La piazza in balìa di angeli e demoni

“Mi hanno chiesto di spogliarmi, di togliermi le mutande e fare tre squat per dei controlli, a detta loro”. Lo racconta una delle attiviste di Extinction Rebellion in un video pubblicato sulla pagina Telegram del movimento ambientalista ieri sera. I fatti sarebbero avvenuti in questura a Brescia, dove sono stati portati i militanti di Extinction Rebellion, Palestina Libera e Ultima Generazione che ieri mattina hanno bloccato l’ingresso della sede di Leonardo.  

Il video è stato pubblicato ieri sera, quando “dopo oltre 7 ore di fermo in questura, sono state rilasciate le 23 persone di Extinction Rebellion, Palestina Libera e Ultima Generazione che erano state fermate dopo la manifestazione alla Leonardo spa di Brescia”. La richiesta di spogliarsi ed eseguire gli squat – a quanto denuncia Extinction Rebellion – sarebbe stata fatta solo alle donne, non agli uomini. “Chiederemo giustizia, anche questa volta, affinché il diritto al dissenso venga difeso, onorato e protetto”, scrive il movimento ambientalista, chiedendo di diffondere la testimonianza.  

Sull’episodio il vice capogruppo di Avs alla Camera Marco Grimaldi ha depositato un’interrogazione parlamentare. “Spieghino gli agenti della questura di Brescia come mai hanno sottoposto a 7 ore di fermo persone che avevano fornito i documenti e quindi non dovevano essere trattenute in base all’articolo 349 del codice di procedura penale. Ma, soprattutto, spieghino perché donne e ragazze sarebbero state costrette a spogliarsi e a eseguire piegamenti sulle gambe”, chiede Grimaldi, aggiungendo che “di questi abusi, dopo il 2001, ne abbiamo abbastanza. Come ne abbiamo abbastanza delle denunce arbitrarie, che regolarmente cadono davanti al pm, e dei fogli di via elargiti a chiunque manifesti”. (Adnkronos)

Nei giorni scorsi si sono verificati gravi disordini durante le manifestazioni di protesta contro il comportamento delle forze dell’ordina nella vicenda di Ramy Elgaml, 19 anni, egiziano, ma residente in Italia da anni, morto in un incidente avvenuto il 24 novembre a Milano, mentre era a bordo di uno scooter guidato dall’amico tunisino Fares Bouzidi, di 22 anni, dopo un inseguimento di 8 chilometri da parte di tre pattuglie dei carabinieri.

Avrebbe compiuto 20 anni lo scorso 17 dicembre. Subito dopo la sua morte sono scoppiate tensioni e violenze nel quartiere periferico di Corvetto. Successivamente, sono circolati diversi video dell’inseguimento. Per i carabinieri il giovane è caduto dallo scooter, per i legali delle famiglie di Ramy e di Fares si è trattato di uno “speronamento volontario”.

In varie città italiane e in un clima sempre più incandescente, molti giovani sono scesi in piazza per protestare per la morte del ragazzo, chiedendo “verità e giustizia”. Le ultime manifestazioni si sono svolte ieri a Roma, dove tra gli altri era presente anche Zerocalcare, Milano, Bologna. Nella capitale ieri sera sono avvenuti scontri con la polizia e il dibattito politico è tornato ad infuocarsi sui temi della sicurezza. (Ansa.it)   

Nella confusione venutasi a creare sulla triste realtà del problema nei rapporti tra forze dell’ordine e trasgressori delle regole nonché tra manifestanti e forze dell’ordine (una delicata zeppa!), è emersa l’intenzione governativa di varare provvedimenti urgenti a radicale discolpa dei comportamenti a dir poco borderline dei poliziotti altrimenti sottoposti a inchiesta da parte della magistratura.

Sono perfettamente d’accordo col professor Massimo Cacciari che ha enumerato i tanti motivi di protesta che sussistono nel nostro Paese: le proteste possono dare fastidio, ma sono il sacrosanto sale della democrazia. I cittadini non devono aspettare le elezioni per manifestare vigorosamente il loro dissenso, sarebbe troppo comodo per chi esercita il potere.

Si può esprimere dissenso anche verso il comportamento di polizia e carabinieri: nessuno è esente da colpe, vale a dire da eccessi colposi in difesa dell’ordine pubblico. L’attuale governo ha debuttato con le cariche agli studenti e continua con la santificazione ante litteram delle forze dell’ordine.

Detto questo so benissimo, per annosa esperienza diretta, che nelle pubbliche manifestazioni di protesta si insinuano persone che approfittano del clima surriscaldato per sfogare con violenza la loro rabbia più o meno comprensibile. Inaccettabile è comunque la violenza da parte dei manifestanti, ma anche da parte delle forze dell’ordine.

Non accetto il manicheismo dell’ordine pubblico che ritiene tutti i manifestanti demoni divisori e tutti i poliziotti angeli custodi. Chi può escludere a priori che chi indossa una divisa possa approfittare nel reagire con eccessiva violenza o addirittura con sadismo ai comportamenti provocatori di manifestanti e trasgressori. Gli esempi nella storia passata e presente purtroppo non mancano. E allora andiamo adagio a colpevolizzare chi protesta e a santificare chi argina la protesta.

Sono ancora una volta d’accordo con Massimo Cacciari quando non accetta la pretesa che gli immigrati debbano dimostrare la loro integrazione rinunciando a protestare, quasi che la loro accoglienza fosse condizionata alla supina accettazione del sistema. Non lo accetto io, che sono cittadino italiano, non vedo perché dovrebbe accettarlo pedissequamente un immigrato.

Allora parliamo seriamente di violenza! È certamente violenza quella di chi sfascia le vetrine dei negozi, quella di chi aggredisce i tutori dell’ordine pubblico, ma è violenza anche quella di chi sfrutta vergognosamente il lavoro degli immigrati e anche quella dei poliziotti che trasformano i loro compiti in veri e propri pestaggi.

A volte i confini tra protesta e violenza sono difficili da stabilire così come i confini tra difesa dell’ordine pubblico e attacco violento ai manifestanti. Lo dico per esperienza diretta, essendomi trovato in mezzo a certe caotiche situazioni in cui i doveri e i diritti si confondono e si scontrano. Non per questo si possono direttamente o indirettamente vietare le manifestazioni e criminalizzare chi vi partecipa.

Dovrebbe essere compito della magistratura individuare i suddetti confini, indagare chi li abbia superati e punire i trasgressori, ammesso e non concesso che i giudici abbiano il coraggio di farlo senza parteggiare per gli uomini in divisa come spesso è accaduto. Il governo non può fare di ogni erba un fascio. So perfettamente che fare il ministro degli Interni non è un mestiere facile, ma, se uno non se la sente o non è capace, tolga il disturbo e non aggiunga casino a casino.

Durante la conferenza stampa di inizio anno la premier Giorgia Meloni ha definito professionale il comportamento dei carabinieri nella triste vicenda Ramy. Non è meglio aspettare i risultati dell’indagine in atto prima di assolverli o addirittura elogiarli?

Che senso ha poi inserire nell’ordinamento giudiziario una norma che copre aprioristicamente le responsabilità delle forze dell’ordine? Non rischierebbe di dare ad esse una sorta di inquietante licenza a sbrigativo intervento?

E poi perché è inaccettabile la violenza in certe manifestazioni pubbliche (sia chiaro la considero anch’io inaccettabile), mentre si tollerano i raduni neofascisti dove si inneggia alla violenza del passato regime, molto più grave di quella delle attuali scaramucce?

Il grido della fraternità e il silenzio della politica

Immagini choccanti, video dell’orrore che raccontano le brutalità a cui vengono sottoposti i migranti che cadono nelle mani degli aguzzini libici. Sono le testimonianze terribili che corrono sui social e che hanno l’obiettivo di raggiungere i familiari e gli amici dei detenuti nel carcere di Garnada, situato a circa 200 chilometri a nord-est di Bengasi, torturati per estorcere denaro in cambio della libertà. Video che “Agenzia Nova” ha scelto di pubblicare, oscurando i volti delle persone torturate. Intanto più di 600 migranti del Niger sono stati deportati con la forza dalla Libia attraverso il Sahara, in quella che è considerata una delle più grandi espulsioni dal Paese nordafricano fino ad oggi.

Anche l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim) ha confermato che 613 persone, tutte nigeriane, sono arrivate nella città desertica di Dirkou lo scorso fine settimana a bordo di diversi camion. «C’è stata l’espulsione di 400 persone lo scorso luglio, ma questo convoglio è il numero più grande fino ad oggi», ha affermato Azizou Chehou, di Alarm Phone Sahara secondo cui il viaggio attraverso la regione del Sahara tra la Libia e il Niger è stato «pericoloso e traumatizzante».

Le espulsioni giungono mentre i Paesi dell’Ue sono stati accusati di ignorare le diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani e gli abusi contro i migranti in Libia e allo stesso tempo cercano di ridurre il numero di persone che arrivano in Europa. «Questa è la politica di confine dell’Europa messa a nudo, esternalizzando espulsioni di massa e morte alla Libia, dove il deserto diventa un cimitero», ha detto David Yambio, portavoce dell’organizzazione non-profit Refugees in Libya. (dal quotidiano “Avvenire” – Daniela Fassini)

Nella presentazione al libro “Salvato dai migranti” di Don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans, papa Francesco scrive così.

«Il dramma dei migranti interpella la nostra identità più profonda: si tratta di scegliere se essere veramente fratelli e sorelle o no. L’ho ribadito all’incontro dei vescovi e dei giovani del Mediterraneo a Marsiglia il 22 settembre 2023: “Davanti a noi si pone un bivio: da una parte la fraternità, che feconda di bene la comunità umana; dall’latra l’indifferenza che insanguina il Mediterraneo. Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può”.

(…)

La fraternità è un grido: le persone migranti che bussano alle nostre porte portano in sé questo grido: chiedono di essere riconosciute come fratelli e sorelle, di camminare insieme. Il soccorso e l’accoglienza non sono solo gesti umanitari essenziali, sono gesti che danno carne alla fraternità, che edificano la civiltà».

La politica fa orecchie da mercante di morte, scarica l’accoglienza sui Paesi africani di frontiera trasformandola in  tortura e deportazione, tratta i migranti come polvere da nascondere sotto  tappeti cimiteriali, si nasconde dietro l’alibi della lotta agli scafisti, ricorre alle sottigliezze per distinguere tra migrante economico, migrante irregolare, clandestino, richiedente asilo, profugo e rifugiato, criminalizza genericamente ed ipocritamente i poveri diavoli che cadono nella delinquenza di sussistenza, cavalca senza scrupoli gli istinti razzisti della gente, gioca allo scaricabarile intereuropeo, si illude di respingere un’autentica alluvione di povertà e disperazione raccogliendola col cinico cucchiaino della difesa dei confini, continua ad affrontare il fenomeno migratorio con una negativa logica emergenziale anziché in una positiva prospettiva di normalità.

Se non si cambia l’approccio al tema, passando dal compromesso dell’indifferenza alla radicalità della fratellanza, non se ne esce vivi: i migranti moriranno affogati in mare e noi moriremo asfissiati nel pantano del nostro egoismo.

 

 

 

La diplomazia alla puttanesca

Mohammed Abedini Najafabadi, l’uomo dei droni, è libero ed è tornato nel suo Paese. Il Guardasigilli Nordio ha firmato la richiesta di revoca dell’arresto dell’ingegnere iraniano bloccato a Malpensa lo scorso 16 dicembre: su di lui pendeva il mandato di arresto internazionale degli Stati Uniti, che lo accusano di aver avuto un ruolo chiave in un attentato in Giordania un anno fa, dove persero la vita tre militari americani. Con l’atterraggio di Abedini a Teheran, scarcerato dopo 27 giorni di reclusione in Italia, si chiude una vicenda complessa, intrecciatasi con l’arresto della giornalista Cecilia Sala in Iran, che ha visto lavorare sottotraccia il nostro Paese assieme a Usa e Iran. (dal quotidiano “Avvenire” – Massimo Chiari)

Penso sia ormai più che dimostrato il legame esistente fra la liberazione di Cecilia Sala e quella dell’iraniano Abedini. Non è un fatto scandaloso, ma nemmeno da osannare come un grande successo diplomatico. Purtroppo ha comportato un certo qual riconoscimento delle pretese iraniane: ricordiamoci che siamo di fronte ad un Paese che calpesta i diritti fondamentali (delle donne in primis), che non esita ad utilizzare la tortura e che arriva a condannare a morte chi gli si oppone.

In secondo luogo l’Italia ne esce scopertamente e spudoratamente “usa-dipendente”: nel nostro Paese non si muove foglia che l’America non voglia. L’improvviso e teatrale viaggio di Giorgia Meloni lo dimostra: non ci si è rivolti al presidente in carica Joe Biden, ma a quello eletto Donald Trump, mettendo le mani avanti a scanso di equivoci. Abbiamo così ottenuto il nulla osta che dovremo in futuro onorare come una sorta di cambiale in bianco che gli americani non mancheranno di mettere all’incasso. Non è la migliore delle versioni della storica nostra alleanza con gli Usa.

In terzo luogo e in conclusione non c’è proprio niente da sbandierare e celebrare e di cui andare fieri, ma semmai c’è da ingoiare il boccone amaro e da tacere. Solo la vita di Cecilia Strada è salva. Per la dignità italiana meglio lasciar perdere. Oltre tutto il ministro Nordio si è rimangiato la parola anticipando e scavalcando con una certa nonchalance il parere della magistratura competente: non era infatti il caso di rischiare un altolà giudiziario…

Un tempo queste cose si facevano e non si dicevano, oggi si spettacolarizzano addirittura prima e dopo averle fatte. Non era ipocrisia quella di un tempo, era soltanto buongusto; non è coraggio quello di oggi, è soltanto cinico protagonismo.

L’unico rigurgito di dignità potrebbe in prospettiva consistere in un’azione internazionale decisa e coerente a favore dei diritti democratici in tutto il mondo, nella interruzione del pericoloso e sbrigativo flirt con gli Usa, nel ritorno ad una seria politica europeista. La pazienza strategica che sfida l’improvvisazione tattica.

Le speranze ridotte al lumicino

In questi giorni di fine e inizio anno, durante i quali, vuoi per distrazione di massa, vuoi per concentrazione indotta sui grandi temi, la gente non è stata attenta alla politica spicciola, preferendo i cenoni e gli appelli altolocati, ho intravisto una contraddizione inquietante tra la sensibilità culturale e il consenso partitico.

Il professor Luigino Bruni, durante la trasmissione televisiva “A sua immagine”, ha acutamente osservato come questa volta gran parte degli scambi augurali siano avvenuti all’insegna della speranza in un nuovo anno portatore di pace o almeno di convivenza pacifica. E allora perché, stando almeno ai sondaggi, aumenta il consenso, in Italia e nel mondo, a personaggi e politici più o meno guerrafondai o che comunque imprigionano i massimi sistemi pacifici in una asfittica e bellicista realpolitik?

Non si tratta solo della difficoltà di passare dal dire al fare pace, ma probabilmente dalla (quasi) impossibilità di passare dal cuore al cervello: il sentimento comune infatti direbbe pace, mentre il ragionare e discernere politico ripiega inesorabilmente sul “vis pacem para bellum”.

Mi permetto di aggiungere una domanda, peraltro già posta in sede di commento ai fatti del giorno: come mai il presidente Mattarella riscuote tanta fiducia dalla gente, che però non si traduce in scelta politica nelle urne. Piuttosto inspiegabile, a meno che non si considerino le parole del Capo dello Stato come diversivi sentimentaloidi o non si consideri paradossalmente l’astensionismo come consenso a chi parla bene ma non ha il potere di fare altrettanto bene.

Azzardo qualche (plausibile?) risposta. Finito il richiamo forte delle ideologie, il consenso si forma e si basa sulla concretezza delle soluzioni ai problemi, e qui casca l’asino della debolezza politico-programmatica dei partiti in campo. Scatta la perniciosa pseudo-convinzione che siano tutti uguali e che quindi il consenso debba andare a chi la spara più grossa a prescindere dalla fattibilità della proposta messa sul tavolo.

Se saliamo dalla spontanea cucina delle ricette facili al salotto mediatico prezzolato e indirizzato direttamente o indirettamente al mantenimento dello status quo, il risultato non cambia, addirittura il consenso è ancor più confusamente drogato e malamente orientato dal vociare dei social.

Se poi ci accingiamo a mangiare la minestra della classe politica passata dal convento del potere, c’è da preferire di saltare dalla finestra. Non emerge alcun personaggio in grado di garantire seri percorsi sulla via del bene comune. E allora, torniamo daccapo, vince chi la spara più grossa, chi non sa un cazzo ma lo dice bene, chi sa dire all’elettore quello che desidera sentirsi dire a prescindere da tutto.

In generale la classe politica sta abdicando, in modo a volte subdolo a volte sfacciato, al potere economico: ecco allora spuntare il teorema, indimostrabile ma comodo, della capacità a perseguire l’interesse pubblico da parte di chi sa ben concretizzare quello privato. Nelle recenti elezioni presidenziali statunitensi è successo proprio questo, vale a dire che i cittadini si sono affidati ad una cricca di affascinanti ricconi, stimati capaci di affrontare e risolvere i problemi dei poveracci.

Il cerchio si sta quadrando: le alternative politiche non esistono, le prospettive di cambiamento evaporano in breve tempo, il livello della dirigenza è penoso, la gente non trova riferimenti e sfoga la propria insoddisfazione nell’astensionismo o nel voto intestinale. Le pochissime voci autorevoli provengono da istituzioni senza potere immediato e quindi immediatamente relegate nel libro dei sogni, vuoi religiosi vuoi costituzionali. Sì, perché nel bailamme politico-culturale rimangono solo due pilastri su cui basarsi: il Vangelo e la Costituzione italiana.

Mi sovvengono le geniali ed evangeliche provocazioni liturgiche del mio indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia. Durante la celebrazione del Battesimo sull’altare venivano posti due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Discorsi più che mai attuali di fronte all’invadente “nulla” culturale e al deviante ed assorbente “tutto” della politica ridotta a strumento dell’economia anti-sociale.

Non era forse di stampo scaccagliano il dialogo a distanza avvenuto in questi giorni fra Sergio Mattarella e papa Francesco? Se le sono cantata in perfetta sintonia, salvo verificare che i potenti alzano le spalle e continuano imperterriti a fare i loro porci comodi, mentre i deboli vedono una luce in fondo al tunnel, ma temono che possa trattarsi di una illusione ottica. Rimane solo l’auspicio che possa essere la fiammella della candela della speranza, che ci consenta di riaccendere quelle della pace, della fede e dell’amore.

Troni per i potenti, carcere per gli umili

Un ragazzo di 23 anni di nazionalità romena è si è impiccato ieri sera nel bagno della sua cella all’interno del carcere romano di Regina Coeli. Stando a quanto riferito dal sindacato Fns Cisl, il giovane detenuto si trovava nella seconda sezione. Come sottolineato dal segretario Massimo Costantino, la casa circondariale soffre da tempo di sovraffollamento e attualmente ospita circa 1050 detenuti sui 618 previsti. Una situazione che secondo Costantino è “sempre più drammatica. Si rischia il collasso del sistema penitenziario, il sovraffollamento e la gravissima carenza degli organici, connotato dalla drammaticità degli eventi sta compromettendo seriamente l’ordine e la sicurezza di tale sede”.

Per il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, il 2025 è iniziato peggio del 2024, giudicato “l’annus horribilis delle morti e dei suicidi in carcere”. Quello di ieri, ricorda il garante, è già il quarto suicidio avvenuto in carcere: “Il ragazzo che si è suicidato ieri sera a Regina Coeli è già il quarto in Italia, in meno di dieci giorni, senza contare l’operatore penitenziario che si è tolto la vita nel carcere di Paola. Quando si prenderanno i provvedimenti necessari e urgenti per ridurre la popolazione detenuta e consentire al personale di polizia, educativo e sanitario di farsi carico degli autori di reati più gravi e con lunghe pene da scontare?”.

“Non è mai facile individuare il rischio suicidario, ma se gli operatori devono far fronte al doppio delle presenze in carcere, come è a Regina Coeli, con la metà del personale in organico, l’impresa diventa impossibile. Aprendo la Porta Santa a Rebibbia, Papa Francesco ha esortato i detenuti ad aggrapparsi alla speranza, ma nella speranza di un’alternativa a queste carceri sovraffollate e degradanti dobbiamo crederci anche noi e soprattutto chi ha responsabilità politiche e di governo, prendendo decisioni conseguenti”. (fonte fanpage.it)

 

Dalla drammatica cronaca passiamo alla cultura, vale a dire ad un modo serio e civile di porsi di fronte alla realtà ed ai suoi problemi per affrontarli e non per eluderli.

 

Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, interviene con parole forti sulla riforma della giustizia, definendo il sistema carcerario italiano uno “scandalo di civiltà”.

In un’intervista esclusiva per Notizie.com, Cacciari si è detto pienamente d’accordo con le recenti dichiarazioni di Papa Francesco sull’indulto, sottolineando l’urgenza di un intervento serio e radicale.

Le parole del Pontefice, pronunciate poco prima di Natale dopo la visita al carcere di Rebibbia, hanno colpito profondamente il professore. “Certo che bisogna ascoltare il Papa. Le sue dichiarazioni sull’indulto e sull’amnistia affrontano un tema fondamentale che la nostra classe politica continua a ignorare. Le condizioni delle carceri sono una vergogna per un Paese che si dice moderno.”

Cacciari ha aggiunto che l’indulto, specialmente nell’Anno Giubilare, dovrebbe essere visto come un atto di clemenza e un segnale di civiltà. “La nostra Costituzione dice chiaramente che la pena deve servire al reinserimento del colpevole nella società. Ma oggi il carcere è diventato un’istituzione criminogena, senza alcuna possibilità di riabilitazione.”

Il filosofo non ha risparmiato critiche alla lentezza della giustizia italiana. “Ci sono persone che trascorrono anni in attesa di un processo, e poi magari vengono assolte. È una brutalità. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, riservato a chi rappresenta un pericolo per la collettività, non a chi commette reati minori”.

Cacciari ha definito il sistema attuale “una macchina che produce disperazione” e ha esortato la classe politica a intervenire. “Non si può più ignorare questo scandalo. Bisogna riformare radicalmente il regime carcerario e ascoltare quanto ha detto il Papa. Non farlo significa essere complici di un sistema che non offre alcun futuro ai detenuti.”

Concludendo, Cacciari ha ribadito che il carcere dovrebbe servire a rieducare, non a distruggere. “Se non interveniamo ora, siamo davanti a uno scandalo che mina la nostra idea di giustizia e di società moderna. Seguire il Papa sull’indulto non è solo una scelta politica, ma una questione di civiltà”. (fonte Agenzia dire.it)

 

Sul tema della situazione carceraria è intervenuta la premier Giorgia Meloni nel corso della conferenza stampa di inizio anno. Riporto di seguito domanda e risposta: il solito modo politicante per non affrontare i problemi rinviandoli sine die.

 

Anna Bredici (Radio Popolare): Buongiorno Presidente. La situazione delle carceri è drammatica, il sovraffollamento a San Vittore ad esempio è del 225% l’affollamento nel carcere, e poi i suicidi, 88 suicidi nel 2024, oggi ce n’è stato un altro a Regina Coeli. All’apertura della Porta Santa di Rebibbia, il Papa per il Giubileo ha parlato della necessità di un’amnistia, il Presidente del Senato si è detto favorevole in qualche modo, ha fatto un’apertura in questo senso. Lei che cosa pensa e cosa risponde quindi al Pontefice?

Presidente Meloni: Guardi io ascolto con sempre con grande attenzione le parole di Papa Francesco, che ringrazio. Chiaramente quello che dice sull’amnistia è contenuto, come lei sa, nella Bolla di indizione del Giubileo e quindi è rivolto ai Governi di tutto il mondo, non è una questione che riguarda specificamente l’Italia. In ogni caso, ovviamente l’Italia intende fare la sua parte per garantire condizioni migliori a chi deve scontare una pena in Italia. Solo che la mia idea non è che questo si debba fare adeguando il numero dei detenuti o i reati alla capienza delle nostre carceri. Io penso che quello che noi dobbiamo fare è adeguare la capienza delle nostre carceri alle necessità, perché questo fa uno Stato serio. Ed è la ragione per la quale noi abbiamo nominato, nelle scorse settimane, un Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, che ha l’obiettivo di realizzare 7.000 nuovi posti in tre anni, a partire dal 2025. Quindi, secondo me il modo serio di risolvere questa questione non è con le amnistie, con gli indulti, con gli svuota-carcere, con quello che abbiamo visto in questi anni, è un altro. È da una parte ampliare la capienza delle nostre carceri, poi parallelamente stiamo lavorando per rendere più agevole il passaggio dei detenuti tossicodipendenti in comunità e, come lei sa, molto spesso facciamo e cerchiamo di intensificare il numero degli accordi con gli altri Paesi che consentono anche alle persone straniere condannate in Italia di scontare la pena nel Paese d’origine. Questo è il modo con il quale, secondo me, si garantisce un sistema carcerario più dignitoso per i detenuti. 

 

Negli Usa è avvenuto un fatto eloquente sul tema carcerario: un modo, a dir poco eticamente bizzarro, istituzionalmente vergognoso e politicamente vomitevole, per scarcerare i potenti e tenere in carcere gli umili. Una sorta di Magnificat a rovescio. Ecco di seguito la relativa notizia.

 

l presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato condannato nel caso dei pagamenti a Stormy Daniels ma non andrà in carcere. Lo ha detto il giudice Juan Merchan leggendo la sentenza. A Trump non sarà comminata neanche una multa. La condanna comunque macchia la fedina penale del presidente eletto.

Trump ha definito il caso che lo vede condannato “una caccia alle streghe politica”. “Sono innocente, è stata una caccia alle streghe politica per danneggiare la mia reputazione”, ha detto il presidente eletto in videocollegamento. “Questo caso è stata una brutta esperienza ed un fallimento del sistema giudiziario di New York”, ha aggiunto, sottolineando che “l’evento di oggi è stata una farsa spregevole e, ora che è finito, faremo appello contro questa bufala che non merito”.

Il giudice Merchan ha spiegato, subito dopo la lettura della sentenza di condanna, che la decisione di non comminare alcuna pena è stata determinata dal suo imminente ritorno alla Casa Bianca. “Sono stati i cittadini di questa nazione a decidere che lei debba godere di protezioni come la clausola di supremazia e l’immunità presidenziale”, ha detto il giudice rivolgendosi al presidente eletto al quale alla fine ha augurato “buona fortuna per il secondo mandato”. 

Con questa sentenza, Trump diventa il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a essere condannato per un crimine prima dell’insediamento alla Casa Bianca. (fonte ANSAit) 

La bótte di Meloni dà il vino di Musk

“Calpesta le formiche”? Questa domanda, tra l’ironico e il surreale, è stata posta alla presidente del Consiglio Girogia Meloni durante la conferenza stampa annuale a Palazzo Chigi. 

La premier ha risposto al quesito di Alexander Jakhnagiev di Vista TV con un sorriso: “Cerco di evitarlo, quando me ne accorgo”. 

Ormai è diventato una sorta di appuntamento fisso quello con le domande ‘creative’ del direttore dell’Agenzia Vista, Alexander Jakhnagiev, nel corso della conferenza stampa di fine anno. Quest’anno il tema sono le formiche: “Se calpesta le formiche, ci fa caso mentre cammina? Un detto popolare vuole che quando si calpestano le formiche, poi piove”.

Un quesito accolto con ironia dalla Meloni, che si è lasciata andare ad un dialettale “eccallà”, espressione che si usa a Roma per il concretizzarsi di un evento ‘temuto’. “Non lo so – ha replicato, divertita – Le confesso, se le vedo, no. Poi, non le vedo sempre… Ci starò più attenta”.

Nel 2022 lo stesso giornalista parlamentare aveva invece chiesto alla premier se il proprio tempo fosse “circolare o lineare”. (canale whatsapp del Tgla7)

Certo se per formiche si intendono le ragioni del vivere civile, la domanda può essere trasformata in “si rende conto delle cazzate che dice e fa senza calcolarne le conseguenze?”.

Tra me e me mi sono posto la domanda e mi sono dato la risposta seguendo appunto la tradizionale annuale conferenza stampa tenuta dalla premier Giorgia Meloni, organizzata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dall’Associazione stampa parlamentare.

Mentre procedeva la trasmissione in mezzo a domande più finalizzate a non disturbare il manovratore che a metterlo alle strette, mi chiedevo quale motivato giudizio si possa azzardare su questo a dir poco bizzarro presidente del Consiglio.

Innanzitutto non mi sento di rinunciare alla pregiudiziale di carattere ideologico nei suoi confronti: non la ritengo in linea con i principi costituzionali, con la condivisione dei valori della Resistenza e dell’anti-fascismo. Scusate se è poco!

In secondo luogo più passa il tempo e più concordo pienamente col giudizio di Silvio Berlusconi sulla persona Meloni: supponente, prepotente, arrogante e ridicola.

Da queste premesse non può discendere che una conseguenza negativa sul suo comportamento istituzionale-politico-programmatico. Ogni botte dà il vino che ha. Posso solo aggiungere una nota negativa sul suo dilettantismo-populismo e sulla sua incompetenza-furbizia, niente a che vedere con un sano popolarismo e con una necessaria intelligenza.

Tratta l’Italia come un Atreju nazionalizzato, tratta l’Europa come un’Italia allargata, tratta la Nato come la ruota di scorta italiana, tratta il mondo come un immenso luna park in cui passare dalla ruota panoramica al calcinculo.

I problemi del Paese vengono filtrati e decantati mediaticamente, mai affrontati se non in superficie. La critica viene pregiudizialmente e strumentalmente vissuta come atto d’inimicizia. La stampa viene considerata terra di conquista. L’amministrazione dello Stato viene portata avanti come cassa di risonanza della propria perpetua propaganda elettorale.

E allora si spiega la fuga dei migliori dalla Rai, i recenti abbandoni di Ruffini all’agenzia delle entrate, di Belloni ai servizi segreti. In buona sostanza una politica che non va oltre il proprio naso e che dovrebbe lasciare gli italiani con un palmo di naso, senonché il fiuto dei cittadini è molto carente forse perché preferiscono un’alzata di spalle ad una seria autocritica.

Il trionfalismo post liberazione di Cecilia Sala è fastidioso e ingiustificato. Così come il governo chiese il silenzio ai media e alla politica ora sarebbe opportuno che il silenzio venisse chiesto al governo a livello mediatico, anche perché più ci si interroga sulla vicenda e più emergono dubbi e perplessità da chiarire nelle competenti sedi istituzionali.

La vacuità della politica estera meloniana non fa che prendere atto dello strapotere americano: solo con l’assenso degli Usa si possono trattare le questioni. La vita umana viene prima di qualunque altra considerazione: giustissimo! Mi sia concessa una eloquente digressione per chiedermi allora perché la vita di Aldo Moro non venne prima di ogni altra ragione. Perché gli Usa avevano deciso che dovesse morire in quanto non potevano sopportare una svolta politica italiana di apertura verso il Pci.

Giorgia Meloni ha preso atto di questa esasperata dipendenza, è volata in America per chiedere permesso e nel giro di pochi giorni Cecilia Sala è stata liberata. Evidentemente Trump ha dato l’ok (un Abedini in libertà vale molto meno di una Meloni al guinzaglio); gli iraniani dal canto loro si sono accontentati di una piccola concessione in capo al connazionale in odore di costruzione di droni esplosivi, che potrebbe anche diventare un vero e proprio salvacondotto. Qualcuno ritiene che una parte della dirigenza iraniana abbia preso paura della gamba tesa con cui Trump affronta le questioni internazionali e che quindi non se la senta di andare verso un conflitto con gli Usa. Come si vede l’abilità diplomatica di Giorgia Meloni ne esce molto ridimensionata se non addirittura annullata.

Se poi aggiungiamo lo spiazzamento italiano nei confronti dell’Europa, la frittata è fatta: durante la conferenza stampa da cui sono partito si è parlato molto di Elon Musk, si è ripetutamente e volgarmente fatta una sua difesa d’ufficio, mentre all’Europa si è fatto solo qualche rapido ed insignificante cenno.

L’incapacità politica, in una contingenza mondiale così complessa e difficile, porta inevitabilmente a stare pedissequamente dalla parte del più forte a prescindere da ogni seria argomentazione. L’equivoco collegamento con un certo passato, combinato con la presunzione di saper governare, non può che portare a sgovernare, vendendo il Paese al miglio offerente (non per il Paese, ma per la lunga vita politica di Giorgia Meloni).

Un mio carissimo amico a margine della performance meloniana mi ha inviato il seguente messaggio: “Tanto va la gatta al lardo che prima o poi ci lascia lo zampino…”. Speriamo che lo zampino ce lo lasci lei e non lo scriteriato popolo italiano.

Spesso ricorro agli aneddoti paterni per spiegarmi meglio. A mio padre piaceva molto questo: durante una partita di calcio un giocatore si avvicinò all’arbitro che stava facendone obiettivamente di tutti i colori. Gli chiese sommessamente e paradossalmente: «El gnu chi lu cme lu o agh la mandè la federassion » (Lei è stato inviato ad arbitrare questa partita dalla Federazione o è venuto qui spontaneamente, di sua iniziativa?). Si beccò due anni di squalifica.

 

 

 

Prove di Sala per un’inquietante cantata

Si era capito che la vicenda di Cecilia Sala doveva servire per la premier Meloni da trampolino di lancio per tuffarsi nella piscina trumpiana. È stato così con esito positivo quanto alla liberazione della giornalista italiana, ma con prospettive inquietanti per il nostro Paese e per l’Europa.

Prendendo atto della situazione di stallo europea e partendo dalla mancanza pressoché totale di fiducia nella prospettiva, peraltro imprescindibile, di un Europa veramente unita e protagonista sulla scena mondiale, si preferisce, a livello del governo italiano (sarebbe meglio dire a livello del governo meloniano), puntare ad essere il riferimento preferito della politica trumpiana, che gioca allo sfascio dei rapporti di problematica collaborazione, sostituendoli con quelli di spietata concorrenza.

Giorgia Meloni, per mania di grandezza e ansia protagonistica, al di fuori di qualsiasi disegno strategico e finanche tattico, sta mettendo l’Italia nella scomoda posizione di “quinta colonna trumpiana”: non è dato capire quali vantaggi ne ricaveremo non tanto e non solo in una prospettiva ideale di pace e di progresso globale, ma anche in una logica realistica di concreti interessi economici e commerciali.

È molto pericoloso infatti giocare il ruolo di nazione favorita, rischiando di svolgere la funzione di mero tassello in un mosaico scombinato e sconclusionato e di rimanere schiacciati in uno splendido e tattico isolamento. Questi giochini pseudo-diplomatici non portano da nessuna parte.

Che Donald Trump giochi a dividere l’Europa lo si è capito fin dagli albori della sua prima esperienza presidenziale, ma che l’Italia si presti a fargli da sponda in questa autentica “maialata” è roba inaccettabile da tutti i punti di vista. Alla fine non saremo figli di nessuno! Peraltro non vedo alcun piatto di lenticchie se non l’illusione di mangiare alla tavola dei padroni mentre ci dovremo accontentare semmai delle briciole che si danno ai cagnolini.

È molto pericoloso inserirsi alla cieca nei giochi neo-imperialisti degli Usa. Dove vuole parare Trump? Non certo a farsi suggerire le mosse da Giorgia Meloni… Il governo italiano è senza politica estera e sale sul primo treno che passa nella speranza che porti da qualche parte, non importa quale.

È decisamente umiliante assistere alla precipitosa corsa alla reggia mediatica di Elon Musk per prostrarsi ai suoi piedi, per legarsi alle sue mire espansionistiche. Ma in che mondo viviamo? E pensiamo di migliorarlo adeguandoci ad esso? Questa è la catastrofe dell’Italia altro che successi della diplomazia italiana!

Non vorrei che la liberazione di Cecilia Sala diventasse la vittoria di Pirro per l’Italia: sarebbe una beffa anche per la giornalista, che, dopo aver battagliato giustamente per i diritti laddove vengono calpestati, si trovasse suo malgrado ad inaugurare un corso storico in cui i diritti dei forti diventano rovesci dei deboli.

Concludo queste amare riflessioni ricordando l’episodio avvenuto in Scozia ai tempi della Brexit. La propensione degli scozzesi verso l’Unione europea, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste dal Regno Unito, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come ha riferito Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco.

Ebbene non so cosa diranno i clienti dei bar italiani quando appariranno le immagini di Giorgia Meloni in dolce compagnia di Trump e Musk. Si lasceranno incantare dalle sirene di una premier che ha il potere di parlare con gli aspiranti padroni del mondo oppure andranno oltre le prime impressioni e sentiranno anche in questo caso la puzza di porcilaia?

Militava nelle file della Democrazia Cristiana un personaggio di secondo piano, che però ostentava i suoi legami con i big dell’epoca. Cosa faceva? Durante i convegni, saliva di soppiatto alla tavola dei relatori, si avvicinava furtivamente a qualche esponente politico di spicco e osava chiedergli qualcosa, probabilmente gli poneva una innocua e insignificante domanda, che serviva tuttavia ad apparire mediaticamente in rapporti confidenziali con i politici che contavano. Si accontentava di questo. Saprà Giorgia Meloni accontentarsi di sembrare potente? Non credo proprio. E allora…vedi sopra.

 

 

La telenovela plutocratica

In Austria la destra può tornare al potere. A Vienna si potrebbe presto realizzare una coalizione di governo guidata dalla destra populista Fpö. Il presidente federale austriaco, Alexander van der Bellen, ieri ha incaricato il leader del partito della libertà d’Austria (Fpö) Herbert Kickl, in qualità di vincitore delle ultime elezioni (29%), di tentare di formare una coalizione di governo con i conservatori dell’Övp. Una riedizione di una coalizione, in cui l’Fpö era il però il partito di minoranza realizzata nel 2017 dal cancelliere dell’Övp, Sebastian Kurz, e anche nel 2000, guidata sempre da un cancelliere conservatore, Wolfgang Schüssel e sostenuta dall’allora leader dell’Fpö, Jörg Haider, criticato in quegli anni in Austria ed in Europa per aver elogiato pubblicamente la politica socio-economica di Adolf Hitler.

Il nuovo leader del partito della libertà d’Austria (Fpö), Herbert Kickl non si è spinto a tanto, ma nel corso dei suoi comizi, durante la campagna elettorale, ha spesso utilizzato slogan cari all’estrema destra. Dopo la vittoria alle elezioni del 29 settembre, Kickl non ha mai nascosto la sua posizione favorevole alla Russia, con cui vorrebbe riaprire dialoghi e gasdotti dalla Siberia. Inoltre il leader di destra ha riscosso sempre maggiori consensi per una politica migratoria estremamente severa, che prevedono deportazioni su larga scala. «Chi non lavora e crea problemi o compie reati, deve andarsene e deve essere rimandato a casa», ha tuonato spesso nei suoi comizi.

(…)

L’eco delle vicende austriache, come spesso accade, si riverbera oltre le Alpi e giunge fino a Berlino. Ieri molti politici tedeschi, impegnati nella campagna elettorale in vista del voto anticipato del 23 febbraio, hanno interpretato l’incarico a Kickl come un avvertimento e un segnale d’allarme per la Germania. Il vicecancelliere del governo federale di minoranza e leader dei Verdi, Robert Habeck, teme che dopo il voto del 23 febbraio possa crearsi uno scenario politico simile a quello di Vienna, ovvero «che i partiti diano priorità alle loro tattiche rispetto alle possibilità di formare alleanze di governo. In questo modo si favorirebbero solo le posizioni e gli obiettivi dei populisti». Preoccupazioni e timori sono giunti anche da socialdemocratici e liberali. (dal quotidiano “Avvenire” – Vincenzo Savignano)

In quietante ma realistico! Da tempo in Europa tira una aria di destra-destra: in Francia è stata bloccata pur nell’equivoco e nella precarietà, in Austria sta prendendo corpo a meno di resipiscenze democratiche dell’ultimo minuto, in Germania sembra ne abbiano molta paura, in Italia quest’aria la stiamo respirando, magari senza accorgercene fino in fondo anche perché Giorgia Meloni, che ne è la protagonista incontrastata, gioca a farsene garante nei confronti delle istituzioni europee e madre putativa nei confronti del nuovo corso trump-muskiano degli Usa.

Una missione lampo. Ventiquattr’ore negli Usa, in Florida, nella residenza privata di Trump a Mar-a-Lago. Un confronto largo. Da una parte Giorgia Meloni. Dall’altro il neo presidente Usa. Al loro fianco una squadra da serie A: il futuro segretario di Stato Usa, Marco Rubio; il futuro segretario al Tesoro, Scott Bessent; il futuro ambasciatore Usa in Italia, Tilman Fertitta, e l’ambasciatrice d’Italia negli Usa, Mariangela Zappia. I temi del “faccia a faccia” sono noti: Dazi, Nato e caso Sala. Il motivo della “missione” lo spiega una analisi del New York Times: rafforzare le «speranze dei sostenitori di Meloni che il primo ministro italiano conservatore diventerà l’alleato di Trump in Europa». Cinque ore di confronto largo. E, convitato di pietra della missione top secret è il patron di Space X, Elon Musk. Il miliardario patron di Tesla non compare infatti nelle immagini della serata, ma tra i primi a confermare la visita di Meloni negli Usa (l’incontro tra i due leader era infatti fissato per il prossimo 20 gennaio in occasione della cerimonia di insediamento di Trump) è stato tuttavia, Andrea Stroppa. In un post su X, il referente di Musk in Italia ha utilizzato l’intelligenza artificiale per creare un’immagine di Trump e Meloni raffigurati l’uno accanto all’altra vestiti da antichi romani con lo stesso imprenditore che compare un pò defilato. C’è Trump. C’è il rapporto Stati Uniti Europa. La Nato. C’è il ruolo di Giorgia Meloni. E ci sono gli affari. Le scelte economiche. Il nodo Dazi. E la collaborazione con Musk. È Bloomberg a dare i primi dettagli di un accordo che già fa discutere: l’Italia è «in discussioni avanzate» con la Space X di Musk per un contratto di 5 anni che prevede la fornitura al governo di servizi di telecomunicazione sicuri. Una operazione dal valore di 1,5 miliardi di euro. Un progetto che prevederebbe un sistema criptato di massimo livello per le reti telefoniche e i servizi internet del governo, le comunicazioni militari e i servizi satellitari per le emergenze. (dal quotidiano “Avvenire” – Massimo Chiari)

L’Italia sarà quindi protagonista, seppure per ora a livello di telenovela, di una saldatura mondiale pluto-tecno-socio-politica, tale da far tremare ai polsi le vene democratiche? Siamo solo alle prove di Sala, ma lo spettacolo promette sfracelli.

Potrebbe essere il definitivo tramonto del rilancio democratico guidato dall’Europa, di una classe politica veramente europeista, di un assetto mondiale aperto e pacifico. E a mettere la ciliegina su questa vomitevole torta sarebbe Giorgia Meloni, che si sta candidando a svolgere il ruolo di saldatura tra le destre condite all’italiana.

La speranza è che Trump e c. se la stiano vezzeggiando senza prenderla sul serio: non posso credere che pensino veramente a lei come interlocutrice per un nuovo disordine mondiale. Fin che si scherza la lasceranno sfogare, poi, quando si comincerà a fare sul serio, le daranno il benservito. A quel punto in Italia ci sarà ancora un Mattarella capace di toglierci dalla cacca? Il premierato infatti è già operante. Pensate al protagonismo meloniano, al comprimariato tajaniano e al divertissement vonderleyeniano. Non resta che aspettare la passerella erotica delle ballerine nude per divertirsi un po’.

 

 

Corretti nel poco per essere credibili nel molto

Il collegio di garanzia elettorale costituito presso la Corte d’appello di Cagliari ha dichiarato decaduta dalla carica di consigliere regionale Alessandra Todde, che perderebbe quindi, di conseguenza, anche la poltrona da presidente della Regione.

Il collegio ha studiato per lunghi mesi le carte e alla fine è arrivato a una conclusione: ci sono state inadempienze da parte dell’esponente M5s nelle comunicazioni relative alle spese elettorali. Ciò ha indotto l’organismo regionale che controlla la regolarità delle votazioni a emettere un’ordinanza-ingiunzione indirizzata al Consiglio regionale, che adesso è chiamato a stabilire una data per la decisione sulla decadenza.

Plausibile che la maggioranza Pd-5s che regge la Sardegna voti contro la decadenza, ma il caso non sarebbe comunque archiviato.

Le irregolarità contestate dal collegio riguardano la rendicontazione delle spese elettorali. Poco dopo la diffusione della notizia, la governatrice Alessandra Todde ha fatto sapere in via informale che gli aspetti contestati verranno chiariti in sede giudiziaria. Todde aveva già provveduto attraverso una memoria che però non è servita a evitare l’ingiunzione, quindi adesso dovrà impugnare l’atto che le imporrebbe di lasciare la guida della Regione.

Poco dopo i primi umori informali, Todde rilascia una dichiarazione ufficiale: «La notifica della Corte d’appello è un atto amministrativo che impugnerò nelle sedi opportune. Ho piena fiducia nella magistratura e non essendo un provvedimento definitivo continuerò serenamente a fare il mio lavoro nell’interesse del popolo sardo».

Choc nella Regione, ma choc anche nel campo largo. Alessandra Todde ha conquistato la guida della Sardegna lo scorso 25 febbraio raccogliendo 331.109 preferenze, appena 3mila in più del rivale Paolo Truzzu, espressione di FdI. Quella di Todde è stata la prima importante vittoria dell’alleanza tra il Pd di Schlein e il Movimento cinque stelle. Non solo: l’ex sottosegretaria del governo Conte 2 è l’unica pentastellata ad aver scalato una Regione. Aveva fatto rumore anche il fatto che la vittoria fosse arrivata senza il contributo dei centristi, orientando invece l’alleanza a sinistra. Ora questa vittoria andrà difesa in tribunale. (dal quotidiano “Avvenire”)

Non sono solito buttare la croce addosso a nessuno, so perfettamente come sia questione di un attimo cadere nei guai giudiziari, mi rendo conto come spesso la giustizia possa (s)cadere nel mero accanimento burocratico, tuttavia penso e spero che il collegio di garanzia elettorale abbia controllato e ricontrollato bene le carte prima di emettere un provvedimento così grave dalle notevoli conseguenze amministrative e politiche.

Mi permetto di osservare come sarebbe indispensabile il massimo rigore comportamentale in coloro che intendono ricoprire incarichi pubblici: non è la prima volta che le spese elettorali costituiscono una sgradevole buccia di banana per quanti se le fanno rimborsare. Quando si ha a che fare con il pubblico denaro non si può scherzare!

Mi auguro che Alessandra Todde riesca a chiarire la vicenda: in questo caso non mi interessa la sua collocazione politica, mi interessa la credibilità delle istituzioni, che ne esce comunque indebolita assieme alla sua immagine di pubblica amministratrice.

In una fase storica in cui la politica si sta sempre più compromettendo con gli affari, in cui gli scandali fioccano come la neve, in cui gli interessi privati si sovrappongono a quelli pubblici, la vicenda del presidente della regione Sardegna diventa quasi un’inezia. Però, evangelicamente parlando, l’onestà di chi amministra il denaro altrui parte dalla fedeltà nel poco per legittimare il potere su molto.

Non voglio esagerare passando ai massimi sistemi, ma ormai purtroppo la morale viene scambiata per moralismo. Mentre il moralismo è un atteggiamento di rigida e talora ipocrita difesa dei princìpi della morale comune, la morale è una guida che implica coerenza a principi umani più significativi per il bene come.

È moralismo pretendere la massima correttezza da chi detiene il potere? In un clima progressivamente e laidamente trasgressivo, può sembrare di sì. In un quadro di rispetto e valorizzazione del bene comune, assolutamente no.

 

 

 

 

Un papa coraggioso e i don Abbondio sparsi nel mondo

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu “ignora le leggi internazionali e i diritti umani”.  Sono parole attribuite a Papa Francesco dall’agenzia iraniana Irna che le ha raccolte dal rettore dell’Università delle Religioni e delle Denominazioni dell’Iran, Abolhassan Navab, che ha incontrato lo stesso Papa Francesco in questi giorni. Parole pesanti che il Vaticano, finora, non ha smentito. Il Rettore aveva detto: “L’Iran non ha alcun problema con il popolo ebraico, il nostro problema è con assassini come il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu”. Quindi il commento attributo dai media iraniani al Pontefice: “Anche noi non abbiamo problemi con gli ebrei; l’unico problema è con Netanyahu che, ignorando le leggi internazionali e i diritti umani, ha creato crisi nella regione e nel mondo”. Il Papa ha aggiunto, sempre secondo l’Irna, che le organizzazioni internazionali devono affrontare urgentemente questa questione. “Non c’è nessuno che abbia il diritto di calpestare i diritti umani e limitare la loro libertà. Ma oggi ci sono coloro che vogliono schiavizzare gli esseri umani e l’umanità per raggiungere i propri obiettivi,” avrebbe dichiarato ancora il Papa.

La fonte è un nemico storico di Israele ma è evidente che queste parole rischiano di far scattare un nuovo contrasto tra la Santa Sede e Tel Aviv. Dure reazioni del governo israeliano ci sono state di recente sia quando il Papa ha detto che si dovrebbe verificare se a Gaza si stia perpetrando “un genocidio” sia quando il Pontefice, negli auguri natalizi alla Curia e nell’Angelus prima di Natale, aveva espresso il suo dolore per i “bambini mitragliati a Gaza”. Il ministero degli Esteri israeliano aveva risposto con una lunga e dura nota accusando Papa Francesco di usare “due pesi e due misure”. (ANSAit)

Non so se l’Iran stia strumentalizzando o addirittura forzando il pensiero di papa Francesco: è molto probabile. Tuttavia il pensiero del Papa è molto chiaro, lineare e motivato. Gli attuali governanti di Israele stanno forzando a dismisura la situazione e massacrando senza pietà, giustificando queste azioni come risposta difensiva agli attacchi terroristici di Hamas. Come minimo siamo all’eccesso doloso in legittima difesa. Nella peggiore delle ipotesi siamo di fronte ad un vero e proprio genocidio.

Il mondo sta a guardare, solo il Papa ha il coraggio di prescindere dalla realpolitik per dire la verità. L’accusa di usare due pesi e due misure è pretestuosa, semmai è Israele che si comporta così, adottando una misura bellica spropositata rispetto al pur deplorevolissimo peso dell’odio pseudo-palestinese.

Il mondo sta isolando il Papa, esponendolo ai rischi della strumentalizzazione da parte araba: è in prima linea, tutti lo applaudono e nessuno lo appoggia. È un vergognoso comportamento da parte degli Stati che dovrebbero avere una particolare sensibilità in tema di pace.

Qualcuno sostiene magari che il Papa dovrebbe essere più prudente e diplomaticamente più avveduto. Come si fa a non inorridire e a non reagire con vigore al massacro di donne e bambini palestinesi, usando la scusa infantile della ricerca di chi ha cominciato il litigio.

Chi osa mettere in discussione l’operato di Netanyahu viene immediatamente classificato come imperdonabile anti-semita e/o amico del giaguaro arabo-palestinese. Questa è la schematica prevalente narrazione.

“Certo il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare” … scriveva Alessandro Manzoni nel capitolo XXV de” I Promessi Sposi”. Chi non ce l’ha dovrebbe però almeno ascoltare chi ce l’ha e non snobbarlo più o meno vigliaccamente.