La tentata festa truffaldina a mamma rai

Ho letto con una certa curiosità della tentata truffa ai danni della Rai tramite un trappolone teso al suo presidente, che stava per cascarci dentro. Sinceramente non capisco la reazione scandalizzata verso Marcello Foa, reo di essere stato un po’ troppo ingenuo e facilone. Fortunatamente è andata bene nonostante la cosa fosse stata ben cucinata da autentici specialisti. Che il presidente Rai debba andare in Parlamento a riferire su questa vicenda mi sembra una richiesta eccessiva e strumentale. Forse si vuole ridicolizzarlo, facendolo passare per un pressapochista indegno di occupare quell’importante posto di comando. Certo non ci sta facendo una bella figura, ma non credo esistano gli estremi per incolparlo di grave ed omissivo comportamento.

Se la politica vuol fare le pulci alla Rai non ha che l’imbarazzo della scelta: un carrozzone pazzesco in cui si mescolano alte e basse professionalità, le nebbie clientelari si tagliano col coltello, gli sprechi sgorgano dal video, i condizionamenti sono la regola d’oro, etc. etc. È peraltro una storia molto vecchia, che nel tempo ha attraversato i governi e le istituzioni, impermeabile alle (finte) riforme succedutesi, caratterizzata da pantomime elettoralistiche, mescolata in senso deteriore alla storia del Paese di cui è specchio in senso deformante. A parlare male della Rai non si fa fatica e quindi non c’è bisogno di ricorrere allo scandalismo da quattro soldi per intentare un processo all’Ente e a chi lo governa e gestisce.

In estrema sintesi la Rai, quale servizio pubblico, si differenzia troppo poco dalle emittenti private concorrenti per quanto concerne l’impostazione e i contenuti dei suoi palinsesti, assomiglia molto ad esse confondendo la concorrenza con la piatta acquiescenza alle regole aziendali e di mercato. Esistono alcune eccellenze culturali e giornalistiche, che purtroppo non bastano a dissipare il grigiore in cui si dibatte la Rai.

Mi sono sempre chiesto perché questo ente sia così intoccabile, non a caso si parla di mamma Rai, a cui qualcuno in questi giorni evidentemente voleva fare una festa sui generis. Si è provato a sganciarlo dalle nomine politiche inserendo personaggi di grande spessore culturale e manageriale: la musica non è cambiata. Si è tentato di scollegarlo istituzionalmente dal governo per collocarlo sotto il controllo del Parlamento: non è cambiato nulla. Si è cercato di dargli un’impostazione manageriale neutra rispetto agli equilibrismi partitici: la politica è rientrata puntualmente dalla finestra dopo esser stata messa alla porta.

A volte ho concluso amaramente che la Rai dovesse pagare un prezzo alla politica pur di rimanere in ambito pubblico e quindi almeno parzialmente indenne dalle malattie del mercato. Il gioco però ha rivelato di non valere la candela, in quanto la politicizzazione ha condizionato e burocratizzato ulteriormente i difetti comunque esistenti nel tessuto Rai, costretto a fare i conti con un mercato epidemico, coinvolgente ed avvolgente.

Qualcuno intende la riforma della Rai nel senso della sua privatizzazione: sarebbe inutile cioè intestardirsi per combinare insieme i difetti del pubblico e del privato, meglio buttarsi nella padella del privato senza cadere nella brace del pubblico. Non sono d’accordo con questo pur rispettabile ragionamento: mi sembra molto l’atteggiamento della volpe nei confronti dell’uva.

I nodi (inestricabili) della Rai sono questi. Ben venga parlarne seriamente, senza partire col piede sbagliato, vale a dire senza sputtanare l’ultimo arrivato nel parterre di comando per il gusto di squalificare chi glielo ha messo. Certo Foa deve stare più attento, ben sapendo però che di profittatori dentro e fuori ce ne sono parecchi al di là delle gang delle mail truffaldine.

 

La pubblicità è l’anima dell’anti e del dopo virus

La pubblicità sarà l’anima del commercio, ma è anche la distruzione dell’anima delle persone. Si fa un gran parlare di pubblicità ingannevole, vale a dire quella che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”. Purtroppo la pubblicità è ingannevole per sua natura, può eventualmente solo essere arginata nella sua più negativa aggressività, ma, forse, meno ingannevole appare e più sostanzialmente è tale. Si tratta di un perverso meccanismo sistemico, che tutto metabolizza in chiave materialistica e consumistica. Attualmente sono in atto tre subdole, ma clamorose, manifestazioni di questo andamento: la pubblicità perbene, quella a fin di bene e quella contro il male.

La prima categoria comprende la valanga di messaggi, un battage a favore delle organizzazioni benefiche, quella del “chiama subito per salvare un bambino che sta morendo di fame o di malattia”, quella che mostra immagini toccanti delle miserie del mondo per farci credere di poterle risolvere con l’erogazione di una piccola tassa mensile.  Un modo sbrigativo per mettere a posto le coscienze e alimentare una fitta rete di enti il cui primo obiettivo è quello di esistere e di autofinanziarsi. Una sorta di carità ingannevole.

La seconda forma riguarda i mezzi di comunicazione di origine e carattere religiosi, tra cui spicca TV 2000, la televisione dei vescovi. Qui non ci si fa scrupolo di abbinare i messaggi promozionali a messe, eventi religiosi, omelie, rosari, preghiere varie. Il fine giustifica i mezzi: per finanziarsi e catturare l’audience a sfondo religioso ci si può (?) tranquillamente interrompere e “andare in pubblicità” tra un’intervista a un prete e una ad un vescovo oppure in testa e in coda ad un rosario. La messa, financo quella del papa, val bene una reclame.  In questi casi non si riesce a capire se i messaggi pubblicitari facciano da traino all’evento religioso o se la trasmissione religiosa funzioni come spinta allo spot propagandistico. Un orribile, stomachevole e simoniaco mix di sacro e profano.

La terza combinazione è relativa al coronavirus. Tutti ne parlano e quindi anche la pubblicità si è adattata e la battaglia antivirale è diventata parte integrante della reclamizzazione dei vari prodotti e servizi: della serie “consumate e vedrete che il virus se ne andrà”. Al demenziale slogan del “tutto andrà bene” si aggiunge la speculazione del “tutto fa brodo, anche il coronavirus”. E poi andiamo cianciando con un altro slogan: “niente sarà come prima”, mentre è in atto il tentativo di metabolizzare il virus a livello consumistico, depotenziandolo in chiave psicologica e affaristica. Il nostro sistema economico è una macchina “tritasassi” che non si ferma di fronte a niente: tutto diventa strumentale e funzionale al profitto. Sarebbe interessante scoprire quanto il bieco interesse economico (dalla produzione e commercializzazione delle mascherine ai laboratori per le analisi di tamponi e sierologiche, alla selezione dei settori da chiudere ed aprire operata più sulla base di spinte corporative che a difesa della salute pubblica) abbia condizionato e stia tuttora condizionando l’azione di contrasto all’epidemia.

Basta vedere come sta reagendo la gente alle pur timide riaperture previste a termini di legge (?): tutti al parco, tutti in strada, tutti fuori in una carnevalata fuori stagione, tana per tutti e il virus vada a quel paese (il nostro paese). La nostra società è questa. Passata la paura, gabbata la serietà. Aspetta… provo ad ascoltare la parola del papa, lui è l’unico che mi può aiutare a difendermi non tanto dal virus, ma dal virus dell’anti e del dopo virus. Niente da fare: c’è la pubblicità e allora…

 

 

Il nocivo barzellettiere trumpiano

È dura, ma bisogna cercare di tenersi su. Non con l’infantile, se non ridicolo, slogan “andrà tutto bene”, regolarmente smentito dalle giornaliere centinaia di morti, ma seguendo le farneticazioni quotidiane di Donald Trump. Dopo la fase sovranista del ripiegamento degli Usa in casa propria, dopo la fase populista del “faso tuto mi”, complice il coronavirus siamo arrivati alle barzellette, alle quali, probabilmente, gli americani, reagiscono come avviene generalmente negli uffici quando le barzellette sono raccontate dal capo e tutti ipocritamente ridono per non piangere. Con una differenza sostanziale: mentre negli ambienti di lavoro il capo è imposto dall’alto e quindi bisogna sopportarlo obtorto collo, negli Stati Uniti il capo se lo sono scelto democraticamente (?) e magari si apprestano a confermarlo alla Casa Bianca.

La barzelletta, per definizione, è una storiella spiritosa che si racconta per provocare il riso o si pubblica a scopo umoristico su giornali o riviste. Può essere spinta, grassa, piccante, etc. etc. La barzelletta, quando è collocata in un contesto drammatico o addirittura tragico, diventa macabra e sconvolgente. Bisogna poi saperla raccontare con grande spontaneità, scegliendo il momento giusto, senza enfasi aggiunta, quasi con nonchalance, buttandola lì per vedere l’effetto che fa. Personalmente ne sopporto una, al massimo due, poi mi defilo. Purtroppo invece, quando si è in compagnia tutti si scatenano e ne scaturisce una deriva insopportabile e interminabile.

A proposito di barzellette ricordo un caro e simpatico collega: le raccontava così bene, che facevano ridere a prescindere dal loro contenuto. Una volta sbagliò addirittura il finale e, invece di un flop, ottenne un successo ancor maggiore in termini di risate fragorose degli ascoltatori.  E le barzellette di Trump? Sembrano tali, ma purtroppo sono tristi e penose esternazioni pseudo-politiche. Ogni giorno trova il modo di scaricare la colpa del coronavirus su qualcuno: dai cinesi e le loro manovre di regime siamo arrivati alla sbadataggine degli italiani nei controlli sui voli aerei. Tutti colpevoli, meno Trump! E gli americani? Staremo a vedere fra qualche mese, ma tutto purtroppo lascia intendere che ci credano. D’altra parte è lo schema comportamentale tipico dei populisti: trovare sempre un nemico su cui scaricare la responsabilità delle proprie disgrazie. Se non esiste, lo si crea.

Il discorso con la Cina assume a volte i toni di una vera guerra fredda: dai dazi al coronavirus, tutto sommato, fa gioco ad entrambi essere costantemente ai ferri corti. Per fortuna in questa ostilità preconcetta e strumentale verso i cinesi gli altri stati non si lasciano coinvolgere più di tanto e quindi il contrasto rimane come una sorta di spettacolo sul palcoscenico internazionale a cui il resto del mondo assiste con una certa cautela se non addirittura con noncuranza.

Quando è scoppiata la pandemia, mi sono detto che forse Donald Trump aveva finito di bluffare perché era arrivato chi ne scopriva i giochi. Invece niente di tutto ciò. È passato dal negare l’evidenza alla chiusura del sistema, dal bieco e liberistico “si salvi chi può” agli aiuti sparsi a piene mani, dalla cautela per la crescente ondata di decessi alla riapertura socio-economica a tutti i costi, dalle gag pseudo-scientifiche alle scommesse più o meno corrette sulla sperimentazione di terapie e vaccini, dall’egoistico “fai da te” a qualche strizzata d’occhi agli alleati europei, Italia compresa. È arrivata la pelosa promessa di aiuti al nostro Paese per contrastare il fantomatico piano Russia-Cina di conquistare l’Italia. Poi sul più bello la Camera dei deputati americani punta il dito contro l’Italia. Ci accusa di non aver fatto, o non aver fatto bene, i controlli che avevamo promesso sui passeggeri in partenza verso gli Usa, quando all’inizio di marzo l’epidemia di coronavirus stava esplodendo. Così ci mette in imbarazzo davanti al mondo, ci rimprovera di aver contribuito a diffondere la malattia in America, e rischia di provocare il risentimento del presidente Trump.

Il governo italiano ha tenuto un atteggiamento quasi da paese non allineato: in questo non so dare tutti i torti a Giuseppe Conte, costretto a prendere atto di una inaffidabilità americana ed europea e quindi portato a sgattaiolare in qualche modo alla ricerca di aiuti e sostegni a tutto campo.  Tattica molto pericolosa, ma d’altra parte forse imposta dalle alleanze storiche sempre più scricchiolanti e dalla debolezza italiana nel verificarle e sperimentarle concretamente. In un momento storico così drammaticamente compilato ci sarebbe bisogno di un quadro internazionale improntato alla serietà, alla coerenza e alla collaborazione. Invece, tutto il male vien per nuocere…

 

 

Le ombre nel governo

Dalla regolarizzazione dei migranti impiegati nei campi dipende “anche la mia permanenza nel governo”. Lo ha detto il ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, ai microfoni di “Radio Anch’io”, su Radio Rai1 Rai. “Per me questa non è una battaglia strumentale, queste persone non votano. In questo paese anche, in questa fase di crisi, tanti guardano al consenso, a fare misure per dire ‘ti ho dato, votatami’. Noi stiamo facendo una battaglia per quelli che non voteranno o che almeno non voteranno nei prossimi anni”, ha dichiarato. “Se la misura non passa questo, per me, è motivo anche di permanenza nel governo. Non sono qui per fare tappezzeria, ha continuato il ministro. Ci sono delle questioni che non si sono volute affrontare o che sono state affrontate in maniera sbagliata”, ha concluso.

“Tra le persone – ha spiegato Bellanova – c’è diffidenza perché per anni si è fatta passare l’idea che i diversi sono i nemici e che gli immigrati vengono qui a toglierci il lavoro. Sono invece fondamentali per portare avanti alcune attività’, non solo in agricoltura dove rischiamo sperperi enormi per la mancata raccolta, ma anche le badanti che assistono tante persone anziane”. “Puntiamo – ha proseguito la ministra – a concedere un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei, per le aziende e le famiglie che vogliono regolarizzare. Ci sarà anche un contributo per lo Stato, anche se non bisogna esagerare: si tratta di persone sfruttate per 3 euro l’ora facendo concorrenza sleale alle imprese che rispettano le regole”. Bellanova non si è espressa sulle stime che parlano di 600mila persone interessate da un provvedimento di emersione dal lavoro nero. “Non sono in grado di dirlo, si tratta di chi può avere un contratto. Partiamo dai lavoratori nei campi, altrimenti qualcuno si dovrà assumere la responsabilità di far marcire i prodotti nei campi, e dalle badanti”, ha osservato.

Battaglia sacrosanta! Ma perché farne oggetto di un (quasi) ricatto politico al premier? Dopo la Bonetti con le risorse alla famiglia arriva la Bellanova con gli immigrati: scelgono tribune mediatiche per esporre drasticamente le loro proposte e mettere all’angolo il governo lasciando, più o meno, intendere di essere con un piede dentro e uno fuori della compagine ministeriale. Mentre la ministra per la famiglia e le pari opportunità sembra rincorrere, in nome e per conto del M5S, il consenso elettorale, quella dell’agricoltura sembra tirare la volata agli ultimatum di Renzi.

Nel governo, sulla regolarizzazione degli immigrati come su molte altre questioni, non sembra esserci accordo, anche se il presidente Conte apre la finestra mentre altri chiudono la porta. I contrasti nella maggioranza di governo sono deleteri come non mai e portano acqua al mulino della destra, alla quale non par vero di ripiegare sulla solfa della durezza contro gli immigrati.

Quella regolarizzazione di massa dei clandestini non può e non deve passare. Inaccettabile. La Bellanova parla addirittura di 600mila immigrati, la scusa è trovata, la scorciatoia che la sinistra ha sempre cercato di percorrere. Giorgia Meloni non ci sta. E a “Fuori dal coro” su Rete4 replica in modo duro. «Sanatoria per i migranti irregolari? Su una cosa del genere siamo pronti a fare le barricate. Sarebbe una assoluta e totale follia». E sulla pagina fb: «Mentre migliaia di italiani e imprese ancora attendono i soldi promessi per andare avanti, la sinistra al governo continua ad avere come priorità una sanatoria per centinaia di migliaia di irregolari. Dobbiamo fermarli, subito».

A prescindere dal merito della questione, vale a dire dalla necessità di regolarizzare finalmente chi lavora in nero e viene “regolarmente” sfruttato e sottopagato, sulla quale esprimo il mio parere più che favorevole, faccio due riflessioni politiche. Una, chiedo scusa se mi ripeto, riguarda lo stile con cui si dovrebbe stare dentro un governo, senza rinunciare alle proprie specificità, ma anche senza pretese e ricatti continui, come se in politica, per ottenere qualche risultato, bisognasse usare l’arma del ricatto. Si dialoga, anche aspramente, ci si può scontrare nelle sedi proprie, poi si cerca il compromesso ai livelli più alti.

Questo peraltro dovrebbe essere il ruolo che al presidente del Consiglio assegna la Costituzione: dirigere la politica generale del governo, mantenerne l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovere e coordinare l’attività dei ministri. Ed eccomi alla seconda riflessione critica: Giuseppe Conte, subissato dai problemi dell’emergenza, sembra più proiettato a curare la propria immagine e a perseguire i propri obiettivi, che non a mediare positivamente fra le diverse posizioni esistenti. Aldo Moro, dall’alto della sua autorevolezza, si poteva permettere di tenere nel cassetto le dimissioni dei ministri, lasciandoli sfogare per poi recuperare da par suo le situazioni. Conte non ha questo carisma e quindi dovrebbe rassegnarsi ad un continuo e pressante lavoro di cucitura e ricucitura di cui si nota la mancanza. Tutti i giorni ce n’è una fresca. Non so fino a quando il governo potrà andare avanti confidando magari nella mancanza di alternative in un momento come questo.

 

I bar di benpensanti e malpancisti sono sempre aperti

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sta studiando una norma che consenta ai magistrati di sorveglianza di rivalutare le scarcerazioni già disposte di boss della criminalità organizzata alla luce del mutato quadro dell’emergenza Coronavirus. Lo si apprende in ambienti di via Arenula. Gran parte delle scarcerazioni sono state disposte per gravi patologie, ma molte ordinanze fanno esplicito riferimento all’emergenza da Covid-19.

“Il ministro Bonafede rimanderà in carcere tutti i boss scarcerati? È un quadro che il ministro della Giustizia sta approfondendo, probabilmente laddove ci sono aperture mi sembra un’ottima soluzione potere individuare spiragli in cui almeno i più pericolosi possano rientrare in carcere”, ha detto il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho commentando l’annuncio del Guardasigilli di “fare tornare in carcere i boss detenuti scarcerati”. A questo illustre magistrato va tutto il mio rispetto anche perché non combatte contro i ladri di polli, ma contro una delinquenza che non fa sconti a nessuno. Però mi permetto di pensare che la guerra alla mafia si faccia con le indagini, con i processi, con le condanne dei colpevoli, finanche con la carcerazione dura, ma non con l’accanimento e la spietatezza a livello di trattamento dei carcerati in gravi difficoltà di salute o addirittura in pericolo di vita.

Tra coloro che hanno usufruito degli arresti c’è uno dei carcerieri del bimbo sciolto nell’acido: l’uomo, che tenne segregato il figlio del pentito Santino Di Matteo nell’estate del 1994, è anziano e malato ed è tornato nella sua casa di Geraci Siculo per il pericolo che potesse contrarre in carcere il Coronavirus. Questo in applicazione delle norme tendenti a ridurre il numero delle persone detenute nell’attuale periodo di emergenza.

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, lo diceva Voltaire nel 1700. È passato un po’ di tempo, ma non ce ne siamo ancora convinti: ogni occasione è buona per trasformare la carcerazione in subdola pena di morte. La dice lunga al riguardo la condizione carceraria in generale, addentrandosi nella quale c’è di che inorridire. Non è parso vero quindi ai benpensanti di scandalizzarsi perché alcuni condannati per reati mafiosi sono stati messi agli arresti domiciliari a causa del coronavirus, che, come è facile intuire, nell’ambiente carcerario trova le condizioni ideali di contagio, di malattia e di morte.

Ci ha lasciato le penne il capo dipartimento delle carceri in odore di leggerezza nel concedere il beneficio anche a boss mafiosi: o era un incompetente ed un superficiale oppure ha agito in base a norme, disposizioni e regole riguardanti la salute pubblica, anche quella dei detenuti. Il ministro, peraltro trascinato in una devastante polemica scatenatasi a latere, vuole addirittura proporre una norma in base alla quale si possa tornare a riesaminare i casi: si tratta di populismo bello e buono di stampo ultra-giustizialista (i grillini sono capaci anche di questo).

Suscita scalpore il fatto che la salute di una persona responsabile di un orrendo delitto possa essere difesa e salvaguardata nei limiti del possibile. Posso capire la reazione psicologica della gente. Il ragionamento è questo: forse lo Stato non sta facendo il massimo per difendere la salute dei cittadini onesti e si preoccupa di salvare la vita a un mafioso condannato all’ergastolo per un orrendo delitto. Il discorso è mal posto e mal affrontato. Non esiste fortunatamente nel nostro ordinamento una norma che misconosca il diritto fondamentale alla vita per una persona colpevole e condannata: la pena non prevede un simile supplemento anche in caso di coronavirus. Quindi stiamo chiacchierando di niente. Il ministro, da par suo, sta aggiungendo confusione a confusione, tentando disperatamente di recuperare la faccia, persa da tempo per incapacità a gestire un settore importante e delicato come quello della giustizia.

Non affronto la questione etico-giuridica sulla natura della pena, da cui peraltro dovrebbe muovere ogni discorso serio in materia di carcerazione. Mi limito a brevissime considerazioni politiche: lascio a Matteo Salvini e Giorgia Meloni l’opportunità di cavalcare vergognosamente simili polemiche, ma da un ministro mi attenderei un atteggiamento più serio, obiettivo, responsabile ed istituzionale. Il ministro della giustizia deve rispondere ai mal di pancia dei bar (peraltro chiusi in questo periodo, ma apertissimi alle strumentalizzazioni destrorse) all’affannosa ricerca del consenso purchessia, oppure deve governare con la costituzione, la legge e i regolamenti alla mano e in collaborazione con i funzionari pubblici investiti delle cariche per l’amministrazione della giustizia? Domanda retorica fino ad un certo punto.

 

Una ministra a ruota libera

“Le risorse che saranno stanziate dal prossimo decreto le ritengo del tutto insufficienti per rispondere alle reali esigenze delle famiglie. La mia richiesta non è stata accolta, non sono stati stanziati sufficienti soldi”. Lo ha detto il ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti su Tgcom.24 ai microfoni di Paolo Liguori durante ‘Fatti e Misfatti’.

“Avevo proposto un assegno per ogni figlio che non è stato accolto dalla maggioranza” ha ricordato la ministra Bonetti. “Avevo chiesto – ha sottolineato – risorse adeguate per i congedi parentali e i voucher baby-sitter da estendere però per un maggior utilizzo per i servizi educativi.  Credo sia un errore, in questo momento le famiglie italiane necessitano davvero di investimenti. Da esponente del Governo devo accettare fatiche e battaglie perse, anche se giuste”. La ministra ha poi spiegato: “Ci saranno delle risorse, non tante, per costruire una rete di servizi educativi, cioè attività come i centri estivi in aiuto per le famiglie e sono convinta che queste risorse sapranno attivare quella comunità educante che non è presente solo nella scuola ma anche fuori e che comprende il terzo settore, le comunità locali, il volontariato, il mondo dello sport. Non lasceremo sole le famiglie”.

Non entro nel merito della congruità degli stanziamenti governativi a favore delle famiglie in gravi difficoltà a causa della pandemia che ci sta torturando. Prendo solo in considerazione l’atteggiamento politico-istituzionale di questa gentile ministra. Sono oltre cinquant’anni che seguo, dal di dentro e dal di fuori, la politica e quindi non mi scandalizzo certamente di contrasti all’interno del governo su materie complicate e delicate come il contrasto socio-economico al coronavirus.

Però mi sento di valutare negativamente l’atteggiamento della ministra sul piano del metodo e dell’opportunità. Dal punto di vista procedurale, mai come in questo momento, sarebbe necessario osservare i percorsi corretti, che non si possono individuare in dichiarazioni mediatiche rese in libertà. Il ministro faccia la sua battaglia all’interno del governo, parli col presidente del Consiglio, alzi la voce a palazzo Chigi, minacci le dimissioni, sbatta i pugni sul tavolo, ma non la butti sul piano pubblico. Questa non è trasparenza, è autentico casino.

In secondo luogo la posizione di Elena Bonetti sa molto di timbratura del cartellino: mera difesa della causa famigliare senza considerare le compatibilità e le risorse a disposizione. Se ogni ministro si mette a perorare pubblicamente la causa del suo retroterra alla stregua di un sindacalista, non se ne esce. I ministri non devono essere meri raccoglitori e rappresentanti di istanze, ma si dovrebbero sforzare di elaborare risposte agibili a tali domande. Altrimenti, piano-piano, mandiamo in crisi il governo, già sufficientemente debole a livello parlamentare per i noti contrasti fra partiti; se ci aggiungiamo anche contrasti fra ministri e col capo del governo, completiamo il penoso quadro che già abbiamo davanti.

Ricordo ai tempi della cosiddetta “prima repubblica” come si venissero a creare dure contrapposizioni a livello governativo, ma si trattava di questioni di linea politica, se si vuole ancora più gravi, ma sicuramente più serie. I dilettanti allo sbaraglio emergono prepotentemente e nemmeno il coronavirus ha il potere di dare una regolata a chi la politica non sa neanche dove stia di casa. Può darsi che alla fine Elena Bonetti riesca a strappare qualche ricorsa in più per la famiglia, ma a prezzo di sacrificare ulteriormente la credibilità dell’intero governo.

L’occasione fa la giustizia debole

Di Matteo contro Bonafede. L’ex pm antimafia di Palermo ora al Csm contro il ministro della Giustizia. Non in una sede istituzionale. Ma in una trasmissione televisiva. Poco prima di mezzanotte a Non è l’arena di Massimo Giletti. Tema: il posto di capo del Dipartimento delle carceri. Questo incarico è tornato d’attualità dopo le dimissioni di Francesco Basentini a motivo delle polemiche sulle scarcerazioni dei boss mafiosi per l’emergenza coronavirus e la successiva nomina a questa funzione del già procuratore generale di Reggio Calabria, Dino Petralia da parte del ministro della Giustizia competente in materia. Una faccenda piuttosto delicata e obiettivamente poco chiara a cui si è aggiunta una polemica devastante innescata da un altro importante giudice, che in merito ha rivangato una precedente vicenda.

In sintesi: Nino Di Matteo, ex pm antimafia di Palermo e ora membro del Consiglio Superiore della Magistratura, accusa il ministro Alfonso Bonafede di avergli prima proposto, nel 2018, quindi nel governo Lega-M5S, di fare il capo delle carceri. Ma dopo due giorni avrebbe fatto marcia indietro. La voce corre. La polizia penitenziaria registra la reazione di importanti boss che tra di loro in cella dicono “se arriva questo abbiamo chiuso”, “faremo ammuina”. Le telefonate diventano pubbliche con un articolo del Fatto quotidiano.

Di Matteo afferma adesso di essere tornato da Bonafede per accettare il posto al Dap, ma a quel punto il Guardasigilli gli avrebbe detto di aver scelto Francesco Basentini, mentre per lui era disponibile la poltrona di direttore degli Affari penali. Dopo la telefonata di Di Matteo ecco quella di Bonafede che si dichiara “esterrefatto” e propone una versione del tutto opposta nella ricostruzione della proposta e dei tempi. Avrebbe ipotizzato subito con Di Matteo le due soluzioni, la direzione del Dap o quella degli Affari penali, dicendogli però di preferire la seconda strada, perché quello era il posto che fu di Giovanni Falcone ed era più importante nella lotta contro la mafia.

Dopo neppure dieci minuti, da poco passata la mezzanotte, ecco la prima reazione, quella dell’ex magistrato Cosimo Maria Ferri, adesso deputato renziano, ma anche ex sottosegretario alla Giustizia, che dice “ma dov’è finita la sua trasparenza? perché Bonafede non lo ha mai raccontato? ora venga in Parlamento a dire cosa è successo”. A ruota si preannuncia la tempesta leghista con l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone che già parla di aprire il caso in Parlamento. È scoppiato un autentico pandemonio politico.

Evidentemente il giudice Di Matteo ha colto l’occasione per togliersi un grosso sasso dalla scarpa, gettando un sinistro lampo di luce sul ministro Bonafede, accusato indirettamente di essere stato, come minimo, poco coraggioso, di fronte alle reazioni mafiose.  Il ministro messo tardivamente, improvvisamente e sbrigativamente sotto accusa, si difende con un certo e peraltro comprensibile imbarazzo istituzionale, procedurale e personale. Una cosa è sicura: non si gestiscono così i rapporti tra politica e magistratura. Se il giudice Nino Di Matteo aveva da eccepire cose così gravi, lo doveva fare nei tempi dovuti e con modalità ben diverse: non con dichiarazioni sparate alla viva il Parroco ed a distanza di tempo. Non è ammesso agire con tale pressapochismo da cortile.

Il ministro chiarisca per filo e per segno il suo comportamento senza timore di andare davanti al Parlamento per difendere la propria immagine e il proprio operato; il Consiglio Superiore della Magistratura esamini il caso e prenda le opportune posizioni e gli eventuali opportuni provvedimenti. In piena bagarre coronavirus non ci voleva anche questa grana, su cui si stanno buttando scriteriatamente un po’ tutti.

Troppo protagonismo della magistratura, come si sta verificando da tanto tempo, non fa bene alla giustizia: un conto è il coraggio della propria azione, un conto sono gli esibizionismi inutili e rischiosi. Il rapporto con la politica è estremamente difficile e delicato, ma proprio per questo non va impostato con velenosi attacchi al di fuori dei percorsi istituzionali e, forse, persino strumentalizzando le inchieste. La politica, dal canto suo, deve essere più chiara, trasparente e competente al di fuori della stucchevole contrapposizione fra garantismo e giustizialismo; deve smetterla di blandire o attaccare i giudici ed assumersi interamente le proprie responsabilità.  Ognuno faccia il proprio mestiere e, se esistono contrasti, si portino e si risolvano di fronte agli organi competenti e non nelle trasmissioni televisive.

Il coronavirus non finisce mai di stupire: sta mettendo a nudo tutta la criticità del nostro sistema, non si fa mancare niente, va a toccare persino i rapporti tra politica e magistratura. Non vorrei che alle migliaia di morti senza dignitose esequie si aggiungesse il funerale alla giustizia ed alle sue istituzioni. Sarebbe l’ennesimo e gravissimo guaio. Facciano tutti un passo indietro, entrino in un doveroso lock down in attesa che chi di dovere faccia chiarezza, la qual osa non vuol dire mettere un politico confusionario alla gogna o santificare subito una toga comunque troppo loquace.

L’Italia una e trina

I dati dell’Istat certificano la realtà di un Paese segnato molto diversamente dal passaggio del Covid 19: in 36 province il dato è raddoppiato e mentre al Nord i numeri sono tragici, in 34 province del Centro-Sud la mortalità è calata in media dell’1,8%.

In diverse aree d’Italia, quelle meno colpite dal virus (in larga prevalenza al Centrosud) nel marzo 2020 si registrano addirittura meno morti rispetto alla media degli anni scorsi: nel complesso, si legge nel report Istat/Iss sull’impatto del Covid-19 sulla mortalità, nelle aree a bassa diffusione (1.817 comuni, 34 province per lo più del Centro e del Mezzogiorno) i decessi del mese di marzo 2020 sono mediamente inferiori dell’1,8% alla media del quinquennio precedente. A spiccare è il dato di Roma, che a marzo fa segnare un -9,4% rispetto alla mortalità media degli ultimi 5 anni: 3.757 morti quest’anno, 4.121 in media. Giù anche Napoli, che registra un -0,9% di mortalità.

Per “leggere correttamente” i dati sui decessi dopo il coronavirus – secondo l’Istat – bisognerebbe parlare di “tre Italie”. “La diffusione geografica dell’epidemia di Covid-19 è eterogenea”, si legge nel report. “Nelle Regioni del Sud e nelle isole, la diffusione delle infezioni è stata molto contenuta, in quelle del Centro, è stata mediamente più elevata rispetto al Mezzogiorno mentre in quelle del Nord la circolazione del virus è stata molto elevata. Secondo il rapporto Istat a cui sto facendo riferimento, a marzo la mortalità è aumentata del 49,4%, ma il virus lascia un’Italia spaccata: Bergamo +568%, Roma -9,4%.

Chi vuole può sbizzarrirsi con i dati esposti anche in modo più articolato e interessante. La statistica non mi ha mai interessato più di tanto, ma con essa bisogna pur farci i conti. Emerge una netta spaccatura in tre Italie. Non è una novità, ma è piuttosto inquietante vederne il collegamento con l’epidemia per farsi una domanda: perché dove la società è più avanzata, più strutturata, più evoluta e, in fin dei conti, più ricca, una tremenda malattia attecchisce molto di più? D’acchito e da tempo mi sono dato una banale risposta: dove la società è più viva esiste una maggiore quantità di rapporti e quindi una maggiore possibilità di infezione e contagio. Risposta esauriente e convincente? Fino a mezzogiorno.

Se il benessere impostato e perseguito “alla lombarda”, ma si potrebbe dire anche all’emiliana, paga prezzi così alti di fronte a certe emergenze, probabilmente c’è qualcosa che tocca. Non voglio ideologizzare e, tanto meno, politicizzare il discorso, ma davanti a questi dati inquietanti occorrerà farsi qualche ulteriore domanda e abbozzare qualche grezza risposta, tutta da approfondire. Stiamo perseguendo un obiettivo di società molto contraddittorio: il progresso economico che abbatte le difese immunitarie verso i disastri sanitari ed ecologici. Al centro del nostro progresso non ci sono l’uomo e la natura, ma i soldi e il godimento. Non sappiamo difenderci né prima, né durante né dopo le emergenze. Alle spaccature territoriali, si aggiungono quelle sociali e finanche quelle generazionali.

Non sono né un pauperista, né un cretino ecologico, né un ambientalista della domenica, né un menagramo della salute pubblica. Non sono però nemmeno uno che pensa alla nostra società come la migliore possibile e immaginabile. Se il discorso, per dirla con Churchill, può essere applicato al sistema democratico, non mi sentirei di allargarlo acriticamente a quello capitalistico. È curioso che il coronavirus abbia attecchito nelle due società agli estremi (che si toccano) della concezione socio-economica e soprattutto politica, la Cina e gli Usa. Trump si difende alla sua maniera con la dietrologia anti-comunista. I cinesi si sono difesi con la gestione autoritaria dell’emergenza. E l’Italia è coinvolta alla grande.  Perché così tanto e in modo così scombinato? Proviamo a pensarci sopra.

 

Un po’ di provocazione fa male, ma può servire

Se non erro, siamo a cinque e non è escluso che, nel giro di qualche giorno, si arrivi a sei. Mi riferisco ai modelli di autodichiarazione per gli spostamenti consentiti in tempo di coronavirus. È solo la punta dell’iceberg della confusa azione di contenimento della pandemia. Ammetto di voler fare di seguito una solenne e “sconclusionata”  provocazione, estremizzando i discorsi per far emergere qualche verità o meglio per portare a galla cose che in molti pensano e nessuno osa ammettere.

Confesso di non credere nella fattibilità e nella ammissibilità di una riapertura graduale: i dati epidemiologici, per farla breve, non la consentono. Il giorno 02 maggio si sono registrati 474 decessi, di cui 192 della giornata e 282 di aprile, il giorno successivo i decessi si sono portati a 177. I dati lasciano parecchi dubbi. A pensare male si fa peccato e spero sinceramente di non azzeccarci. Siamo al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che non serve comunque a giudicare realmente e seriamente una situazione disastrosa.

I provvedimenti in questa delicatissima materia funzionano se sono drastici e generali, diversamente si crea una confusione pazzesca in cui tutto rischia di essere consentito.  Mi auguro di sbagliare, ma nei prossimi giorni potremmo avere ripercussioni piuttosto gravi e spiacevoli. Non si può trovare un compromesso onorevole tra difesa della salute e difesa del sistema economico: siamo ancora in piena epidemia e occorre privilegiare l’incolumità dei cittadini. Il discorso economico al momento dovrebbe essere affrontato con poderosi aiuti finanziari ai soggetti più colpiti, più deboli e meno protetti. E le risorse? Bisogna trovarle e anche alla svelta! Tutte le possibili fonti vanno attivate: l’emergenza si affronta con misure emergenziali e non con mezze misure emergenziali. Dobbiamo entrare nella mentalità di essere già tutti più poveri e di contribuire a salvaguardare la salute di tutti.

Nel frattempo si arrivi ad una sorta di screening di massa, con semplici analisi fatte a tutti e possibilmente aggiornate a ragionevoli intervalli: non sono stati fatti i tamponi nemmeno a tutti coloro che hanno smaltito la malattia a domicilio. Non si scappa, per tenere sotto controllo la situazione bisogna controllarla e non fare chiacchiere informatiche.

In più di due mesi, da quanto mi è dato intuire, non si è fatta significativa disinfestazione del suolo e dei luoghi pubblici (forse era utile: non credo che in Cina lo facessero solo per fare scena). Siamo arrivati alle mascherine per tutti (?) con enorme e incredibile ritardo. I casi sono due: o ci rassegniamo ad una lunga ulteriore quarantena con enormi sacrifici o scegliamo di rischiare tutto sull’altare dell’economia per paura di impoverirci.  Tenere i piedi in un due paia di scarpe non è possibile, se non sperando nei miracoli (perché no…) o in terapie e vaccini a brevissimo termine (cosa impossibile, se non rientrante nella categoria dei miracoli…).

Il discorso dell’impoverimento generale è inevitabile e quindi meglio affrontarlo e gestirlo di petto che subirlo dopo manovre dilatorie e illusorie. Se mi si deve tagliare la pensione, lo si faccia subito e almeno potrà servire a qualcosa, meglio che arrivarci a babbo morto, a frittata fatta. Questi sono i discorsi per gli italiani: non quelli arzigogolati dei governanti, non quelli demenziali e strumentali delle opposizioni, non quelli (im)possibilisti delle regioni in vena di protagonismo d’accatto. Sono stanco di girare intorno al problema, di sentire proposte che valgono poco più di un baffo, di assistere ad assurde bagarre politiche ed istituzionali, di essere coinvolto in un dibattito che lascia i morti che trova, anzi rischia di aumentarli. Forse la verità nuda e cruda non è stata mai detta durante questi mesi, in modo più o meno abile e sofisticato stiamo continuando a vivere di balle politicamente (s)corrette, che stanno in poco posto. Il posto-letto carente negli ospedali e il posto-lavoro in bilico nelle fabbriche.

La classe degli asini

Non intendo fare dell’ideologismo regionale, ma qualche considerazione, su come certe regioni si stanno atteggiando e comportando di fronte all’emergenza coronavirus, viene spontanea. È quanto meno singolare che gli amministratori pubblici delle regioni più colpite pretendano di svolgere un ruolo da primi della classe e di dettare tempi e modi dell’uscita dal lock down. Prima hanno fatto il diavolo a quattro per chiudere tutto, adesso spingono per aprire in fretta e furia: denominatore comune di queste posizioni contraddittorie è dare l’idea di essere i più bravi, i decisionisti, gli aperturisti, i capaci, soprattutto migliori del governo centrale, un covo di imbranati, tentennanti, burocratici e inadeguati. Sempre in prima fila a contendersi la scena con l’atteggiamento dei saputelli.

Mi riferisco a Lombardia e Veneto. Non mi avventuro in analisi socio-politiche alla ricerca dei motivi per cui il virus abbia attecchito di più in queste zone e sia tutt’ora più attivo. Non accetto però nemmeno di essere frastornato dalla lezione continua e fasulla dei governatori di queste regioni: si facessero un bell’esame di coscienza e la smettessero di sputare ricette facili. Molte cose non hanno funzionato e non stanno funzionando e quindi penso sia ora di smetterla con questo autonomismo del cavolo, riconducibile, stringi-stringi, alla strategia della Lega, tendente ad accreditarsi come buon governo regionale capace di fare il salto o di dare l’assalto al governo centrale.

È pur vero che l’unico volto spendibile dalla Lega, al di là della demagogia spicciola, è quello di un certo radicamento territoriale e di una classe dirigente periferica con un minimo di esperienza e credibilità. Da qui a rappresentare un ipotetico salto di qualità nella gestione della cosa pubblica la distanza è notevole. Il coronavirus è vissuto quindi come esame di ammissione governativa e quindi bisogna meritare, bene o male, i voti che consentano di spiccare il volo. Il gioco è scoperto e insopportabile. All’inizio mi ero illuso che questo bagno di protagonismo fine a se stesso potesse esserci risparmiato: troppo grande la prova per essere affrontata con questa logica politicistica. Invece, strada facendo, siamo caduti nella più bieca delle gare al regionalismo nordista bello e buono da contrapporre al centralismo brutto e cattivo.

Gli errori, i limiti, i difetti dell’attuale compagine governativa emergono con tutta evidenza da questa inedita e gravissima esperienza, ma ne trovo forse di più numerosi e gravi a livello regionale. Ognuno si guardi in casa propria. Staremo a vedere il casino che salterà fuori dalla fase due: Veneto spalancato, Lombardia aperta, Piemonte aperto ma non troppo, Emilia socchiusa, il resto d’Italia che sta a guardare. E la gente indecisa tra il garantismo sanitario e l’aperturismo economico.

Non mi sono mai piaciuti i primi della classe: a stento li sopportavo se davano una mano e lasciavano copiare i compiti. Figurarsi se mi piacciono quelli che si danno arie da primi della classe senza esserlo e magari pretendono di metter dietro la lavagna i poveri diavoli che cercano di arrabattarsi con scarsi risultati. Al maestro con scarsa personalità si possono fare tranquillamente le boccacce, salvo bollarlo come autoritario se osa dare qualche voto sul registro; se poi arriva un maestro severo bisogna dargli addosso e puntare ad un supplente. Se il supplente non c’è o non accetta l’incarico, tanto meglio per continuare a prendere in giro tutti. Evviva la scuola di governo!