Renzi morde e non si capisce se fugge

Qualcuno, riferendosi a Gianfranco Fini, sputava questa amara sentenza: “Non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Discorso che peraltro potrebbe essere tranquillamente applicato a parecchi esponenti politici passati, presenti e (speriamo non) futuri. Parafrasando la sarcastica espressione per applicarla a Matteo Renzi protagonista di questa tremenda fase politica, potrei azzardare così: “Sa parecchie cose, ma ne dice troppe e, soprattutto, nel modo e nel momento sbagliato”.

Faccio al riguardo di seguito alcune citazioni letterali riconducibili all’intervento di Renzi in Parlamento durante il dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio sulla cosiddetta fase due nella lotta al coronavirus.

“Glielo diciamo in faccia: siamo a un bivio. Se sceglierà il populismo non ci avrà al suo fianco”. “Non siamo dalla parte del coronavirus quando diciamo di riaprire. La gente di Bergamo e Brescia che non c’è più, se potesse parlare ci direbbe di riaprire”.

Renzi ha incalzato il premier: “E’ stato bravo a rassicurare gli italiani. Il punto però è che nella fase 2 della politica non basta giocare su paura e preoccupazione. C’è una ricostruzione da fare che è devastante e richiederà visione e scelte coraggiose. Sia più prudente quando parla agli italiani: lei ha detto 11 volte ‘noi consentiamo’. Un presidente del Consiglio non consente, perché le libertà costituzionali vengono prima di lei. Lei non le consente, le riconosce. Io ho negato a Salvini i pieni poteri: non l’ho fatto per darli ad altri”.

“Il suo intervento – ha affermato ancora il leader di Italia Viva rivolgendosi al premier – esige risposte in nome della libertà e della verità: gli italiani per l’emergenza sanitaria sono in uno stato che ricorda gli arresti domiciliari. Non ne usciamo con un paternalismo populista o una visione priva di politica. Nessuno le ha chiesto di riaprire tutto, abbiamo chiesto riaperture con gradualità e proporzionalità”.

“Non possiamo delegare tutto alla comunità scientifica – ha affermato ancora Renzi -. Figuriamoci se non sono contento di vedere questa grande passione per la comunità scientifica che sta prendendo tutto il parlamento, anche chi negli anni scorsi attaccava i virologi o addirittura si proclamava no vax. Il nostro Paese ha avuto momenti in cui la politica ha abdicato rispetto alle sue responsabilità, nel 92-93 ha abdicato alla magistratura, nel primo decennio del 2000 ha abdicato ai tecnici, ora non possiamo abdicare ai virologi, non possiamo chiedere loro come combattere la disoccupazione, tocca alla politica”.

“La presidente Cartabia ha detto con chiarezza che in queste situazioni di emergenza la Costituzione è la bussola: nemmeno durante il terrorismo abbiamo derogato così tanto alla Costituzione – ha detto -. Richiamarla a un uso più prudente dei Dpcm non è lesa maestà. Non può essere un Dpcm a dire se l’amicizia è vera o no, se il fidanzamento è saltuario o stabile, sennò ci avviciniamo allo stato etico”.

Vorrei analizzare nel merito, sinteticamente e per sommi capi, le aspre e (quasi) ricattatorie critiche rivolte da Renzi al presidente del Consiglio.

Quanto al rischio di populismo sinceramente non mi sembra che Giuseppe Conte lo corra più di altri, Renzi compreso. Se si vuole imputare a Conte una eccessiva preoccupazione di curare la propria immagine e di salvaguardare il consenso a sé indirizzato, posso essere in parte d’accordo: troppe e talora inutili conferenze stampa, troppa ed enfatica attenzione ai media e, tramite essi, ai cittadini e poco riguardo verso il Parlamento. Se però avesse parlato meno ai cittadini, gli verrebbe imputato un atteggiamento di aristocrazia istituzionale, di lontananza dalle sofferenze della gente. Mio padre sosteneva che, quando non si va d’accordo, a parlare si sbaglia sempre. Conte ha parlato e sta parlando troppo, spende molte parole ed effettivamente sarebbe meglio che privilegiasse non tanto i fatti, ma l’attenzione alla corretta concretizzazione delle decisioni fattuali operate (mi riferisco a tutte le pastoie burocratiche che stanno pregiudicando e rallentando l’effetto di tanti provvedimenti adottati).

In materia di rispetto delle libertà costituzionali, qualcosa di meglio si poteva fare. Forse non bastava governare a suon di decreti amministrativi, occorreva disegnare a livello parlamentare, compatibilmente con i tempi strettissimi di intervento, un quadro legislativo tale da giustificare una interpretazione restrittiva di certe libertà sacrificate al bene comune.

Relativamente al rischio di delegare tutto alla comunità scientifica c’è da essere abbastanza preoccupati. La politica deve mantenere la sua capacità di ascolto, di sintesi e di decisione. Ognuno deve fare la sua parte ed assumersi le sue responsabilità. Effettivamente a dare troppa retta ai virologi, si può rischiare di paralizzare il Paese all’infinito, ma è altrettanto vero che sottovalutare i rischi, sottolineati, seppure in modo a volte contraddittorio e confuso, dalla scienza, sarebbe un errore imperdonabile e irreversibile. Trovare una via di comportamento che sappia coniugare coraggio e prudenza di fronte alle centinaia di morti che si verificano giornalmente è impresa ardua al limite dell’impossibile.

In conclusione, Renzi ha acutamente messi il dito nelle piaghe dell’azione di governo, ma pur ricordando che il medico pietoso fa la piaga puzzolente, non è il caso di assumere toni così pesanti, quasi distruttivi. Si può criticare con maggiore obiettività e lealtà. Nessuno ha la verità in tasca.

Sulle parole relative ai morti di Bergamo e Brescia Il primo a scagliarsi contro l’ex premier è stato l’europarlamentare M5S Fabio Massimo Castaldo “Sono rimasto inorridito. Ma stiamo scherzando? Ma come si permette questo personaggio in cerca d’autore, malato di visibilità, di strumentalizzare la sofferenza delle persone per fare propaganda?”. Indignato anche il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: “Mi pare un’uscita a dir poco infelice. Se Renzi voleva rendere omaggio ai nostri morti, il modo – coinvolgerli a sostegno della sua proposta di riapertura delle attività – è decisamente quello sbagliato”. Non credo che Renzi intendesse strumentalizzare i morti, ma certo un po’ di prudenza nel linguaggio, un po’ di moderazione nei toni non guasterebbe.

Poi è arrivata la ciliegina sulla torta, vale a dire l’affondo politico di Renzi: nel caso in cui Italia Viva dovesse lasciare “penso che in Parlamento ci sarà una nuova maggioranza. Se Conte ha i numeri con Berlusconi per andare avanti io non ho nessun problema” ha detto da Bruno Vespa. Due errori in uno: l’ingiusto e inopportuno svaccamento dell’atteggiamento criticamente moderato di Silvio Berlusconi e della sua residuale Forza Italia, da non cestinare tout court (in questo momento più che mai, c’è bisogno di tutti, anche della moderazione del Cavaliere, senza farsi illusioni, ma senza pregiudiziali chiusure); la subdola presa di distanza dalla maggioranza di governo giustificata pretestuosamente con il pericolo di inquinamento politico destrorso (storia vecchia quella di mettere strumentalmente le mani avanti per preparare  dialetticamente scelte che covano nel petto).

Ecco perché ho esordito dicendo ““Renzi sa parecchie cose, ma ne dice troppe e, soprattutto, nel modo e nel momento sbagliato”. Mi permetto di aggiungere che la parola che dice non si comprende se sia “vóce del sén fuggita pòi richiamàr non vale” o se sia voce dalla mente partorita per un disegno politico preciso, che non capisco e, se capisco, non condivido.

 

Opposizione respinta

La comprensione, la saggezza e l’equilibrio dimostrati dal popolo italiano preoccupano certe forze politiche, che si vedono spiazzate nelle loro tattiche: il timore è che l’obbedienza civile e il rispetto per le istituzioni, seppure più obbligati che convinti, possano indirettamente rafforzare gli attuali equilibri ed in particolare la posizione del presidente del consiglio Giuseppe Conte. Il clima emergenziale porta la gente ad accantonare le contrapposizioni e le polemiche politiche per andare al sodo delle questioni.

E allora per recuperare terreno e consenso viene rispolverato tutto l’armamentario demagogico e il dibattito viene trasformato in rissa parlamentare: si è scatenata da parte della Lega una inqualificabile azione volta a creare malcontento e conflittualità con vergognose bagarre e occupazioni nelle aule parlamentari. Attenzione, perché di queste pacchiane strumentalizzazioni la Lega, prima o poi, dovrà rispondere agli italiani, che forse col coronavirus potrebbero cominciare ad aprire gli occhi sulla inconsistenza politica del centro-destra a trazione leghista.

La Lega è un partito di rissa nazionale e di governo regionale: appaiono come due facce di una medaglia paradossale. Se il governo centrale non è esente da critiche, i governi regionali non si sono certo dimostrati esempi di bravura, tempestività ed efficienza. Come si fa a tenere un piede nel dialogo e nella collaborazione delle cabine di regia e soffiare sul fuoco delle contrapposizioni manichee nelle aule parlamentari.

Per coprire in qualche modo la propria inconsistenza politica si blatera di eventuali governi di unità nazionale da promuovere per gestire la grave situazione: e quale unità si potrebbe mai costruire partendo dalle divisioni in atto? Appare francamente demenziale pretendere di costruire su macerie divisive prospettive di unità e collaborazione.  In realtà alla Lega fa paura l’essere provocata dall’ipotesi di un serio governo futuro di solidarietà, che metterebbe a nudo le sue contraddizioni di merito, di metodo, di strategia e di tattica. Allora meglio apprezzare ciò che non si potrà mai comprare.

C’è poi il dente avvelenato verso l’imperdonabile Giuseppe Conte, reo di avere liquidato, con un rigurgito di dignità, l’esperienza del governo giallo-verde: andava benissimo quando accettava di galleggiare fra le onde dimaiane e salviniane, ora è il nemico giurato a cui bisogna farla pagare cara.

Tutto quindi si svolge al di fuori del merito delle questioni politiche, che vengono dribblate con i richiami pretestuosi alla costituzione, al parlamentarismo, alle libertà e ai diritti dei cittadini.   Stiamo rischiando di retrocedere la discussione su nodi fondamentali per la politica e le istituzioni alla querelle sul sesso degli angeli. Il dare importanza a questioni pur rilevanti, ignorando questioni urgenti e drammatiche nel momento presente, è una scelta irresponsabile e deviante.

Assistendo in televisione al dibattito parlamentare mi sono convinto che l’atteggiamento dei cittadini sia di livello molto più serio e responsabile di quello emergente dalle polemiche innescate soprattutto dall’opposizione leghista. Intendiamoci bene, non tutte le colpe sono della Lega, anche gli altri partiti non brillano, anche il governo ha commesso e sta commettendo parecchi errori di procedura, di comunicazione, di scelta, le regioni sbandano sulla strada dell’autonomia e del primadonnismo decentrato. Nessuno ha soluzioni pronte e facili. È stucchevole ridurre il dibattito tra favorevoli e contrari alla chiusura o alla riapertura. Sarà possibile ritrovare il bandolo della matassa polemicamente e strumentalmente aggrovigliata? Temo che la malapolitica possa avere il sopravvento sulla buona politica. Sarebbe una sciagura aggiuntiva, pioverebbe sul bagnato del coronavirus.  Per combattere un virus occorrono gli anticorpi, è necessario irrobustire le difese dell’organismo: vale per le persone, ma vale anche per la società. Se la politica anziché alzare le difese, le abbassa, c’è da essere seriamente preoccupati.

Ciechi, sordi e ciarlieri

Il dato unificante della battaglia contro il covid 19 è l’incertezza: stanno e stiamo andando tutti a tentoni. È così per gli scienziati e gli esperti: non hanno idee univoche sull’origine e sulle caratteristiche del virus, sulle cause del contagio, sulle misure da adottare per difendersi, sulla sintomatologia, l’accertamento e la cura della malattia, sull’immunità post-malattia. La confusione è aggravata poi dal protagonismo degli esperti, che, nonostante tutto, sputano sentenze, si accapigliano fra di loro, cambiano parere in continuazione, ostentano improbabile sicurezza.

Di fronte a questo imbarazzante quadro scientifico, la politica non può far finta di niente, deve pure ascoltare, non può ignorare i pareri tecnici, fregarsene e andare avanti per la sua strada. Certo, un conto è appiattirsi sulle analisi scientifiche, un conto è considerarle per arrivare a decisioni di governo. Gli atteggiamenti possono oscillare dalla delega (quasi) in bianco verso gli esperti al decisionismo a tutti i costi (quasi) a prescindere dalle indicazioni ricevute dagli esperti stessi. In tutti i casi si è comunque schiavi dell’incertezza.

Chi governa è incerto sul da farsi, finisce forse per dare un colpo al cerchio della salvaguardia della salute ed un colpo alla botte della ripresa economica. L’arte del compromesso si fa disperata e irreversibile. Si sbaglia sempre e comunque e gli errori si pagano carissimi. La gente sta a guardare, aspetta, comprende l’enormità della questione, ma vorrebbe cercare di uscirne il prima possibile, leccandosi le ferite più o meno inguaribili.

L’opposizione politica, esterna ed interna al governo (e questa è un’ulteriore grave anomalia) guarda le travi nell’occhio dei governanti, ma trascura le proprie, non ha controproposte serie da mettere in campo, oscilla fra il lisciare il pelo alla gente esasperata e l’attaccare strumentalmente ed esageratamente l’operato del governo. Si va dai dubbi sulla costituzionalità dei provvedimenti alla loro efficacia, dall’accusa di balbuzie europeistica alla voglia sovranista di rivendicare una velleitaria autonomia, dall’enfasi regionalistica alle accuse di centralismo e burocratismo. Due ciechi che camminano insieme certamente vanno a sbattere contro un muro o vanno a finire in un fosso. Gesù dice chiaramente: “Un cieco non può guidare un altro cieco”. Cosa accadrà a governo e opposizione che dovrebbero camminare insieme e non sanno realmente cos’è il coronavirus? Certamente vanno a finire nel fosso delle liti da cortile e nel baratro della totale ingovernabilità.

Le forze economiche e sociali, imprigionate più che mai nelle loro visioni particolari e corporative, soffiano sul fuoco delle proteste, rinunciando completamente all’improprio ruolo politico che comunque spetterebbe a loro, preoccupate soprattutto di recuperare e salvaguardare la funzione di rappresentanza peraltro persa da parecchio tempo.

Ritorno al punto di partenza: tutti vanno a tentoni, dando l’illusione di possedere ricette facili per problemi difficilissimi. È brutto ammettere di andare a tentoni, meglio cercare di spacciare l’immagine di chi è sicuro nelle proposte e nelle decisioni. E giù dichiarazioni in libertà, accuse immotivate, difese arroccate, dialoghi fra sordi, come quello raccontato sarcasticamente da mio padre.

A volte, proprio per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto- quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: “No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Visto che siamo in tema di sordità, tanto per sollevare il morale, ricordo come nel bar frequentato abitualmente da mio padre ci fosse qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”.

Gli apparecchi acustici dei protagonisti della vicenda coronavirus sembrano tutti spenti e quindi tutti possono darsi dello stupido con una certa disinvoltura. Purtroppo i problemi restano e non possono aspettare che i protagonisti della vicenda riacquistino l’udito e misurino le parole.

 

Uno strano rigurgito poco eucaristico e molto clericale

Pur ammettendo di essere un cristiano di ultima serie, e lo sono veramente, confesso che la messa partecipata e vissuta comunitariamente mi manca, anche se, quando potevo, finivo magari col partecipare in modo superficiale, sbrigativo e soprattutto sganciato dall’impegno nel quotidiano.

Ammetto anche di non essermi mai sentito legato alla Chiesa come in questo momento: ai suoi pastori devo dare atto di grande vicinanza al gregge. Fatto straordinariamente positivo per l’incallito e pedante spirito critico che mi ritrovo, a cui peraltro non rinuncio. In questo mi sento perfettamente in linea con mia sorella Lucia, la quale mi ha fatto da battistrada e da esempio nella partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale.

Ecco perché mi sento di esprimere un pur rispettoso dissenso rispetto all’allarmistica reazione dei vescovi italiani riguardo al protrarsi del divieto di celebrare la messa con la partecipazione dei fedeli, motivato dal discorso del distanziamento sociale contro il coronavirus. Improvvisamente siamo passati dal fin troppo accondiscendente giudizio della fase uno al netto e aspro rifiuto nella fase due, arrivando persino a configurare una sorta di attentato alla libertà di culto.

Per la verità tutta l’azione governativa in materia di coronavirus ha viaggiato e sta viaggiando sul filo del rasoio delle libertà costituzionali: non sono sicurissimo che, a livello concettuale e procedurale, tutto stia avvenendo nel rispetto dei diritti irrinunciabili delle persone, pur sacrificati, in buona fede e con retta intenzione, sull’altare della difesa della salute dei cittadini.

Sul piano civile mi sembra che le sommesse, ma inequivocabili e convincenti, parole del Papa possano mettere fine ad un possibile quanto assurdo conflitto Stato-Chiesa a margine dell’emergenza coronavirus.  Francesco ha presieduto la Messa a Casa Santa Marta nel martedì della III settimana di Pasqua. Nell’introduzione, pensando al comportamento del popolo di Dio di fronte alla fine della quarantena, ha detto: “In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni”.

Per quanto riguardo l’aspetto religioso della questione riporto alcune significative, provocatorie e schiette frasi di padre Alberto Maggi, un monaco di grande spessore biblico, teologico e culturale: “Se ci sono luoghi veicolo di infezioni, questi sono proprio le chiese, perché la gente tocca, bacia, sbaciucchia… Io combatto quotidianamente con persone che dicono: “Ma io ho fede”. Ed io rispondo che il virus non va a vedere chi ha fede e chi no. Quindi le chiese vanno chiuse, è necessario chiuderle. Si è insistito troppo sull’incontro con il Signore dentro la chiesa, e questo ha fatto sì che poi, uscendo, ci si dimentica di Dio. Il Signore non è presente soltanto dentro una chiesa, ci aspetta soprattutto fuori, quando ci mettiamo a servizio degli altri. Lì c’è la presenza di Dio. L’eucaristia è il momento centrale della vita della comunità cristiana. Ma in molte aree geografiche del mondo, pensiamo all’Amazzonia, alcune comunità se vedono il prete e celebrano la messa una volta l’anno è un miracolo! Forse per questo sono meno cristiani? Questa chiusura forzata e questo digiuno eucaristico ci fanno riscoprire la presenza di Gesù anche nella Parola. La messa in streaming proprio non la capisco, non può essere celebrata in streaming, la messa ha bisogno delle persone presenti. È come se mi prepari un bel dolce e poi lo mangi solo tu. Noi facciamo la lettura della Parola, ma la messa ci siamo sempre rifiutati di farla. Meglio altre celebrazioni, come appunto quelle della Parola. Dio si fa pane e diventa nutrimento per gli altri. Ma questo pane non è soltanto nell’eucaristia, è anche nella Parola. È ugualmente pane. È presenza di Dio. E ci aiuta a farci pane per gli altri. Per farci pane, dobbiamo ricevere questo pane. Se adesso non è possibile la celebrazione eucaristica, facciamo la celebrazione della Parola. E la Parola ci nutre. Poi quando tutto questo sarà finito, allora torneremo a celebrare con una gioia ancora più grande”.

Mi trovo sulla linea tracciata da padre Maggi, infatti quando seguo la messa in televisione riesco a stare molto concentrato sulla liturgia della Parola, poi sulla parte eucaristica faccio fatica ad immedesimarmi e preferisco fare i miei dialoghi direttamente con Dio. Sto cercando di mettere molto impegno nell’approfondimento della Parola, guidato anche dal Papa con le sue splendide omelie. Non basta leggere, riflettere, pensare, bisogna agire e qui casca l’asino… Interpreto la religione in chiave di impegno verso gli altri, anche se in tal senso combino poco.

Non vorrei che, come afferma provocatoriamente padre Maggi, “il problema fossero i preti, che sono cresciuti, educati e abituati al rito, per cui senza il rito si sentono persi, smarriti, vanno fuori di testa, non sanno più cosa inventarsi”. Rispunta il mio spirito anticlericale, anche se ho uno zio sacerdote come santo protettore, ho avuto e ho amicizia con tanti sacerdoti che mi sono stati maestri di fede autentica. Proprio per questo credo che i vescovi e il clero non si debbano perdere nel bicchiere d’acqua della polemica col governo sulle messe vietate: sarebbe meglio sostituire alle polemiche, su cui qualcuno sta strumentalmente soffiando, un’elaborazione propositiva di idee per la società del dopo-coronavirus.

Rischio “psicoboom” alla Trump

Da una prima frettolosa e superficiale occhiata alle nuove disposizioni governative inerenti la timida e parziale riapertura nel post lock down ho ricavato un’impressione: poteva andare peggio. Si nota come sia stato fatto un lavoro notevole a monte e come sia stata adottata una certa obbligatoria prudenza. Le contraddizioni emergono con una certa evidenza, ma come ripeto, tutto sommato il casino non è e non sarà totale.

Viste in negativo, le norme possono sembrare un’accozzaglia di regole con le quali non sarà facile vivere: è come viaggiare in automobile col freno a mano tirato. Viste in positivo, le nuove prescrizioni tentano di dare un filo di speranza alla ripresa dell’attività economica e sociale.  Qualcosa si muoverà e speriamo non sia sufficiente a farci tornare in pieno e crescente contagio.

È una riapertura all’italiana, dove ci si può arrangiare alla meno peggio? Può darsi. Il rischio è che gli esclusi comincino a protestare e rientri dalla finestra quanto si voleva tenere fuori dalla porta. Aprono i ristoranti e non le chiese? Gli sposati possono incontrarsi liberamente, addirittura convivere tranquillamente, andare a letto insieme con tutto quel che segue e i non sposati, che non convivono ma hanno rapporti sentimentali stabili, devono fare astinenza a livello sentimentale e sessuale? Falsi moralismi da coronavirus?   Parrucchieri, estetisti, ristoranti e bar restano chiusi per un altro mese: perché se sono in grado di rispettare le regole non possono riaprire assieme agli altri esercizi? Le attività più a rischio finiranno con l’essere quelle meno pericolose per tutta una serie di misure che verranno adottate e rispettate da esercenti e clienti: allora perché penalizzarle in partenza? E i bambini a casa da scuola con i genitori che riprendono il lavoro? Gli aiuti sembrano acqua fresca per un così grosso problema. Sono soltanto alcune incongruenze prontamente rilevate.

La cosa peggiore riguarda la mancanza, seppure in nuce o in filigrana, di un disegno complessivo e a medio termine. Non possiamo pensare di vivacchiare sperando che la poca trippa rimasta basti per i pochi gatti di risulta. Commercio al dettaglio e piccolo artigianato subiranno un taglio pazzesco: chi aveva già un piede fuori se ne andrà, chi meditava di chiudere in bellezza si ridurrà a chiudere per disperazione. Chi resterà vivrà? Il discorso può valere anche per le aziende in generale: le più deboli, sul piano finanziario e non solo, probabilmente ci lasceranno le penne. La cura dimagrante, brutalmente parlando, riequilibrerà i rapporti economici e quadrerà il cerchio occupazionale? Come potranno avvenire certe riconversioni produttive? Facendo leva sui cadaveri o rianimando e aiutando i malati gravi?

Parlare è facile, governare è difficilissimo. Ne sono consapevole. Ciò non toglie che occorra uscire da un disegno meramente provvisorio ed estremamente precario per cominciare a dipingere qualche cosa di preciso. Non credo possa bastare riavviare la macchina per poi fare affidamento quasi esclusivo sulla fantasia e sulla volontà degli italiani.  Qualcuno potrebbe ipotizzare una sorta di condono fiscale strisciante: non pagate le tasse, lavorate, investite, fregatevene di vincoli e regole vari, rimuovete unilateralmente lacci e lacciuoli, producete, fate lavorare e che Dio ce la mandi buona.

Una sorta di boom economico riveduto e scorretto, perché alla eventuale ripresa dell’offerta potrebbe non corrispondere affatto un’adeguata domanda. Nello psicodramma che stiamo vivendo chi avrà il coraggio di ricominciare a consumare, di andare in vacanza, di viaggiare, di curare maniacalmente la propria immagine. Ammesso e non concesso che possa trovarsi un punto d’incontro, alla prossima nuova pandemia o alla stessa pandemia di ritorno potremmo ritrovarci con una sanità che non regge, con una burocrazia che fa schifo, con un sistema premiante per i forti e penalizzante per i deboli. Missione compiuta alla Donald Trump, che magari nel frattempo sarà stato riconfermato alla Casa Bianca. E attenzione perché qualche trumpino purchessia lo abbiamo anche noi.

 

Redistribuzione (di)sperata

Il coronavirus ha sconvolto la nostra società?! Non sono d’accordo. Ha messo in crisi il nostro modo di vivere, questo sì. Quanto alla società ne ha solo brutalmente e inappellabilmente scoperto gli altarini. Ha portato cioè allo scoperto tutti i difetti ed i limiti del nostro sistema mettendone a nudo carenze e contraddizioni.

In questi giorni si fa un gran parlare degli ostacoli burocratici frapposti alla concretizzazione delle misure di sostegno all’economia di famiglie e imprese. Niente di nuovo, si tratta di un male storico e cronico della nostra società. La sanità ha mostrato la corda, il sistema non ha retto e probabilmente, se non fosse stato per il senso di responsabilità e la dedizione degli operatori, avremmo assistito ad un vero e proprio crollo verticale delle strutture sanitarie. Nel momento in cui si ipotizza una riattivazione dei processi produttivi ed emerge la necessità di trovare una organizzazione del lavoro che dia una certa sicurezza, scopriamo che di sicurezza sono piene le leggi, le scartoffie, le procedure, ma la gente muore sul lavoro come se niente fosse e questo avveniva ben prima del coronavirus. Non ci sono prove scientifiche, ma certamente l’inquinamento, i disastri ecologici, gli squilibri del cosiddetto ecosistema hanno costituito terreno fertile per il proliferare del virus. Sacche di miseria sono presenti e costituiscono un carattere distintivo del nostro finto benessere basato sull’inequità e sull’egoismo: basti pensare a come sono distribuite le ricchezze. Certamente il post-coronavirus accentuerà ulteriormente le disparità, allargando la fascia di chi “vive male” e restringendo quella di chi “vive bene”.

La debolezza della politica e della classe politica sono drammaticamente evidenziate dall’emergenza: da tempo si sapeva che la politica e le forze intermedie erano inadeguate rispetto ai problemi, il coronavirus ha messo il dito nella piaga. Anche le disfunzioni istituzionali sono state colpite da una luce sinistra: il conflitto stato-regioni, il difficile rapporto governo-parlamento, il problematico connubio fra politica e scienza. Sono tutti gravi sintomi di una confusione istituzionale deleteria.

Mi sono limitato ad elencare le più evidenti storture del nostro sistema riconducibili ad una impostazione da rivedere dalle e nelle fondamenta. Mio padre, amante dei proverbi e dei modi di dire, riusciva anche in questo campo a mettere il proprio grano di sale. Era solito citare due proverbi: “chi fa da sè fa per tre” e “l’unione fa la forza”. Aggiungeva: “E alóra cme s’à da far”. Oggi diciamo “nulla sarà più come prima” e poi scriviamo dappertutto che “andrà tutto bene”. C’è del paradosso in questo modo superficiale di reagire all’emergenza.

Sono convinto che un processo di cambiamento si imponga: qualcuno parla di “decrescita felice”, qualcun altro di “redistribuzione disperata”. Di fronte a questa prospettiva mi pongo due angoscianti problemi riguardanti i tempi e i modi del rinnovamento e il merito dello stesso. Sui contenuti ho alcune fortissime perplessità, che costituiscono una devastante contraddizione: i settori economici, sui quali occorrerebbe puntare per una “sanificazione” economica, per lo “sviluppo” dell’occupazione oltre che per la crescita umana, sono il turismo, l’arte e la cultura, tre discorsi fortemente interconnessi ed interdipendenti. Si tratterebbe cioè di rifare la scala dei beni da produrre, privilegiando quelli ambientali, artistici e culturali. Qui viene il difficile al limite dell’impossibile: si tratta dei tre settori drasticamente appiedati dal coronavirus e per i quali non si intravede una seppur parziale ripartenza.

Il turismo è letteralmente azzerato e non è dato sapere se e come potrà riprendere vigore. Se la gente non gira, non viaggia, non si muove disinvoltamente, come potranno rianimarsi i musei, le mostre, i monumenti e tutto il patrimonio artistico in genere? Se i teatri e le sedi che ospitano spettacoli di ogni genere culturale non riaprono e, cosa ancor più difficile, le orchestre, i cori, i palcoscenici, i gruppi teatrali e musicali restano imprigionati nel distanziamento sociale, come si potrà animare la società e renderla attenta e accogliente verso la “nouvelle vague” post coronavirus? E le scuole e le università quando e come riapriranno al di là della irritante faciloneria informatica?

E poi, il profondo processo di rinnovamento che tempi potrà avere? Bisognerà imporre enormi sacrifici a cui non corrisponderanno immediati benefici. Bisognerà pur vivere in attesa che molte cose cambino, le resistenze saranno fortissime, i conflitti pure. C’è da farsi venire il mal di testa e di cuore. I discorsi sono tutti aperti. Chi avrà il carisma e l’autorevolezza per guidare la macchina verso un mondo nuovo? Vedo due emblematici personaggi: entrambi hanno in questi giorni solitariamente e malinconicamente percorso una scalinata. Papa Francesco a piazza san Pietro la sera del venerdì santo e ancor prima la sera della preghiera per il mondo intero; Sergio Mattarella all’altare della Patria il 25 aprile, festa della liberazione. Erano soli, ma avevano dietro molta gente. La strada è in salita, ma se c’è qualcuno, che sa il fatto suo, a fare da apripista, tutto diventa possibile, anche se molto difficile.

I Portoghesi non sono in Portogallo

Il presidente americano Donald Trump ha indicato le iniezioni di disinfettante e l’esposizione ai raggi ultravioletti, come una possibile strategia per contrastare il Covid-19. ”Vedo che il disinfettante lo distrugge in un minuto. Un minuto. Non c’è un modo di fare qualcosa di simile, iniettandolo? Sarebbe interessante verificarlo”, ha detto Trump nel corso del briefing quotidiano sul Covid-19. Invitando gli americani a ”prendere il sole”, Trump ha quindi suggerito l’uso di raggi ultravioletti per contrastare il coronavirus, facendo riferimento a uno studio secondo il quale il Covid-19 sparirebbe più velocemente alla luce del sole e ad alte temperature. ”Non sono un dottore”, ha aggiunto il presente Usa, affermando che ”sono qui per illustrare delle idee”.

La macchina del consenso sembra funzionare così. Il populismo, dice Massimo Cacciari, sta prendendo il posto della liberal-democrazia in tutto il mondo. Anche in Europa ci sono esempi clamorosi come quello del premier ungherese Victor Orban. Per fortuna attualmente i populisti nei Paesi europei sono prevalentemente all’opposizione, ma anche da quella posizione possono fare gravissimi danni.

In Italia la destra sovranista che fa? Strepita. Così il duo Salvini-Meloni gioca all’attacco e tiene un atteggiamento bellicoso nei confronti del governo. Sulle trattative in corso in sede europea gufa e urla al fallimento. “Approvato il Mes, una drammatica ipoteca sul futuro dell’Italia e dei nostri figli”. Lo scrive Matteo Salvini su Fb. “Le promesse del governo di non usare il Mes? Gli impegni, gli attacchi, le promesse di Conte? Erano solo Fake news. Ladri. Ladri di Futuro, di Democrazia, di Libertà. Noi ci siamo e non ci arrendiamo, viva l’Italia libera e sovrana”.

Nel resto d’Europa c’è qualcosa di molto meglio, ad esempio la nota che il leader dell’opposizione in Portogallo ha inviato al presidente Costa nella quale si sottolinea come «la minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà e senso di responsabilità. Per il governo in questo momento non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione, ma di collaborazione. Signor primo ministro Antonio Costa conti sul nostro aiuto».

Di fronte all’innegabile debolezza del governo Conte, da tempo si ipotizza di sostituirlo con una sorta di governo di unità nazionale formato da personaggi competenti e autorevoli, in grado di guidare il Paese nella rinascita post-coronavirus. Ci sarebbe pronto anche il candidato premier. Per una tale prospettiva mancano però i presupposti politici, cioè la capacità di mettere da parte gli interessi di parte e di guardare all’interesse comune. Forse quindi vale la pena rispettare almeno l’attuale compagine governativa. Mi ricordo il calzante aneddoto che tutti conoscono: il baritono venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. «Fischiate me? Sentirete il tenore!». Chi siano il tenore ed il baritono non saprei: ognuno è libero di adattare la scena a suo piacimento. Tra l’altro il pubblico non sta protestando clamorosamente contro il governo Conte: qualcuno sostiene che lo zoccolo del consenso sia duro in quanto è normale che in situazioni di gravissime difficoltà ci si stringa alle istituzioni indipendentemente da chi le occupa. Tra l’altro il tenore (Draghi) che verrebbe dopo il baritono (Conte) non sarebbe certo un solista da prendere sotto gamba. Il quadro politico però è quello che è: bisogna tenerne conto.

Sono rimasto francamente sconvolto da una notizia circolata, che ha dell’incredibile: se fosse vero avremmo veramente toccato il fondo della politica a livello internazionale. Donald Trump vorrebbe corrompere un’azienda tedesca che sta sviluppando il vaccino per il coronavirus offrendo “fino a un miliardo di euro” per comprare la cura “solo per gli Stati Uniti”. Secondo il quotidiano tedesco Die Welt il presidente americano ha contattato l’azienda farmaceutica di Tubinga che lavora al vaccino, la CureVac, per averlo in esclusiva. Ma la società ha smentito la notizia: “Non abbiamo ricevuto un’offerta”, ha detto un portavoce di CureVac, precisando che la questione della distribuzione di una potenziale cura contro il coronavirus è ancora totalmente aperta. “L’esclusività del vaccino non è in discussione”, ha aggiunto oggi una portavoce dell’economia tedesca in conferenza stampa a Berlino. Il governo tedesco, ha aggiunto la portavoce, ha grande interesse nel far restare il vaccino in Germania e in Europa. “Ci sono diversi strumenti” per evitare che ci sia un’acquisizione che è contro gli interessi della sanità e della sicurezza pubblica, ha proseguito la portavoce.

Se il clima a livello mondiale fosse veramente questo, se in Europa si continuasse a fare tanta fatica a trovare il bandolo della matassa della solidarietà, se in Italia l’opposizione proseguisse nelle sue sovraniste e populiste gufate dando del ladro di futuro, democrazia e libertà al presidente del Consiglio, ci sarebbe veramente o da chiudersi in un lock down perpetuo oppure da uscire di casa buttando, come si suol dire, “il prete nella merda”. Speriamo non sia proprio così, anche se il quadro non è troppo incoraggiante. Speriamo in Joe Biden, in Angela Merkel, in Sergio Mattarella. Alla più buca si potrebbe emigrare in Portogallo. Ci accoglieranno?

 

Ora e sempre RESISTENZA

Don Giovanni Barbareschi, sacerdote impegnato nella Resistenza, protagonista del movimento scoutistico delle “Aquile Randagie”, sosteneva: “Non ci sono liberatori. Ci sono uomini che si liberano e diventano liberi”. Questo stupendo motto, scritto peraltro nelle pagine del giornale clandestino “Il ribelle”, che circolava a costo della vita dei promotori nonostante i divieti di regime e comunicava idee e discorsi di libertà in pieno clima fascista, ci invita a celebrare con grande impegno la festa della Liberazione.

Mio padre mi ha insegnato che l’antifascismo nasceva dalla ribellione delle coscienze degli uomini liberi, era un atteggiamento culturale prima che politico. Egli era figlio dell’Oltretorrente, ne conosceva tutti gli abitanti, contava moltissimi amici nel quartiere, ne aveva frequentato le osterie (dove si osava parlar male del fascismo e di Mussolini), le barberie (luogo allora di ritrovo e del gossip più antico e leale), aveva cantato e discusso di musica nei covi popolari e verdiani, aveva respirato a pieni polmoni un’aria sana e democratica e quindi non poteva farsi intossicare dal fascismo.

Dopo mio padre ecco mio zio Ennio: un sacerdote di fulgida vocazione senza alcun tratto di clericalismo, un uomo profondamente legato alla storia della sua famiglia senza esserne condizionato, un prete dei giovani senza fondo tinta giovanilista, un democratico senza tentazione di protagonismo, un antifascista generoso senza faziosità, un partigiano convinto senza partigianeria, un uomo di Chiesa con una mentalità laica, un cristiano capace di portare la croce della sofferenza amando la vita senza indulgere al dolorismo.

Amo collocare l’antifascismo e l’anelito alla libertà entro queste inossidabili coordinate famigliari anche per evitare il rischio di perderne tutta la freschezza e l’attualità in un momento storico molto particolare, che potrebbe anche indurci a sottovalutarne la portata considerandolo un fatto anacronistico in tempo di coronavirus. Al contrario, quando si vivono gravissime difficoltà, bisogna rifarsi alle risorse provenienti dalla cultura e dalla storia, collaudate a prova di bomba e quindi anche di coronavirus.

Dobbiamo sforzarci di trasferire i valori resistenziali e costituzionali nel contesto socio-politico attuale, idealità che forse, anzi certamente, abbiamo tradito strada facendo fino a sfornare un mondo ingiusto, discriminatorio, egoistico e persino razzistico. Occorrerebbe ripartire dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza per capire lo scempio che abbiamo perpetrato. Se il coronavirus mette impietosamente a nudo tutti i difetti del nostro sistema di vita senza darci una via d’uscita, il grido dei martiri della Resistenza ci rimprovera ma ci offre l’alternativa negli ideali di giustizia, uguaglianza, solidarietà e progresso civile.

Raccogliamo questa sfida e proviamo a ricominciare daccapo: lo stare chiusi in casa diventi la prigione in cui maturarono i sogni resistenziali. Poi verrà di nuovo il tempo della battaglia secondo tempi e modalità tutte da scoprire. Non illudiamoci che ci venga a liberare un vaccino. “Non ci sono liberatori. Ci sono uomini che si liberano e diventano liberi”.

 

 

È utile piangere sui virus versati

Nei prossimi mesi il mondo rischia “una serie di carestie di proporzioni bibliche” a causa dell’emergenza Coronavirus, con poco tempo a disposizione per intervenire prima che “milioni di persone muoiano di fame”. L’allarme è stato lanciato da David Beasley, capo del World Food Programme (WFP), secondo cui “è necessaria un’azione urgente per evitare una catastrofe”. “Devo avvertirvi – ha detto davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu – se non ci prepariamo e non agiamo ora per garantire l’accesso, evitare carenza di finanziamenti e interruzioni degli scambi, potremmo trovarci ad affrontare più carestie di proporzioni bibliche nell’arco di pochi mesi”. Sono oltre 30 i Paesi a rischio fame, e in 10 di questi già oggi più di un milione di persone è a un passo della fame. “Non stiamo parlando di persone che vanno a letto affamate – ha precisato al Guardian – stiamo parlando di condizioni estreme, stato di emergenza, le persone stanno letteralmente andando incontro alla fame. Se non procuriamo cibo alle persone, le persone moriranno. Questa è più di una semplice pandemia: sta creando una pandemia di fame. Questa è una catastrofe umanitaria e alimentare”. Un rapporto del WFP stima che il numero di persone che soffrono la fame potrebbe passare da 135 milioni a oltre 250 milioni a causa della pandemia. I Paesi più a rischio sono quelli colpiti da conflitti, crisi economiche e cambiamenti climatici: in particolare, Yemen, Repubblica democratica del Congo, Afghanistan, Venezuela, Etiopia, Sudan del Sud, Sudan, Siria, Nigeria e Haiti. Ma “se riceviamo il denaro e teniamo aperte le catene di approvvigionamento, possiamo evitare la carestia – ha rimarcato Beasley – possiamo fermare tutto questo se agiamo ora”.

Noi siamo tutti presi, e giustamente, dalle nostre mascherine, ma se alziamo lo sguardo, troviamo una catastrofe mondiale che ci aspetta dietro l’angolo. Si prepara uno scenario apocalittico, che fa pensare alla fine del mondo. Sono lontano da queste visioni catastrofiste e non credo nelle punizioni di un Dio vendicativo e tremendo, ma ricordo che Gesù alla fine di una sua risposta sull’origine delle disgrazie, dopo averle sganciate dalla logica punitiva conseguente al peccato degli uomini, aggiunge una frase sibillina: “Però, se non vi convertite, perirete tutti”. Non sarà la fine del mondo, ma sicuramente è la fine di un mondo profondamento sbagliato, che abbiamo costruito e che sta scoppiando. Sono talmente tante le cose che non vanno da non riuscire a individuare i punti di attacco per i necessari e  profondi cambiamenti.  Non c’è però tempo da perdere in discussioni accademiche e in dibattiti politici. Ci aspettano sacrifici enormi da tutti i punti di vista. Prima che arrivi un eventuale vaccino e che possa essere distribuito e applicato alle persone passeranno mesi e poi, di vaccini, ne occorrerebbero altri, contro la miseria, la fame, le denutrizioni, le ingiustizie, le guerre, i disastri climatici e ambientali. Questa seconda categoria di vaccini dipende da tutti noi e non dai laboratori di ricerca.

Dallo Spallanzani di Roma arriva uno studio sulla trasmissione del Covid-19. I ricercatori hanno isolato il virus nelle lacrime di una paziente, arrivando alla conclusione che è attivo anche nelle “secrezioni oculari” e “potenzialmente infettivo nelle lacrime anche quando i campioni respiratori della paziente, a tre settimane dal ricovero, risultavano ormai negativi”. In pratica il virus è in grado di replicarsi anche nelle congiuntive, non solo nell’apparato respiratorio: “Si tratta di una scoperta che ha importanti implicazioni anche sul piano della salute pubblica, tant’è che il risultato è stato comunicato all’Oms”. Ma soprattutto lo studio dello Spallanzani dimostra che gli occhi sono una delle porte di ingresso del virus nell’organismo, ma soprattutto una potenziale fonte di contagio. Per questo motivo gli esperti consigliano fortemente un uso appropriato di dispositivi di protezione in situazioni potenzialmente pericolose. Non è invece ancora chiaro fino a quando il virus continui ad essere attivo e potenzialmente infettivo nelle lacrime: saranno necessari ulteriori studi.

Ho messo in amara correlazione il discorso carestia con quello della presenza del virus nelle lacrime, andando a prestito da notizie di agenzia e articoli pubblicati sui quotidiani.  Non so cosa possa significare il risultato della ricerca sulle lacrime: se oltre le mascherine dovremo portare anche gli occhiali protettivi, se d’ora in poi sarà vietato piangere, salvi i casi previsti con apposito Dpcm. Per il momento credo che le lacrime di fronte ai lutti e alle rovine che ci stanno piombando addosso siano inevitabili e forse anche utili, se ci puliranno lo sguardo sull’esistenza e sul futuro del mondo, che, volenti o nolenti, dipende da noi.

 

 

 

 

Le allegre comari della scienza

La polemica tra gli scienziati è purtroppo cosa abbastanza solita. In questi giorni è nata e divampata dalle dichiarazioni dello scienziato professore di virologia Giulio Tarro, fino al 2006 primario a Napoli: «In estate saremo immuni dal virus: il Coronavirus ci abbandonerà tra un mese, come tutti i corona influenzali». Il suo collega del San Raffaele di Milano Roberto Burioni ha risposto provocatoriamente: « Se Tarro è virologo da Nobel, io sono Miss Italia».  Il direttore emerito del reparto di Virologia dell’ospedale Cotugno di Napoli a sua volta ha controbattuto: «Su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca”. Tarro all’epoca dell’epidemia di colera ne isolò per primo il vibrione e per questo fu due volte candidato al Nobel. Nella polemica è intervenuto anche il deputato Gianfranco Rotondi che ha twittato: “Io non spalleggio né Tarro né altri. Riporto una tesi che alimenta speranza, punto. Dopodiché ricordo che Tarro da primario del Cotugno piegò il colera del 73, questi fin qui hanno fatto solo interviste”. Poteva mancare un politico nella inutile diatriba?

Uno spettacolo indecente. Recentemente papa Francesco ha pregato espressamente per scienziati e ricercatori: mi sembra che ne abbiano effettivamente bisogno. Ha però anche analizzato puntualmente quali sono i punti critici della comunità cristiana e, aggiungo io, di ogni comunità, anche di quella scientifica: i soldi, la vanità e il chiacchiericcio. La querelle di cui sopra è certamente specchio fedele di contrasti dovuti al secondo e terzo dei punti critici evidenziati dal papa.

Il Qoèlet, libro biblico in cui l’autore si propone di rispondere all’interrogativo sul senso della vita, col suo melanconico ritornello «Vanità delle vanità, tutto è vanità», designa ciò che è inutile, che non ha valore nel tempo, che sfocia in una sensazione di insoddisfazione. Non è la sua sentenza sulla vita in generale, ma solo sull’errato atteggiamento dell’uomo che considera il mondo come fine a se stesso e fa dei piaceri lo scopo unico della sua vita. Vale purtroppo anche per chi è in alte faccende affaccendato e si presumerebbe potesse avere un approccio più serio e profondo all’esistenza.

Prima ancora che il coronavirus diventasse realtà, gli scienziati hanno cominciato a blaterare: chi lo assimilava ad una semplice influenza, chi lo riteneva un grave pericolo, chi, soprattutto con l’andare del tempo, oscillava tra una tesi e l’altra. E siamo ancora lì. Mio padre rimarrebbe spiazzato, lui che amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè”. Il mondo è cambiato e anche gli scienziati si comportano come divi e si lasciano coinvolgere volentieri nel circo mediatico. Se i giornalisti e i conduttori televisivi la smettessero di andarli a intervistare inducendoli in tentazione e se loro la smettessero di azzardare opinioni in libertà, saremmo tutti contenti e ci potremmo illudere che questi smettessero o almeno cercassero di chiacchierare meno per ottenere qualche risultato in più.

A fronte di scienziati e ricercatori che parlano a ruota libera voglio sperare ce ne siano parecchi che lavorano nell’ombra con grande serietà, discrezione e impegno. A loro va il mio plauso ed a loro sono affidate le mie speranze. Sì, perché dopo Dio, chi ci può veramente aiutare a saltar fuori da questo gigantesco ginepraio sono gli uomini di scienza, purché non puntino direttamente o indirettamente ai soldi, al prestigio e a duellare fra di loro. Per favore aiutateci e lasciate perdere ciò che non ha valore nel tempo.