellina che diventerà mucca e mi darà il latte per fare tante ricottine. Diventerò ricca e la gente passando davanti alla mia bella casetta mi dirà: “Riverita signore Rosalina, riverita!”. Nel dir così la svampitella fece un profondo inchino e la ricotta andò a finire in mezzo alla strada.

Questa sera si recita a soggetto

Il movimento cinque stelle, fra non pochi mal di pancia dei suoi militanti e nel disorientamento dei suoi elettori, ha imboccato la strada del tirare a campare a livello di governo e di convivenza con l’alleato leghista. Cominciano a volare parole grosse verso lo stato maggiore pentastellato, verso lo stesso Beppe Grillo, spuntano cartelli contro il tradimento dei principi ispiratori, serpeggiano conflitti e divisioni interne: il voto contro l’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini ha innescato una vera e propria diaspora.

E non è finita, è solo appena cominciata! Si profilano altri importanti ed ancor più rilevanti banchi di prova, fra cui spiccano la questione Tav e il problema delle autonomie regionali rafforzate. Il contratto di governo rischia di diventare carta straccia, il peso politico dei due movimenti si è capovolto, le elezioni regionali ed europee aumentano la conflittualità, la crisi economica impazza e la manovra economica dimostra tutte le sue lacune contenutistiche e scopre tutte le sue promesse illusionistiche.

Tempi duri per i grillini, in calo di consensi e di credibilità: la Lega se li sta cucinando pian piano, aspettando il momento opportuno per divorarli. Un movimento senza storia e senza cultura è destinato a rimanere paralizzato tra la incontenibile voglia di protesta e la realistica smania di potere. Come ne usciranno? Sulla Tav sono isolati, condizionati dalle solite promesse fatte a vanvera in campagna elettorale, impiccati ad uno studio tecnico-scientifico universalmente ritenuto inattendibile: stanno pisciando contro vento. Dovranno estrarre dal cilindro un altro coniglio: il ricorso alla piattaforma Rousseau non funzionerà, perché troppo grande sarebbe la foga rivoluzionaria da contenere in uno striminzito meccanismo informatico. Dovranno calare le braghe, trovando un modo elegante per farlo. Non hanno contropartite agevoli e popolari da chiedere alla Lega, non credo che potranno contare su una serie di provvedimenti giudiziari spalmati sugli avversari e tali da oscurare mediaticamente le proprie minchiate. Staremo a vedere…

Forse ancor più difficile è la matassa delle autonomie regionali su cui la Lega si gioca la faccia e l’unità: il M5S rischia di diventare sempre più il difensore delle rimostranze meridionaliste. L’opposizione alle rivendicazioni delle regioni forti mette i grillini in una posizione di scomodissima retroguardia e li costringe ad una fuga dalla realtà. Il problema oltre tutto è che non potranno guadagnare tempo in vista delle elezioni per poi rifare i conti e rivedere magari il contratto di governo: la Francia, la Ue, i governatori del nord incalzano. I risultati elettorali, stando ai sondaggi segnerebbero una netta affermazione leghista ed una altrettanto netta retrocessione pentastellata. Il movimento non sembra in grado di esprimere una diversa classe dirigente, capace di prendere il toro per le corna. Grillo è in chiara e netta difficoltà. Staremo a vedere…

Siamo in un teatrino dove si recita a soggetto: una tecnica teatrale molto utilizzata dall’avanspettacolo e dalla rivista. Nel primo caso serviva solo a preparare il palcoscenico al vero spettacolo tenendo caldo l’interesse del pubblico; nel secondo caso si trattava di un genere leggero di puro intrattenimento. Anche in questi spettacoli emersero tuttavia autentici fuoriclasse. La metafora teatrale però si (inter)rompe in quanto nella situazione politica italiana esistono copioni molto precisi, impegnativi e drammatici a cui si risponde con improvvisate ed alienanti gag: non c’è da divertirsi, le risate sono amare, prima o poi arriveranno i fischi e le urla e forse qualche ortaggio (o qualcosa di peggio) arriverà sul palcoscenico.

Il letto della protesta e la tavola del potere

L’esito del referendum dei militanti grillini mi ha sorpreso per la realpolitik che lo caratterizza: hanno legato l’asino dove vuole il potere alla faccia della loro storia fatta di battaglie parolaie contro il potere stesso. Il grillismo sta cambiando pelle ho aveva addosso solo una finta pelle? A tal proposito mi sono chiesto più volte quale sia la differenza tra il M5S riconducibile a Di Maio e Di Battista (non più a Grillo, che mi sembra in altre faccende affaccendato) e la Lega reinventata da Salvini (non più da Bossi messo vergognosamente in disparte). Sono andato per esclusione.

La diversità non sta nella collocazione a destra o sinistra dello schieramento politico: sono entrambe forze di destra, se per destra intendiamo la reazione ai principi democratici per planare su populismo e sovranismo. La diversità non consiste negli atteggiamenti istituzionali: sono tutti di fatto alla disperata e disperante ricerca del superamento dell’impianto costituzionale in nome dell’antipolitica e della protesta contro i poteri forti. Non hanno strategie politiche divergenti: litigano sulla strada da percorrere, ma la meta è identica; il contratto di governo formalizza un compromesso storico che punta a sovvertire l’ordinamento democratico, superando i concetti di democrazia rappresentativa, di comunità europea, di convivenza internazionale, di uguaglianza razziale, di solidarietà umana. Le loro leadership di vertice non hanno alcuna base e storia culturale, ma si fondano sulla furbizia delle intuizioni mediatiche, dei tatticismi e degli opportunismi.

Non è un caso se in parte si rubino i voti e se, volendo in qualche modo accentuare le loro differenze, rischino di assomigliarsi sempre di più e di costringersi in un’alleanza sempre più stretta. Mentre Salvini vive da separato in casa nel centro-destra, Di Maio non riesce ad avere alcuna interlocuzione plausibile con la sinistra da cui si allontana sempre più e su cui scarica tutte le colpe passate, presenti e future. Sono costretti a stare insieme e la loro convivenza si fonda sul letto in cui raggiungono gli orgasmi della protesta e sulla tavola in cui si ingozzano di potere in nome dell’antipolitica.

E allora? Nessuna diversità? Resta qualcosa che non riescono a cancellare: il senso politico, che è fatto anche di sfumature, di tempi e modi, di atteggiamenti. I pentastellati sono portati a partire lancia in resta senza curarsi delle ripercussioni e delle conseguenze. La Lega, forse perché ha un elettorato più politicizzato, un partito più strutturato, una storia politica più lunga, un radicamento territoriale più forte, una classe dirigente più sfaccettata ed esperta, un collegamento più preciso con certe classi e fasce sociali, deve misurare l’effetto delle proprie scelte e porre maggiore attenzione ai loro effetti.

Si possono fare alcuni esempi. Salvini frena negli attacchi a Bankitalia; si distingue nell’atteggiamento verso la crisi venezuelana; difende la Tav e le opere pubbliche; punta forte sull’autonomismo regionale; è meno spinto nei contrasti con la Francia; etc. etc. Fino ad ora ero propenso a vedere in tutto ciò una debolezza nella convivenza pentaleghista, mi sto invece accorgendo che è solo questione di stile, paradossalmente più controllato e misurato non tanto nel linguaggio ma nei dosaggi. Per dirla sotto metafora: Salvini fa politica concretamente all’osteria, Di Maio preferisce la piazza reale o informatica. Le amicizie si coltivano all’osteria e non in piazza. I patti si stipulano meglio bevendo vino piuttosto che gridando al lupo. Il leghismo mantiene il suo approccio ruspante e facilone combinato con la prassi politica pressapochista. Il grillismo è abbarbicato al suo scetticismo globale collegato all’ignoranza totale. Tutto qui. Poco a favore di una separazione a breve, molto a favore di un divorzio a lungo.

 

I nazistelli in agguato

I gilet gialli hanno mostrato la loro faccia violenta. Un episodio incredibile ha visto un gruppo di essi aggredire il filosofo e accademico francese Finkielkraut, figlio di ebrei polacchi scampati alla Shoah e sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz: «Sporco ebreo, sporco sionista, la Francia è dei francesi, il popolo ti punirà». Non è purtroppo un episodio isolato, ma l’acme di una escalation razzista emersa nelle manifestazioni, che suscita orrore. Bastino le scritte e gli slogan riportati dalle cronache: ”La Francia muore di fame e gli ebrei accendono le luci di Channukkà”; “Macron, sei la puttana degli ebrei!”; “Macron, sei il pupazzo degli ebrei”.

La protesta di piazza o sulla rete può avere motivi seri e partire da rivendicazioni valide, ma, se il suo leitmotiv è la paura e il suo approccio è l’antipolitica, finisce col dare sfogo all’odio, egemonizzato dall’estremismo di destra e infiltrato dall’antisemitismo.   La storia e l’attualità vanno a braccetto: il vizio di far risalire la crisi economica ai poteri forti ed ai complotti demo-pluto-giudaico-massonici è una caratteristica dei regimi e delle ideologie fascisti e nazisti ed in esso stanno cadendo certi movimenti o almeno certe frange di movimenti apparentemente rivoluzionari, ma sostanzialmente reazionari.

Il movimento cinque stelle, non so se per ignoranza, dabbenaggine, ingenuità o convenienza, è caduto nella trappola, lasciandosi irretire dai gilet gialli, ritenendoli un interlocutore interessante: a poco valgono le tardive prese di distanza dalle posizioni più estremiste contenute nel ribellismo francese. Non voglio esagerare affermando che “ogni simile ama il suo simile”: fino a qualche tempo fa ero convinto che il grillismo avesse fatto da spugna democratica rispetto alle incontrollabili spinte protestatarie, garantendo, bene o male, una rappresentanza politica alle istanze popolari esprimentesi al di fuori dei partiti tradizionali. Non ce l’hanno fatta. In parte è loro sfuggita di mano la situazione, in parte la loro pochezza politica li ha costretti più a cavalcare la protesta che a interpretarla e rappresentarla, in parte la piazza, reale o virtuale, finisce col deviare nel segno della violenza.

Le paure hanno una istintiva radice, che, se non trova sbocchi politici adeguati, porta all’odio sociale e financo a quello razziale. Chi semina paura raccoglie odio. Il M5S sta brancolando nel buio e si attacca a tutto ciò che passa il convento della protesta in Italia e all’estero, avendo la presunzione di riuscire a tradurlo nell’innovazione politica. Quando la smania di cambiamento non è accompagnata da un forte senso democratico e non è radicata nella fiducia istituzionale, porta fuori strada laddove, come dice Bernard-Henry Levy, si possono incontrare anche fascistelli e/o nazistelli che aggrediscono uno scrittore francese al grido di “torna a Tel Aviv” e di “noi siamo il popolo”.

Senonché i fascistelli e/o i nazistelli possono anche rappresentare le variabili impazzite di movimenti borderline che trovano consensi di massa. Allora non basta il pur saggio, tempestivo e condivisibile auspicio di Bernard-Henry-Levy alla luce dell’episodio suddetto: «Possa questo scena allucinante polverizzare gli ultimi rimasugli di impunità mediatica di cui godevano i Gilet gialli». In Italia dobbiamo capire di aver messo al governo due forze politiche che, per ignoranza o convinzione o storia o ispirazione, giocano sul terreno minato delle paure fatte odio. La paura fa novanta e l’odio fa novantuno su una ruota dove i numeri della democrazia non escono mai.

I rospi da ingoiare o da baciare

La patata bollente, riguardante la decisione sull’autorizzazione a procedere della magistratura contro Matteo Salvini per reati commessi nella gestione della vicenda “Diciotti”, viene messa elegantemente in mano agli iscritti del M5S. La cosa per i grillini stava diventando troppo scomoda e delicata: dire no voleva dire rinsaldare gli equilibri di governo, ammorbidire i rapporti con la Lega, ma poteva significare scontentare gran parte dell’elettorato pentastellato abituato alla linea giustizialista (soprattutto per gli altri…). Dire sì avrebbe segnato un punto a favore della coerenza e dell’osservanza degli umori della base, ma avrebbe potuto creare problemi all’interno del governo, dopo che il presidente del Consiglio si era schierato politicamente in difesa del ministro degli Interni, addossandosi totalmente la responsabilità delle decisioni in odore di reato.

Durante la trasmissione radiofonica di “tutto il calcio minuto per minuto”, quando un cronista viene interrotto per un evento verificatosi su altro terreno di gioco, il collega interferente, al termine del suo flash, è solito concludere dicendo “linea al collega che stava parlando”.   “Decisione a chi ci vota”: così il M5S ha pensato di scaricare la questione sulle spalle dei grillini frequentatori del web. Al solo pensiero di buttare decisioni così delicate in pasto ad un banale clic, mi si gela il sangue nelle vene. Siamo al metodo del “pollice verso” rovesciato. Se non è populismo questo…Pura follia!

L’esito è quasi scontato. I parlamentari cinquestelle, in commissione ed in aula, si dovranno attenere all’indicazione emergente dalla consultazione informatica, salvo essere probabilmente espulsi dal movimento. Se, come tutto lascia prevedere, il responso sarà un sì all’autorizzazione, i maggiorenti pentastellati di fronte a Salvini allargheranno le braccia e si nasconderanno dietro il dito di un assurdo referendum; se dovesse mai uscire un no, saranno baci e abbracci con Salvini e si potrà tranquillamente procedere a baciare il rospo. A favore del no potrebbe però giocare l’indagine aperta anche su Conte, Di Maio e Toninelli con possibile ripetizione della procedura dell’autorizzazione anche per loro: d’altra parte hanno affermato e scritto di essere stati perfettamente d’accordo con Salvini nella gestione del caso Diciotti. Dire sì al processo per Salvini imporrebbe uguale atteggiamento verso gli altri membri del governo implicati: un tremendo boomerang tattico, una sorta di fuoco amico obbligato.

Confesso di non avere un grosso interesse a vedere Salvini (ed eventualmente i suoi colleghi di governo) sul banco degli imputati; credo non abbia commesso alcun reato, anche perché si è assunto una responsabilità ben maggiore rispetto a quella di violare una norma di legge; ha politicamente e sciaguratamente scelto di violare i principi culturali e umani alla base della nostra civiltà: dove ci sta il più ci sta anche il meno. Il fatto grave è che il presidente Conte lo stia coprendo politicamente: d’altra parte cosa poteva fare? Due burattini servi dello stesso padrone? I cinquestelle non si possono pulire la coscienza mandando Salvini davanti alla magistratura: la loro enorme responsabilità resterà scritta nella storia come un cedimento all’inumana deriva anti-immigrati. L’antipolitica cede alla peggior politica: non può che essere così.

Tatticamente, oltretutto, daranno a Matteo Salvini l’occasione di fare la vittima sull’altare della difesa nazionale e della battaglia per la sicurezza: i grillini ne usciranno comunque con le ossa rotte. La politica, fatta uscire dalla porta, rientra dalla finestra e presenta un conto salato. In tal senso prima o poi verrà anche il turno della Lega. Con gli italiani a fare una triste contabilità ed a coprire le perdite.

Il Presidente rammendatore

Venerdì 15 febbraio, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto al Quirinale l’Ambasciatore di Francia in Italia, Christian Masset, che gli ha consegnato una lettera di Emmanuel Macron di invito a compiere una visita di Stato in Francia. Mattarella ha accettato l’invito. I due si incontreranno dopo la telefonata di “disgelo” avvenuta qualche giorno prima.

Negli ultimi mesi la Francia è stata bersaglio di violenti attacchi da parte di Lega e M5S su migranti, deficit, Tav e chi più ne ha più ne metta, al punto da raggiungere una tensione giunta a livelli di guardia con il ritiro dell’ambasciatore da parte della Francia. I motivi di questi reiterati e scriteriati attacchi sono sostanzialmente due. Innanzitutto il governo italiano, in chiara e netta difficoltà a gestire la contingenza economico-finanziaria e le varie emergenze, tenta di deviare l’attenzione popolare su un altro piano, quello dei rapporti internazionali, solleticando l’orgoglio nazionale contro i nemici storici francesi: a parlar male della Francia il successo è garantito.

In secondo luogo la durezza nei rapporti con la Francia e con la Ue è forse l’unico punto di contatto collaborativo (?) tra i due partner del governo italiano, per i quali non c’è problema o argomento su cui si possa andare d’amore e d’accordo; tutti i giorni scoppiano polemiche e divergenze e quindi non pare vero trovare un piccolo (?) terreno su cui concordare. Le elezioni europee dietro l’angolo accentuano i toni “diversificatori”: Lega e M5S si contendono l’elettorato protestatario a suon di populismo, sovranismo, antipolitica e ostilità all’establishment ed ai poteri forti. Questi ultimi vengono addirittura e demenzialmente fatti coincidere con i membri del Parlamento europeo, rei di smascherare la debolezza e la confusione del governo italiano.

Lega e M5S sono alla ricerca dei loro alleati: per formare un gruppo nel Parlamento europeo sono necessari 7 partiti di 7 paesi diversi. I grillini hanno redatto un manifesto in 10 punti da condividere con le diverse forze politiche europee, che si riconoscono sostanzialmente nell’antipolitica: per ora si tratta dello Zivi Zid (Barriera umana) della Croazia, dello Kukiz’15 della Polonia, del movimento Liike Nyt (Movimento adesso) della Finlandia e di Akkel (Partito dell’agricoltura e allevamento) della Grecia. All’evento di presentazione, Luigi Di Maio accompagnato dai leader dei suddetti partiti ha esordito dichiarando: «Il nostro obiettivo è far stare meglio i cittadini…».

Consentitemi di riportare un piccolo episodio, una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”. Per tornare a Di Maio ed al suo manifesto, vorrei sapere quale partito politico si proponga apertamente l’obiettivo di far stare “peggio” i cittadini.

La Lega trova i suoi alleati politici in Francia nel Raggruppamento Nazionale di estrema destra capeggiato da Marine Le Pen, nel cosiddetto gruppo di Visegrad (Polacchi, Cechi, Ungheresi e Slovacchi su posizioni euroscettiche, sovraniste e rigide in tema di immigrazione) e con i popolari filo-populisti austriaci di Sebastian Kurtz.

Non c’è che dire, due belle combriccole che puntano ad un’Europa diversa: in parole povere vogliono disfare la Ue. In mezzo a questa bagarre europea scatenata dai partiti italiani più votati e più osannati si muove, con stile e dedizione incomparabili, Sergio Mattarella, il quale cerca correttamente, convintamente e abilmente di toglierci le castagne dal fuoco o meglio di ricucire gli strappi procurati in continuazione da chi ci sta (s)governando. Sono convinto che molti esponenti e leader a livello europeo e mondiale lo chiameranno e gli chiederanno: “Presidente, cosa sta succedendo in Italia?”. Probabilmente lui risponderà: “Non lo so, sono preoccupato, cerco di fare il possibile per tenere la Repubblica unita e sulla strada giusta. Tutti mi applaudono, poi quando si va alle urne…La repubblica italiana non è presidenziale e quindi non posso fare più di tanto, ma ce la sto mettendo tutta”. Auguri Presidente, grazie e buon lavoro!

 

L’ottovolante regionale

Basta avere un minimo di buon senso per capire che un decentramento dei poteri nazionali e la concessione di autonomie locali dovrebbero comportare un miglioramento dei rapporti fra lo stato (inteso nel suo complesso) e i cittadini, nonché un viatico per la razionalizzazione dei poteri e delle funzioni nella gestione della macchina pubblica.

Purtroppo il decentramento regionale ha tradito le aspettative rivelandosi la fucina di ulteriori e impreparate burocrazie, l’allargamento dell’area soggetta ai fenomeni della corruzione in campo politico, l’occasione per creare nuovi centri di potere fini a se stessi, il rischio di infinite diatribe sull’attribuzione delle competenze e delle responsabilità. Quando succede qualche “disastro”, sfido chiunque a capire fin dove arrivino le responsabilità di Comune, Regione e Stato centrale.

La frettolosa spinta autonomistica contenuta nella riforma del titolo quinto della costituzione operata nel 2001, ha creato non poca confusione e incertezza. L’ulteriore riforma costituzionale, che cercava di rimettere un po’ di ordine, è stata bocciata dal referendum popolare del 2016 (è stato buttato il bambino assieme all’acqua sporca).

Adesso per iniziativa di tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia, pur con differenziazioni ideologiche, politiche e tattiche fra di esse, si sta cercando di raggiungere autonomie regionali rafforzate in conflitto/dialogo con il governo. Non sono entrato nel merito della questione anche perché mantengo tutto il mio scetticismo sul discorso regionale: un’arma a doppio taglio, che fino ad ora ha tagliato solo la chiarezza nei meccanismi di potere ed ha aumentato la burocrazia a danno della competenza e della snellezza procedurale. Le perplessità aumentano nell’ipotesi di una differenziazione di poteri fra regione e regione ad ovvio vantaggio di quelle più sviluppate e progredite.

Politicamente parlando si saldano le tradizionali e velleitarie spinte leghiste (vedi Lombardia e Veneto) con quelle più ragionevoli e moderate della sinistra (vedi Emilia-Romagna) in una sorta di competizione centro- periferia, che non mi suscita interesse e speranza. La questione aggiunge un ulteriore intricato nodo alla fune che lega i partiti dell’attuale governo: da una parte Salvini che, pur avendo operato una scelta decisamente nazionalista, non può rinnegare il passato federalista e non può scontentare i suoi due presidenti di regione, Maroni e Zaia, assai ben piantati a livello elettorale; dall’altra parte il M5S, che assorbe consenso soprattutto nel meridione, che non ha nel suo dna il discorso autonomistico e regionale e che trova non poche difficoltà a sfondare a livello locale (il recente risultato elettorale abruzzese ne è un’ulteriore conferma).

Se la questione è delicata e complicata a livello costituzionale, immaginiamoci cosa può diventare se data in pasto agli intrighi del governo pentastellato: un altro negozio di cristalleria assalito dagli elefanti. A mio giudizio non è il momento di aprire un simile fronte: nella confusione politica che regna sovrana non potrà che spuntare una soluzione sbagliata, una fuga in avanti col freno a mano attaccato. Chi viaggia su una tale automobile si prepari a soffrire tra rischiose accelerate e brusche frenate. Sarà perché io soffro il mal d’auto…

 

I programmi scritti all’osteria

“Sembra facile fare un buon caffè…”, così recitava uno spot pubblicitario di parecchio tempo fa. “Sembra facile governare”, così aggiungo io, istruito al riguardo da mio padre. Egli amava paragonare i faciloni, che promettevano di mettere a posto il Paese con troppa immediatezza e disinvoltura, a coloro che nei ritrovi pubblici si spacciano per miracolosi capaci di tutto: “I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

Gli attuali governanti esibiscono i loro gessetti e, sul tavolo di palazzo Chigi o sulle scrivanie ministeriali, tracciano regole, che si rivelano inapplicabili ancor prima che ingiuste e inadeguate. Ma non finisce solo così. I gessetti hanno colori diversi e alla fine il quadro governativo diventa un autentico ginepraio in cui non si capisce più nulla.

Per l’accoglienza degli immigrati v’è chi propaganda la irreversibile chiusura dei porti, spacciando il nervoso ed esilarante “cattivismo”, dietro cui peraltro si cela un vomitevole ritorno di razzismo, per radicale soluzione dei mali; nello stesso governo v’è chi propende per un relativo e strumentale buonismo da sbattere polemicamente in faccia all’Unione europea, rea di menefreghismo inguaribile. Sul discorso sicurezza, davanti ad una notevole levata di scudi dei sindaci, che mettono in discussione la negazione della residenza anagrafica agli immigrati senza permesso di soggiorno, v’è chi mette tutto sul piano del pedissequo rispetto della legge e rispedisce al mittente le perplessità dei pur autorevoli primi cittadini; nello stesso governo però v’è chi accetterebbe di sedersi attorno ad un tavolo per discutere l’applicazione del decreto sicurezza in modo da evitare la violazione dei principi costituzionali e dei diritti intoccabili della persona umana. Due anime politiche in un corpo solo governativo? Si poteva immaginare, ma la realtà sta andando ben oltre l’immaginazione, dimostrando che, se è problematica sempre e comunque l’applicazione dei contratti, figuriamoci quella dei “contratti di governo” (il tavolo su cui è stato frettolosamente scritto il programma con il pezzo di gesso di cui sopra). A intrigare ulteriormente la questione immigrati è sorto il problema delle accuse rivolte dal Tribunale dei ministri a Salvini e per le quali il Senato deve esprimersi dando o meno l’autorizzazione a procedere contro il ministro degli Interni: il presidente del Consiglio si assume la responsabilità politica del caso, ma i grillini sono incerti se lasciare campo alla magistratura o stopparla.

Le cose si complicano ulteriormente se da palazzo Chigi e dai palazzi ministeriali andiamo in Parlamento: si stanno aprendo evidenti crepe nella maggioranza. Ci sono parlamentari che non hanno votato certi provvedimenti e che sono stati espulsi dal M5S: pochi, ma significativi di un malessere esistente e di una prassi disciplinare inaccettabile e inconcludente. Anche chi ha votato le misure del decreto sicurezza comincia ad avere seri ripensamenti sull’onda delle aspre critiche dei sindaci di parecchi e importanti comuni, sull’onda dei rilievi e delle raccomandazioni fatti dal Presidente della Repubblica contestualmente alla firma di promulgazione, sull’onda di un mondo cattolico piuttosto perplesso ed inquieto in materia di immigrazione, sull’onda di un certo fermento elettorale presente nelle file dei grillini restii a nascondersi dietro il decisionismo leghista (vedi recenti risultati elettorali in Abruzzo).

La politica è complessa, ma questa volta mi sembra proprio un autentico casino. Finita (?) la grana della manovra economica con “quel pasticciaccio brutto di governo e parlamento”, spunta la questione dei permessi di soggiorno e delle residenze anagrafiche per gli immigrati, mentre sullo sfondo si stagliano le sagome delle navi zeppe di richiedenti asilo. Ma il gran busillis è rappresentato dalla Tav. Mi sono tolto lo sfizio di andare a vedere come andarono le cose circa centottant’anni fa per la costruzione della prima ferrovia in territorio italiano: la Napoli- Portici. Se avessero dovuto fare tutti i calcoli e vagliare tutti i pro e i contro come si sta facendo per la Tav, in Italia saremmo ancora senza rete ferroviaria. Cosa voglio dire? Prescindo dall’attendibilità e scientificità del lavoro svolto dalla commissione ministeriale, su cui peraltro si sono scatenati dubbi e polemiche. La mia riflessione è molto terra terra: mentre i costi sono relativamente certi e prevedibili, i benefici sono imprevedibili nel tempo e nella loro quantità, ma non per questo trascurabili nella loro portata storica. Se è vero che il bilancio consuntivo di un’azienda è la “sommatoria di opinioni”, figuriamoci un bilancio preventivo di una impresa quale la Tav, linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione, una struttura che dovrebbe agevolare trasporti e collegamenti con vantaggi spalmabili sull’intera realtà socio economica nazionale ed europea. Se poi ci si imbarca nel “benaltrismo” strutturale, valutando se sia meglio ammodernare la rete esistente nelle tratte più difficile e disastrate, non se ne esce più e si rimane imprigionati nel paradosso dell’uovo e della gallina: sarà meglio che nascano prima le ferrovie interne, quelle dei pendolari, o le ferrovie a lungo percorso transnazionale?

Cosa ne capiranno i cittadini?  Io non ci sto capendo niente, sto solo sentendo le sciocche grida di Tizio e Caio. Forse bisogna diventare aristocratici per combattere il populismo: non resta altro da fare che tappare le orecchie, come fece l’astuto Ulisse, agli elettori più ingenui e scombussolati, e fare stringere dal presidente della Repubblica i lacci intorno agli elettori più smagati in modo da evitare loro rischiosi scivolamenti. Ulisse era furbo e ci direbbe ancor oggi: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Trovare chi ci possa propinare, in questo momento storico, virtute e conoscenza è un problema difficile. Sicuramente non gli attuali governanti. Probabilmente bisogna avere il coraggio di scendere e scavare nel profondo delle proprie coscienze.