Le malcelate e parallele velleità senili di Berlusconi e Prodi

Pensavo di avere esagerato, qualche giorno fa, con la fantapolitica, avendo ipotizzato, seppure quasi per scherzo, un accordo di governo fra D’Alema e Berlusconi. Secondo Pirandello, la realtà supera di gran lunga la fantasia, perché “la realtà, a differenza della fantasia, non si preoccupa di essere verosimile perché è vera”. Ma a volte il confine tra finzione e mondo reale sembra difficile da stabilire. E questa volta quella che pensavo essere solo una “ipotesi pazzesca” ad occhi chiusi e denti stretti si è trasformata in una prospettiva semiseria ad occhi aperti e lingue in movimento.

È bastato che il cavaliere lasciasse trapelare qualche assunzione di responsabilità istituzionale sul Mes e sui rapporti con l’Europa e che il professore togliesse la pietra dello scandalo da una maggioranza di solidarietà nazionale di stampo europeista tra i popolari di Berlusconi e i socialisti di Zingaretti per scatenare un dibattito alquanto superficiale ma altrettanto vivace.

Che Berlusconi abbia una voglia matta di tornare in gioco liberamente, sganciandosi dall’oppressione salviniana, è noto a tutti e da parecchio tempo: difficile capire se si tratti di saggezza senile, di opportunismo aziendale, di ambizione finale. Fatto sta che muore dalla voglia di tornare in pista almeno come senatore a vita: sarebbe una fine ingloriosa, non per lui, ma per chi ha creduto in lui e per chi lo ha combattuto da sempre.

Che a Romano Prodi stiano stretti i panni del notabile di centro-sinistra e/o di conferenziere in giro per il mondo è comprensibilissimo e infatti qualcuno sta addirittura pensando ad una surrettizia sua ricandidatura al Colle più alto, in riparazione di una sconfitta bruciante la cui ferita non si è per niente cicatrizzata. Lo snodo della futura elezione del Presidente della Repubblica è senza dubbio un punto cruciale nelle tattiche politiche di tutti i partiti e movimenti. Non capisco se Prodi abbia veramente qualche residua velleità in proposito o si stia divertendo a scompaginare i piani di qualcuno a destra e a sinistra.

Sì, perché questi due personaggi così diversi hanno attualmente un dato in comune: quello di rompere i coglioni nei loro schieramenti di appartenenza e di scompigliare i giochini in atto. A destra Salvini mastica amaramente le velleità berlusconiane; nel centro-sinistra l’improvvisa apertura dell’ombrellone prodiano rischia di mettere in ombra Giuseppe Conte, di spiazzare sempre più il M5S, di intristire il PD, che non brinderebbe certo al ritorno dello zio d’America.

Tutti fanno finta di gradire, ma in realtà a tutti brucerebbe alquanto il sedere.  Provo ancora ad esercitarmi con la fantasia, correndo il rischio di farmi superare dalla realtà, se non dei fatti, almeno delle chiacchiere estive. La nomina a senatore a vita di Silvio Berlusconi potrebbe funzionare da detonatore per la costituzione di una larga maggioranza istituzionale che avrebbe il programma di gestire il post-coronavirus con i soldi europei. E dove troverebbe i voti questa fantomatica maggioranza parlamentare? Un po’ dappertutto, soprattutto tra i cani perduti senza collare e tra i nemici delle elezioni anticipate che sono sempre molti e quasi sempre vincenti.

Certo Prodi non potrebbe fidarsi di un accordo, che per lui si concretizzerebbe soltanto nel 2022: la storia è ricca di patti saltati in vista della nomina del Capo dello Stato. E quale sarebbe la maggioranza che lo eleggerebbe? Una maggioranza scaturente dai veti incrociati e dalla mancanza di strategie politiche. In politica tutto è possibile, ma tutto dovrebbe avere un limite. Se devo essere sincero vedo Berlusconi e Prodi in gran forma psicologica: stanno godendosi un po’ di ritrovata giovinezza. Mi fa piacere per loro, un po’ meno per l’Italia. Sul piano culturale Prodi in questa kermesse estiva appena partita ha tutto da rimetterci: ma, come si sa, pur di tornare a galla…Sul piano politico Berlusconi rischia di finire nel modo peggiore i suoi giorni: ma, come si sa, pur di tornare a galla…

Gli eredi illegittimi

La Lega ha preso in affitto un appartamento in via delle Botteghe Oscure, proprio davanti alla vecchia sede del Pci, qualcosa in più di un palazzo: il simbolo di una storia. Peraltro dismessa dagli eredi almeno 20 anni fa. Col passare delle ore la notizia è diventata “pruriginosa”, ha acceso polemiche online e Salvini ha pensato che valesse la pena rilanciarla: «I valori di una certa sinistra che fu quella di Berlinguer, i valori del lavoro, degli operai, degli insegnanti, degli artigiani, sono stati raccolti dalla Lega. Se il Pd chiude Botteghe oscure e la Lega riapre, sono contento: è un bel segnale».

Salvini ha una parte di ragione. Coi valori presenti nella storia del Pci non ha effettivamente niente da spartire. Ha invece purtroppo ripreso, e in un certo senso reinterpretato, l’atteggiamento del popolo comunista, quella vocazione alla “protesta rivoluzionaria”, all’opposizione a tutti i costi, alla faziosità conflittuale, che la dirigenza comunista ebbe il suo daffare a contenere e far evolvere in senso costituzionale e costruttivo.

Se proprio vogliamo ragionare, al limite del paradosso e in modo spannometrico, possiamo pensare che nella storia della sinistra italiana si siano confrontate e scontrate due impostazioni: una radicalmente legata alla conflittualità sociale e all’internazionalismo operaio, evoluta con fatica verso l’impostazione democratica, l’autonomia nazionale e finanche verso l’europeismo (la maturazione che Aldo Moro intendeva pienamente favorire, concedendo al Pci la prova governativa in base al cosiddetto compromesso storico); l’altra di tipo riformista, che ai pregi del sistema democratico di tipo occidentale ha sommato l’involuzione  verso una piena e totale omologazione  ai difetti del nostro sistema culminata nel craxismo.

Ebbene, la destra ha tentato di raccogliere a piene mani ed in modo innaturale queste eredità: Berlusconi ha raccolto indegnamente il testimone di un socialismo democratico degenerato in un liberismo sfrenato; la Lega ha deviato in populismo il popolarismo comunista, sostituendo allo schema, peraltro vetusto, della guerra dei poveri contro i ricchi quello della guerra tra i poveri (nord contro sud; italiani contro immigrati; lavoratori contro fannulloni).

Da una parte abbiamo avuto la degenerazione inclusiva di una sinistra affamata di potere, che ha finito con lo spianare la strada a una destra modernista ed egoista; dall’altra abbiamo avuto la degenerazione esclusiva di una sinistra assetata di opposizione e protesta, che ha favorito una certa vena qualunquista e antipolitica. La Lega ha colto, seppure indirettamente e subdolamente, la voglia di essere sempre e comunque contro, offrendo ai vedovi dell’antitutto il matrimonio riparatore dell’antieuro, dell’antiimmigrato, dell’antistato.

In fin dei conti la crisi del popolo della sinistra consiste nel fatto di avere perso per strada i “riformisti” approdati al rapporto incestuoso con i liberisti e i rivoluzionari contenti di indossare in modo carnevalesco i panni populisti e sovranisti. Quando si dice che la sinistra ha perso la sua identità, si dovrebbe aggiungere che si è lasciata derubare delle sue eredità consentendo che venissero investite nel peggiore dei modi. Ritornare indietro non è facile.

Persino i simboli vengono messi in discussione: il cadavere di Aldo Moro venne piazzato vicino a Botteghe oscure come minaccia e provocazione antistorica verso il Pci convertitosi pienamente al sistema democratico; l’appartamento leghista suona come sinistro avvertimento di chi sta tentando di saccheggiare illegittimamente l’eredità di un’altra famiglia. Tutto è perduto fuorché l’onore: basta avere la voglia e il coraggio di tirarlo fuori. Chissà che le sparate demagogiche di Salvini non diano una scossa all’orgoglioso risveglio.

 

La concessione della non sfiducia

A prima vista sembrerebbe una questione da risolvere su due piedi e col cuore in mano. Mi riferisco alla diatriba inerente Autostrade per l’Italia S.p.A. (in sigla Aspi). Questa è una società per azioni nata originariamente come società di proprietà pubblica facente capo all’IRI, ma privatizzata nel 1999 e poi costituita nella forma attuale nel 2003. Ha come attività la gestione in concessione di tratte autostradali, nonché lo svolgimento della relativa manutenzione. La società fa parte del gruppo Atlantia, che ne possiede l’88,06% del capitale sociale e che fa riferimento, come principale azionista, alla famiglia Benetton.

Il crollo del ponte Morandi sembrerebbe del tutto o almeno in parte ascrivibile a errori e inadempienze commessi nella manutenzione di quella infrastruttura, di conseguenza sembra quasi una provocazione continuare a discutere se e a quali condizioni revocare o rinnovare la concessione. Tuttavia ogni e qualsiasi decisione dovrebbe avere come presupposto l’accertamento giudiziale delle responsabilità sul piano penale e civile per poi valutare l’opportunità di proseguire un rapporto inficiato dal verificarsi di un fatto che mette gravemente in discussione l’affidabilità del concessionario.

Faccio riferimento di seguito all’obiettiva e sintetica analisi del quotidiano La stampa. Considerata l’eccezionale gravità della situazione, il decreto Genova, che escluse per legge Autostrade dai lavori di ricostruzione del ponte sul Polcevera, non ha violato la Costituzione. Lo ha deciso la Consulta che ha giudicato infondate le eccezioni presentate dal Tar Liguria, che a fine anno scorso, aveva esaminato il ricorso presentato da Autostrade per l’Italia, rimandando gli atti a Roma. La Corte Costituzionale ha fatto un ragionamento più di buon senso che giuridico: detta in modo volgare e brutale, sarebbe stato un po’ come “affidare a chi è in odore di Dracula la costruzione della Banca del sangue”.

Ora però vi è in ballo la gestione del ponte. Era in ogni caso del tutto prevedibile che il destino del nuovo viadotto disegnato da Renzo Piano, l’erede del Morandi crollato il 14 agosto del 2018 provocando 43 morti, si incrociasse ancora una volta col futuro della convenzione che affidò ad Aspi metà della rete autostradale italiana. Non solo perché quella che tecnicamente si chiama «procedura di contestazione di grave inadempimento» ha preso spunto proprio da quegli eventi. Avvicinandosi all’inaugurazione si è posto sempre più pressante il tema del passaggio di consegne. Lo ha fatto apertamente per primo il sindaco e commissario Marco Bucci, preoccupato che gli sforzi per contenere i tempi di costruzione si scontrassero con un ostacolo burocratico. Ed è a lui che il ministro, nella lettera inviatagli, ha risposto, indicando il percorso. Un procedimento particolare, che assegna proprio all’ufficio del commissario la potestà di effettuare tutti gli adempimenti tecnici, compresi quelli, come la verifica di agibilità, che normalmente sarebbero in capo al concessionario.

Nonostante la sentenza della Consulta, però, la strada per azzerare il rapporto dello Stato con Aspi è tutt’altro che spianata. La convenzione resta estremamente tutelante per il concessionario e i vertici di Mit, Presidenza del consiglio dei ministri e Autostrade si confronteranno in primo luogo sull’ipotesi di transazione presentata da Autostrade il 10 giugno. Sul tavolo finiranno altre contestazioni, come le nuove indagini delle Procure di Genova e Avellino. Autostrade potrebbe fare una nuova offerta. Poi, arriverà l’ora delle decisioni.

A livello governativo si scontrano due tendenze. Da una parte la netta ed aprioristica posizione del M5S, sintetizzata dal suo capo politico ad interim Vito Crimi, che su Twitter scrive: “Il ponte di Genova non deve essere riconsegnato nelle mani dei Benetton. Non possiamo permetterlo. Questi irresponsabili devono ancora rendere conto di quanto è successo e non dovrebbero più gestire le autostrade italiane. Su questo il Movimento 5 stelle non arretra di un millimetro”. Dall’altra parte la posizione garantista e trattativista di quanti non si vogliono impantanare in una vertenza senza fine, esplorando i margini per un pur difficilissimo accordo transattivo e valutando rischi e costi di una decisione unilaterale più etica che politica.

Non sono propenso a vedere la politica come il matematico e radicale sbocco di battaglie di principio, ma confesso che in questa vicenda, costi quel che costi, sarei un tantino più deciso nell’azzerare una situazione estremamente imbarazzante sul piano morale e obiettivamente insostenibile sul piano di una seria pubblica amministrazione. Non ho la ricetta pronta nel taschino come ostentano i pentastellati senza preoccuparsi della fattibilità concreta dei loro drastici convincimenti. Tuttavia proseguire un rapporto così importante e delicato senza fiducia nel partner contrattuale mi pare una forzatura notevole.

Abbiamo in passato avuto il governo della non sfiducia, non facciamo anche i contratti della non sfiducia o meglio della sfiducia pensata ma non dichiarata. Mi sovviene al riguardo una gustosa barzelletta. Su un calesse trainato da un asino viaggia un gruppo di suore con tanto di madre superiora. Ad un certo punto l’asino si blocca e non vuol più saperne di proseguire. Il “cocchiere” le prova tutte, ma sconsolato si rivolge alla badessa: «In questi casi l’esperienza mi dice che l’unico modo per sbloccare la situazione, costringendo l’asino a proseguire, è la bestemmia. Mi spiace, ma non c’è altra soluzione…». La suora dopo qualche ovvio tentennamento pronuncia la sua sentenza: «Se è davvero così, non resta altro da fare, ma mi raccomando la bestemmia gliela dica piano in un orecchio…». La concessione quindi revochiamola, ma non troppo…E i 43 morti del crollo del ponte Morandi?

 

 

Accontentarsi di ingoiare i rospi dopo averli baciati

Il sondaggio  realizzato da Bidimedia sulle intenzioni di voto al 4 luglio, conferma il trend di crescita dei democratici e attesta la Lega al 26,6%, in calo dello 0,6% rispetto a una precedente rilevazione del 13 giugno. Subito dietro il Pd al 21,4%, con un aumento dello 0,6%. Al terzo posto il M5S al 15% (-0,3%). Conferma il trend in crescita Fratelli d’Italia al 14,1%, che sale di un ulteriore 0,7%. Forza Italia scende al 5,9%, in calo dello 0,2%. Stabile Italia Viva di Renzi al 3,5%, scende Leu al 2,6% (-0,2%), mentre Azione di Calenda registra un lieve incremento dello 0,1% raggiungendo il 2,6%.

Il vicesegretario Pd non ha resistito alla tentazione: «Da questi numeri emerge in modo evidente che senza 3 (dicasi tre) scissioni il Pd sarebbe pari alla Lega. Ai volonterosi dirigenti del Pd che sollevano obiezioni sulla leadership del partito, consiglierei di orientare meglio i loro strali».

Ad Orlando hanno risposto tre personaggi politici che si sono sentiti chiamati in causa. «Peccato però che per rincorrere Salvini chiudiamo i porti e sequestriamo le persone in mare esattamente come lui» (Matteo Orfini). «Non ho fatto scissioni. Me ne sono andato da solo perché ritenevo l’alleanza con i 5S mortale per i riformisti. Era la posizione unanime del Pd, votata negli organi e confermata nella prima relazione. Vi siete scissi voi dalle vs promesse e dai vs valori» (Carlo Calenda). «Pensa il Psi: se nel ‘21 non avesse subìto la scissione di Livorno a quest’ora dove stava» (Giorgio Gori).

Innanzitutto consigliere a Giorgio Gori di ripassare l’uso corretto dei verbi: mi permetto di correggere la sua dichiarazione in “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno a quest’ora dove starebbe”. Oltre alla grammatica però il sindaco di Bergamo sarebbe opportuno che rileggessi la storia per accorgersi che la scissione del ’21 aveva motivazioni molto serie e profonde: siamo lontanissimi dalle masochistiche attuali diatribe della sinistra.

Quanto a Matteo Orfini non ha tutti i torti, anche se non è così semplice avere una politica di sinistra sull’immigrazione, forse sarebbe sufficiente avere una politica in materia perché in realtà nessuno ce l’ha, neanche lui. Carlo Calenda mi piace come uomo di governo, ma non ha respiro politico e quindi non capisco sinceramente le sue velleità di movimento o di partito come dir si voglia.

Non hanno cantato le galline che hanno fatto veramente le uova scissionistiche: i vari Bersani e c. da una parte, i vari Renzi e c. dall’altra. Sono tutti insieme e appassionatamente nel governo, i Leu con una certa insperata compostezza, gli Italia Viva con sfrenato protagonismo. Mi sforzo di capire le ragioni di tutti, ma sinceramente non trovo cause convincenti e soprattutto prospettive credibili per chi mena il can per l’aia di un diverso partito democratico. Sono anch’io molto critico verso l’attuale dirigenza piddina, ma non vedo nessuno in grado di affondare i colpi, conquistare il centro del ring ed affrontare una situazione difficilissima. Attenti a non distruggere il poco esistente a livello politico e di governo per rimanere completamente a becco asciutto.

Facendo la somma dei consensi riconducibili all’area del centro-sinistra si arriva a un 30%: come noto presentandosi divisi si raccolgono più consensi (gli scontenti trovano più facilmente un approdo), i sondaggi hanno un valore molto relativo, la situazione che stiamo vivendo rende quasi impossibile una lettura seria degli indirizzi elettorali emergenti. Soprattutto non si raggiunge neanche quel 33% che fu considerato una sconfitta e portò alle dimissioni di Walter Veltroni nel 2008, che si assunse la responsabilità della disfatta sarda di Renato Soru, candidato del Pd alle Regionali.

Quindi non è il caso di cantar vittoria, né quello di insistere con le critiche dall’interno e dall’esterno del Pd in nome di un purismo ideologico assai datato e di un pragmatismo politico assai sconfortante. C’è in atto una imbarazzante e inconcludente alleanza col M5S, molto litigarella a livello governativo, molto insignificante per le prospettive politiche. Quel 15% assegnato dai sondaggi ai pentastellati che fine farà? Grillo ne vede l’inevitabile progressiva erosione e sembra puntare a un’alleanza organica col Pd ad iniziare dalle prossime elezioni regionali. Qualcuno lo riterrà un abbraccio mortale. Personalmente, anche se con fatica, ritengo inevitabile baciare il rospo. Attenti però alle complicazioni suggerite da Paulo Coelho: “Nelle favole, le principesse danno un bacio al rospo. Nella vita reale le principesse baciano i principi e quelli si trasformano in rospi”.

 

 

Pensioni: guai a chi non le tocca

La cancelliera Merkel sarebbe determinata a chiudere piuttosto in fretta il negoziato sul Recovery Fund. Avrebbe telefonato a Giuseppe Conte e nelle sue parole al collega premier di Roma, secondo i bene informati, si sarebbe avvertita l’attesa della cancelliera che l’Italia la aiuti a convincere Danimarca, Svezia, Austria e soprattutto l’Olanda. Sono questi i Paesi più freddi all’idea di varare un pacchetto di trasferimenti troppo generoso, anche perché sono loro i più scettici sulla capacità dell’Italia di ritrovare la via della crescita. Quei governi sospettano che l’Italia, con i suoi mille problemi, finisca per sprecare buona parte degli aiuti.

Negli ultimi scambi con Palazzo Chigi, dalla cancelleria di Berlino sono arrivate alcune domande precise. In vista della stretta nel negoziato sul Recovery Fund, Merkel ha bisogno di capire quale direzione intende prendere il governo italiano. Una delle domande arrivate dalla capitale tedesca in questi giorni riguarda le semplificazioni amministrative promesse da Conte: se il governo varasse prima del prossimo vertice europeo alcune delle riforme richieste per gli esborsi del Recovery Fund, sarebbe più facile superare soprattutto le riserve dell’Olanda. Molti occhi sono puntati su quel passaggio anche nel resto d’Europa, perché un’Italia immobile anche nelle riforme renderebbe più difficile per tutti l’accordo sul Recovery Fund.

Da Berlino è arrivata però a Palazzo Chigi anche una domanda indiscreta ma pertinente: che cosa intende fare Conte sulle pensioni? Anche qui, nessuna richiesta precisa. Ma è la stessa domanda che Merkel rivolgeva al collega italiano quando, nel 2018, il governo giallo-verde si preparava a varare “Quota 100”. Conte naturalmente ha fatto sapere a Merkel che non prorogherà oltre il 2021 il sistema del ritiro anticipato voluto dalla Lega. Ma l’interesse della cancelliera su questo punto, in vista del vertice che deve salvare l’Italia dalla peggiore recessione in tempo di pace, fa capire quanto il debito pubblico di Roma la preoccupi ancora.

È inutile ripetere che l’Italia è un sorvegliato speciale e non ce ne dobbiamo vergognare, ma ne dobbiamo solo prendere atto con sano realismo ed umile volontà. Immaginavo da tempo che il tema delle pensioni sarebbe emerso in tutta la sua delicata ma inevitabile importanza: e non credo si tratti soltanto di quota 100, penso che, prima o poi, si dovrà mettere mano ad una riforma dolorosa dell’intero sistema pensionistico.

Quando è scoppiata la pandemia mi sono posto tre problemi drammatici, riconducibili, direttamente o indirettamente alla nostra incapacità ad affrontare le emergenze con cui dobbiamo abituarci a fare i conti: la salvaguardia della salute in un sistema sanitario che, pur fra tanti pregi, si sta dimostrando inadeguato; la incapacità di offrire a tutti quel lavoro che è il fondamento della nostra repubblica democratica; la impossibilità di garantire la copertura pensionistica. Abbiamo finora parlato molto di sanità e speriamo che sia servito a capire che su di essa non si scherza e bisogna investire risorse materiali e umane. Ci siamo molto preoccupati dell’andamento economico nel suo riflesso sull’occupazione giovanile, ma anche sulla perdita del lavoro da parte di parecchie persone che rischiano di andare al di sotto di un livello di vita dignitoso ed accettabile. Abbiamo discusso poco di pensioni, dimenticando che si tratta del capitolo più influente sul nostro debito pubblico e partendo sempre dal presupposto che i diritti acquisiti non si possono toccare.

Sono convinto, anche a costo di mettere in discussione i miei più diretti interessi personali, che il sistema pensionistico lo dobbiamo rivedere, riequilibrare, risanare e proiettare nel futuro. Sono certo che sia necessario eliminare i privilegi: al di là di tutto e anche del fatto che il nostro sistema pensionistico sia di tipo mutualisticamente contributivo nel senso che ciascuno dovrebbe ricevere come pensione quanto ha accantonato durante la vita lavorativa. Restano delle diseguaglianze che gridano vendetta, delle pensioni d’oro e d’argento che vanno ridimensionate, delle pensioni da fame che vanno rivalutate ed adeguate. L’età pensionabile va seppur dolorosamente parametrata alla durata media della vita. Non si può continuare a pensare che chi ha avuto ha avuto e i giovani debbano rinunciare all’idea di una sacrosanta ed equa copertura previdenziale.

Non escludo che si debba fare un passo indietro e, nel caso, non sarà facile distribuire i sacrifici. Tutti dicono che occorre combattere le diseguaglianze, ma esse prevedono privilegi da abbassare e svantaggi da colmare. Prima che ce lo chiedano o addirittura ce lo impongano i partner europei, sarà bene che ne parliamo in casa nostra, anche se dovrebbe essere casa nostra anche l’Europa. Se ci si avvicina ad un gruppetto di persone anziane in libera e aperta discussione tra di loro, quasi sempre si constata che essi parlano di pensioni: si tratta del loro reddito, di un traguardo agognato e raggiunto, di un diritto da salvaguardare, di un argomento che li tocca nel vivo, di una situazione esistenziale. Ci sarebbe da rischiare il linciaggio a porre i discorsi di cui sopra, eppure…

Il Padreterno non governa il Veneto

Mio padre credeva così fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle che ingenuamente si illudeva di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello: “chi scappa sarà ucciso”. Non aveva una mentalità autoritaria, ancor meno violenta, ma aveva uno spiccato senso del dovere, innanzitutto per se stesso e poi lo pretendeva anche dagli altri. Atteggiamento per un verso virtuoso e ammirevole, pericoloso se portato all’eccesso.

Durante i primi giorni della lotta al coronavirus, con la zona di Codogno isolata e messa in quarantena, provvedimento che poi purtroppo dovette essere allargato all’intero territorio nazionale, un cittadino fece un’uscita clamorosamente trasgressiva, andò a sciare e si procurò una frattura che venne regolarmente curata in ospedale.  A Marcello Lippi, allenatore di calcio, impegnato per alcuni anni come commissario tecnico della nazionale cinese, è stato chiesto cosa pensasse della Cina e del coronavirus. Azzardò una similitudine paradossale, ma non più di tanto: al cittadino italiano in fuga dal lock down è stata sistemata la frattura alla gamba, in Cina lo avrebbero messo al muro.

Il governatore del Veneto, che amo definire come “il decisionista che più decisionista non si può”, di fronte ai comportamenti border line dei suoi corregionali tende alla loro criminalizzazione e promette fuoco e fiamme arrivando a ipotizzare trattamenti sanitari obbligatori, tende a fare denunce penali vere e proprie come nel caso dell’imprenditore rientrato dalla Serbia, che ha rifiutato il ricovero ospedaliero dopo essere stato rilevato come positivo al covid 19, tende a scaricare sul governo la colpa della risalita dei contagiati per non avere disposto norme severe (la galera?!) contro gli irresponsabili.

Mettiamoci d’accordo: so per certo di malati di coronavirus con tanto di febbre alle stelle, lasciati a casa senza nemmeno procedere al loro “tamponamento”, curati per telefono. Adesso, dal momento che la struttura ospedaliera non è più in tilt, si arriva a pensare al tso (come per i matti furiosi). I governatori regionali, durante la prima fase della pandemia spingevano sul governo affinché dichiarasse lo stato di emergenza nazionale e dipingesse di rosso tutta l’Italia, forse per evitare il rossore di vergogna di qualcuno in particolare. Quando si accorsero che l’economia rischiava di “andare a puttane”, cominciarono a fare i primi della classe e a chiedere la riapertura differenziata per i loro territori (naturalmente i più virtuosi). Adesso ricominciamo daccapo? Un po’ di coerenza e di equilibrio non guasterebbe.

Un conto è la severità verso i cittadini che assumono atteggiamenti e tengono comportamenti pressapochisti e irresponsabili; un conto è subissarli di adempimenti formalmente assurdi come le autodichiarazioni per giustificare le uscite da casa, con moduli che cambiavano ad ogni piè sospinto (ho esaurito le cartucce della stampante a forza di stamparne: a quel punto non sapevo più come fare per esibire l’autodichiarazione valida nel tragitto da casa mia al negozio di informatica, aperto in deroga); un conto è criminalizzarli e metterli alla gogna.

A proposito di criminalizzazione, mio padre del fascismo (la lingua batte dove il dente leghista duole) mi forniva una lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente, mi diceva, trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare  la propria estraneità al fatto , la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io. Non voglio esagerare, ma, se per combattere il coronavirus dovessimo instaurare un autoritario e poliziesco clima di caccia alle streghe, preferirei correre il rischio di ammalarmi: non vorrei essere equivocato, ma, per tornare alla similitudine di Marcello Lippi, al muro non ci metterei nessuno, né in senso proprio né in senso figurato.

Luca Zaia è stato dichiarato “santo subito” per i risultati positivi ottenuti nella sua regione nell’ambito della lotta al coronavirus. Chi lo vedrebbe leader della Lega (al posto di Salvini), chi lo vorrebbe capo del governo (in una compagine di centro-destra vincitrice delle prossime elezioni), chi lo giudica come l’uomo della provvidenza autonomistica contro la maledizione centralista. Adagio nelle curve! Chi vivrà vedrà. Mi sembra che sia molto capace di accreditarsi i meriti e di scaricare le colpe. Tutto quel che è bene è merito della regione Veneto, tutto quel che è male è colpa del governo Conte. Verso l’attuale governo ed il suo capo sono piuttosto critico, ma di fronte alla insopportabile prosopopea zaiana (e non solo), finisce, come scriveva il Giusti nella sua poesia S. Ambrogio, che abbraccio Conte, duro e piantato lì come un piolo.

 

La società a doppio binario (morto)

Il sistema binario è un sistema numerico posizionale in base 2. Esso utilizza solo due simboli, di solito indicati con 0 e 1, invece delle dieci cifre utilizzate dal sistema numerico decimale. Ciascuno dei numeri espressi nel sistema numerico binario è definito “numero binario”.

I computer, se non erro, viaggiano in base a questo sistema. Anche la nostra società funziona su una sorta di sistema binario. Nei giorni scorsi ho provato ad applicarlo alla politica. Riprendo il concetto: la politica italiana viaggia sul doppio binario, quello della ipercriticità gratuita e faziosa e quello delle sclerotiche reazioni allergiche alle critiche: la discussione ridotta a costante duello fra chi ha tutte le ragioni e chi ha tutti i torti.

Dal punto di vista sociale viviamo nel mare magnum della burocrazia e, giustamente, ce ne lamentiamo ad ogni piè sospinto. Tutto sembra paralizzarsi di fronte al dominio o all’eccessivo potere della pubblica amministrazione, con l’improduttiva pedanteria delle consuetudini, delle forme, delle gerarchie; purtroppo succede anche nelle amministrazioni e organizzazioni non pubbliche, che ne ricalcano gli aspetti e, soprattutto, i difetti.

Dall’altra parte scatta una reazione uguale e contraria nei comportamenti individuali e collettivi: ognuno fa quel cavolo che crede, se ne fotte delle regole, viaggia sull’altro binario, vale a dire quello della strafottente noncuranza nei confronti dei propri doveri e/o dei diritti altrui. Un tempo la trasgressione era tale in quanto rappresentava l’eccezione alla regola, oggi c’è in atto lo stravolgimento in base al quale chi trasgredisce è in regola e chi cerca disperatamente di stare in regola viene emarginato e considerato lo scemo del villaggio e/o il brontolone di turno.

Qualcuno sostiene che la trasgressione sia la conseguente reazione alla burocrazia imperante, da cui ci si può difendere solo facendo i cazzi propri. Non so se sia nata prima la gallina burocratica o l’uovo del “chissenefrega”, fatto sta che la nostra società rischia una doppia paralisi: una da eccessiva staticità e l’altra da deformante dinamicità.

Mi viene spontaneo fare l’esempio del sistema fiscale: una pazzesca pletora di regole e di relative sanzioni porta acqua al mulino dell’evasione. Nella enorme confusione normativa chi intende farla franca e non pagare le tasse va a nozze, perché ha in tasca una polizza inattaccabile contro il rischio dell’evasione. I controlli finiscono col prendersela con i pochi che capitano sotto le grinfie dell’erario, spesso si tratta di quei pochi che magari hanno cercato di rispettare le regole e si vedono “becchi e bastonati” sotto le contestazioni globali del “dalli all’evasore”. Gli evasori, quelli veri, se la ridono nascondendosi dietro il dito della loro irrintracciabilità. D’altra parte già molti anni fa, un caro e bravo collega, esperto di fiscalità, teorizzava sarcasticamente come forse basterebbe inviare all’agenzia delle entrate un consistente numero fasullo di dichiarazioni dei redditi per mandare in tilt tutto il sistema.

Quando ci si pone il problema di riformare il sistema amministrativo, si pone immediatamente il dubbio amletico del “semplificare o non semplificare”: nel primo caso si teme di aprire un’autostrada (peraltro già aperta) ai trasgressori; nel secondo si teme di perpetuare l’inefficienza del sistema imprigionandolo in una pletora di regole (peraltro già esistente).

Poi escono anche i soliti pro e contro rispetto ai condoni: servono all’emersione del nero o all’immersione del bianco? Sono un premio ai trasgressori e un invito alla trasgressione, sono una piccola tassa che legittima la violazione delle regole o, perso per perso, un modo per portare all’erario un po’ di soldi? Forse i condoni rappresentano lo sposalizio tra l’inerte burocrazia e la furba egolatria.

Anche la lotta al coronavirus è rimasta invischiata nel sistema binario: per un po’ ha funzionato la estrema, e per certi versi inevitabile, burocratizzazione del lock down, poi, quando è subentrata la paralisi, via con la ripartenza, vissuta purtroppo da molta gente come un “liberi tutti” e “a chi tocca leva”. E tocca, come sempre, a chi cerca di comportarsi con serietà e buonsenso.

Tra i paragoni impossibili, varati dal grande attore dialettale Bruno Lanfranchi, ce n’era uno che diceva: “L’era un òmm tant timmid e impresiónabil c’al gäva paura d’un binäri mòrt”. Non è poi tanto impossibile avere paura del binario morto, se si tratta di quello che ho cercato di spiegare come un tarlo esistente nella nostra società.

Il catastrofismo di maniera

Le notizie catastrofiche sulla situazione economica si rincorrono: al 90% è roba trita e ritrita. La caduta del Pil, la drastica diminuzione delle vendite, l’occupazione in calo, i settori in crisi, la povertà in aumento, il malcontento montante. Vorrei capire cosa c’è di nuovo rispetto alla prevedibilissima crisi post-coronavirus.

Si tratta di un esercizio retorico che non serve assolutamente a niente e nessuno: tutti vogliono dire la loro scontata verità e sparare cifre alla viva il parroco, mentre sta dilagando la sindrome del disastro settembrino. Fanno meno audience i dati preoccupanti sulla diffusione del virus in tutto il mondo, ormai tirano le notizie sulla crisi economica: il sadismo mediatico non guarda in faccia a nessuno. Non è però solo una degenerazione a livello informativo, c’è anche la corsa di istituzioni, enti ed associazioni ad enfatizzare la realtà facilmente prevedibile e difficilmente arginabile e combattibile.

Durante una rappresentazione teatrale a livello parrocchiale, un attore improvvisato, che non aveva imparato a dovere la sua parte, ad un certo punto, nel momento di massima tensione drammatica della vicenda, si bloccò su una battuta: “questa casa va a catafascio”. Di lì non ci si muoveva, la frase veniva ripetuta alla ricerca dell’imbeccata da parte degli altri protagonisti che non arrivava, il suggeritore non sapeva più che pesci pigliare, la recita si impantanò, venne calato il sipario, sperando che il pubblico apprezzasse il colpo di scena, mentre invece si scatenò in urla e fischi contro tutto e tutti. La commedia finì malissimo: un fiasco pazzesco.

L’economia sta andando a catafascio! Lo si poteva facilmente prevedere e lo si sa benissimo. E allora? Se gli attori sul palcoscenico non recitano la loro parte, se chi deve proporre vie d’uscita è nel pallone, si pensa di risolvere la questione tirando il sipario e dichiarando fallimento totale? Se continuiamo ancora un po’, va a finire così. Qualcuno si illudeva che bastasse riaprire i battenti per rimettere in moto l’economia? Qualcuno pensa che continuando a suonare le campane a morto il funerale possa risolversi in positivo. Ai funerali si suonano le campane a morto all’arrivo del feretro in chiesa, poi all’uscita si suonano le campane a festa a significare la fede della comunità nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

Dobbiamo trovare un minimo di fiducia in noi stessi, nelle istituzioni, negli imprenditori, nei lavoratori, nei governi, altrimenti siamo perduti. Continuare a recitare il ritornello della crisi ci deprime e ci paralizza. Non sto chiedendo una irresponsabile ventata di ottimismo: ci stanno già pensando le migliaia di cittadini che si comportano in modo scriteriato volendo vedere a tutti i costi il bicchiere mezzo pieno. Non sto ipotizzando una fuga generale alla ricerca di una qualche distrazione di massa. Sto pensando alla disponibilità a fare dei grossi sacrifici e alla capacità di chiederceli, prospettando meccanismi che sconfiggano l’inequità, termine un po’ sgrammaticato, ma molto efficace, usato da papa Francesco, che definisce appunto l’inequità come la radice dei mali sociali.

Quando in una famiglia le cose vanno male si è portati, sbagliando, a drammatizzare la situazione come se bastasse per scuotere le menti e i cuori. Serve solo a deprimersi e a peggiorare la situazione. Anche le proposte di sacrifici fatte dal capo-famiglia cadono spesso nel vuoto, perché tutti si guardano e pensano che l’altro faccia meno sacrifici e sia avvantaggiato. Succede come a Coppi e Bartali al campionato del mondo di ciclismo. Sembra di assistere allo storico tira e molla tra i nostri due campioni: parti tu che parto io, non partì nessuno dei due e vinse, se non erro, Rik Van Steenbergen. Bisogna che chi propone i sacrifici abbia la credibilità per garantire una loro equa ripartizione prima ancora di una loro qualche efficacia.

Un tempo si diceva che questo ruolo dovesse e potesse svolgerlo la sinistra politica: non ne sono più così sicuro anche perché rischia di diventare la questione dell’uovo e della gallina: è la sinistra che fa l’equità o l’equità che fa la sinistra. Certo non fa niente di buono continuare col rosario dei dati negativi.

Non un avvocato del popolo, ma un direttore politico

La politica italiana viaggia sul doppio binario, quello della ipercriticità gratuita e faziosa e quello delle sclerotiche reazioni allergiche alle critiche: la discussione ridotta a costante duello fra chi ha tutte le ragioni e chi ha tutti i torti. Una simile impostazione non regge nei rapporti tra maggioranza e opposizione, figuriamoci all’interno delle forze di maggioranza.

«Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, con l’assurda coda del referendum voluto a tutti i costi dalla gerarchia cattolica al cui volere la Democrazia Cristiana si piegò per ovvi motivi elettoralistici. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Credo non ci voglia molto a capire come l’intervistato rifiutasse il modo manicheo con cui veniva affrontato il problema. Di tempo ne è passato parecchio ed il populismo ha fatto molta strada al punto da ridurre tutta la politica, e non solo, ad un perpetuo referendum pro o contro qualcosa, ma soprattutto pro o contro qualcuno: un continuo strisciante plebiscito strumentalmente azionato, usato per ridurre a zero il dibattito sui problemi e fuorviare i cittadini con la ratifica delle finte ed illusorie soluzioni. Se non si discute, se si viene costantemente posti di fronte ad una facilona scelta di campo, lo sbocco è condizionato dai media e vince chi ha la voce più forte, vale a dire il peggiore.

Noto, da parecchio tempo, come non si riesca più a discutere nel merito dei problemi: tutto viene ridotto a mera diatriba faziosa e velleitaria entro cui si rovinano persino rapporti familiari, parentali, amicali, si distrugge il dialogo rincorrendo fantomatiche certezze.

È bastato che il segretario politico del partito democratico esprimesse perplessità sulla proposta di riduzione selettiva dell’Iva, che ponesse alcune resistenze sul decreto Semplificazioni e che formalizzasse in una lettera la richiesta di attivare il Mes, cioè il fondo europeo per le spese sanitarie, per provocare la reazione stizzita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: cosa vuole costui? dove vuol parare? mi vuol sostituire? Sappia che dopo di me viene il diluvio!

A prescindere dal merito dei problemi sollevati, sul quale peraltro mi ritrovo assai più vicino all’opinione di Zingaretti che alla tergiversazione di Conte, non accetto questa riduzione del dibattito politico a mera ratifica degli indirizzi di governo, come se il governo non fosse espressione dei partiti di maggioranza, ma dipendesse dagli indici di gradimento dei sondaggi commissionati in sede mediatica. Non vedo cosa ci sia di male e di inopportuno se finalmente Nicola Zingaretti chiede al governo di riporre nell’armadio il cilindro del prestigiatore, di sveltire la manovra sulle semplificazioni senza dare sforbiciate a vanvera, di decidere in merito all’utilizzo delle risorse europee messe a disposizione dal fondo salva-stati.

Giuseppe Conte deve ricordare di non essere stato eletto dal popolo, di non essere l’avvocato del popolo e di avere, in base alla Costituzione, il compito di dirigere la politica generale del governo e di mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Un lavoro piuttosto difficile a cui dovrebbe rassegnarsi con santa pazienza e con grande abilità.

Da quanto si può capire credo invece che il presidente del Consiglio attuale abbia la preoccupazione di assorbire in qualche modo le rimostranze del M5S, destreggiandosi in mezzo alla valanga grillina di “no” provenienti dalla forza politica che, volenti o nolenti, lo ha letteralmente inventato in questo ruolo, e quindi di mettere la sordina ai desiderata piddini per non urtare la suscettibilità pentastellata. Il tutto coperto da una esasperante mediatizzazione del suo ruolo e dalla esagerata e inconcludente difesa della propria immagine. Sto forse esagerando, ma forse prima sta esagerando lui.

Il PD non è un mostro di chiarezza e linearità politica, ma pretendere che si rassegni a darla sempre su a Conte, rinunciando ad ogni e qualsiasi iniziativa politica per non disturbare il manovratore mi sembra un po’ troppo. La politica è fatta di mediazione tra i partiti e non di conferenze stampa: parlare meno a microfoni aperti, discutere nelle sedi opportune, decidere in base a compromessi ai più alti livelli possibili. Sappiamo tutti che a questo governo e a questo premier non c’è alternativa: non è un motivo per scansare le critiche ed evitare il dialogo. E poi Giuseppe Conte ricordi che siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile. Un bagnetto di umiltà non gli potrebbe fare che bene.

 

 

 

La pizza alla dalemoni

Sono talmente nauseato delle sciocche dispute politiche a sinistra e destra, da prendere in considerazione uno scenario che taglierebbe la testa al toro. In questo periodo sto soffrendo parecchi disturbi gastro-intestinali al punto da perdere l’appetito: mi viene la tentazione di provare quotidianamente a vivere di pizza (un giorno ai formaggi, un giorno ai funghi, un giorno al tonno, etc. etc.) per stuzzicare l’appetito e per collaudare finalmente la tenuta del mio apparato digestivo. Non so come, ma forse ne uscirei in qualche modo, abbandonando le diete e chiarendo finalmente di che morte devo morire.

In cosa consisterebbe, politicamente parlando, la cura delle pizze a go-go. Ho persino vergogna a dirlo, ma andrei a rimettere in pista due pizzaioli abbastanza defilati: a sinistra Massimo D’Alema, a destra Silvio Berlusconi. Sono sicuro che troverebbero un accordo non certo ai massimi livelli, ma per sopravvivere. Un mio carissimo amico, quando gli viene chiesto come sta, risponde sistematicamente con una parola: sopravvivo. Bisogna sapersi accontentare, soprattutto ad una certa età ed in certe situazioni. La politica ha bisogno di sopravvivere e per ottenere questo risultato minimale non servono gli apprendisti stregoni del M5S, né gli aspiranti asceti del Pd, né le spregiudicate verginelle di Leu, né i gufanti scacciapensieri della Lega, né i pragmatici nostalgici di FdI. Bisogna affidarsi a personaggi che la sanno lunga, turarsi il naso, piegare il capo e sperare nel miracolo.

Mi si dirà: D’Alema è fuori dai giochi a sinistra e Berlusconi a destra sta giocando a “ciapa no” (in termini di voti). Pensate se Mattarella, ancor più nauseato di me, si concedesse un folle tentativo di mettere in piedi un governo D’Alema-Berlusconi. Sono sicuro che i mercati prenderebbero il volo; l’Europa festeggerebbe il ritorno dell’Italia alla “normalità” (socialisti e popolari che governano insieme); con la Cina ce la caveremmo benissimo; in medio oriente Berlusconi tranquillizzerebbe Israele e D’Alema garantirebbe gli arabi; si troverebbe la quadra di una pragmatica politica per l’immigrazione; persino il coronavirus si calmerebbe.

I ministri non sarebbero peggio degli attuali. In Parlamento Berlusconi saprebbe destreggiarsi a destra recuperando gente che non aspetta altro, D’Alema taciterebbe tutti gli scontenti della sinistra, il M5S troverebbe finalmente la sua identità (né di destra né di sinistra) e farebbe l’opposizione in piazza. E gli Italiani tacerebbero di fronte ad un simile scenario politico mozzafiato. Resterebbe il problema del premier: chi lo farebbe? D’Alema o Berlusconi? Un bel rompicapo per Mattarella. Una staffetta e non se ne parla più. Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, sto scherzando, anche se…

Facciamo un po’ di revisionismo spicciolo? Berlusconi non aveva tutti i torti su tre questioni: quando sosteneva che per fare i conti in tasca agli italiani bisognava partire dai ristoranti stracolmi; quando osservava come gran parte dei politici non si fosse mai cimentato in un lavoro vero e proprio; quando riteneva Gheddafi un male necessario.

D’Alema non era così lontano dalla verità quando pensava che la Lega fosse una costola della sinistra; quando voleva portare Walter Veltroni a fare il missionario in Africa; quando agli albori della cosiddetta seconda repubblica rimpiangeva la Democrazia Cristiana.

Forse è meglio che ci dia un taglio, perché, se proseguo, va a finire che nel governo D’Alema- Berlusconi ci credo veramente… E pensare che mi sono sempre dato arie da aberlusconiano e da spietato antidalemiano. Avevo ragione, ma, quando uno sta per affogare…