Un parroco, un vescovo e…un cardinale

Un mio rigorosissimo amico, cattolico osservante e praticante, mi raccontò di essersi fatto scrupolo di partecipare alle nozze di un suo amico celebrate con rito civile e di avere chiesto al riguardo consiglio al suo confessore, che gli consigliò di presenziare tranquillamente alla cerimonia: “Questi tuoi amici almeno si sposano…”, lasciando intendere che…ben venga qualsiasi celebrazione dell’amore fra due persone.

Credo che abbia fatto questo ragionamento, anche se portato alle estreme conseguenze, il parroco che nei giorni scorsi ha indossato la fascia di ufficiale civile e ha presieduto l’unione civile di due donne. Se non ché don Emanuele Moscatelli, parroco di sant’Orazio in provincia di Roma, ha dovuto “dimettersi spontaneamente” e farà un periodo “di riflessione e verifica. L’asciutta ed ufficiale cronaca del quotidiano Avvenire ci informa (?) che il sacerdote ha “capito l’inopportunità”: lo ha spiegato all’AdnKronos il vescovo di Civita Castellana, monsignor Romano Rossi, che fa sapere che da domenica prossima i parrocchiani avranno un nuovo parroco. Il vescovo ha parlato a lungo con don Emanuele: “Abbiamo dialogato, non si è trattato di una decisione di autorità – assicura -. Non è in corso in nessuna censura, ha deciso che era opportuno dimettersi”. “Il parroco – spiega il vescovo Rossi – è un libero cittadino, ma c’è un canone che impedisce ai sacerdoti di officiare cerimonie civili. Ma si dialoga nella Chiesa e così ho fatto con don Emanuele”. Dopo il periodo di riflessione, spiega ancora il vescovo, “non potrà fare il parroco a sant’Oreste, ma, una volta chiarite certe cose, potrà fare tutto, quando sarà il momento”.

L’unione civile è stata ratificata l’11 luglio a Sant’Oreste, comune della provincia di Roma con poco più di 3.600 abitanti. Pochi giorni prima della celebrazione, il parroco di San Lorenzo Martire, era andato dalla prima cittadina per chiedere di potere presiedere all’atto. Il sindaco Valentina Pini, primo cittadino di Sant’Oreste dal giugno 2016 eletta con una lista civica, ha accettato e ha ceduto la fascia tricolore al sacerdote.

A questo punto, dopo aver sottolineato il vomitevole approccio burocratico, che nasconde l’ostilità preconcetta verso le unioni omosessuali, cedo la parola, perché correrei il rischio di spararne delle grosse contro la gerarchia cattolica e i suoi metodi militareschi di fare rispettare quelle che dovrebbero essere regole, ma che, a mio giudizio, sono i fardelli farisaici di cui parlava sarcasticamente Gesù.

Mi rifaccio direttamente e indirettamente al pensiero ed allo stile del cardinale Carlo Maria Martini, che diceva: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili».

Voglio richiamare però anche il breve, ma esauriente, profilo che del cardinale Martini tracciò il mio carissimo amico don Luciano Scaccaglia: «Grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti».

In cauda venenum: prescindendo dal merito della questione, che giudico un’autentica e pretestuosa “bega da frati”, facendo riferimento al cartellino giallo sventolato sotto il naso di don Moscatelli, desidererei che uguale tempestività e rigore disciplinare fossero riservati dalla gerarchia cattolica ai preti in odore di pedofilia e a quelli in odore di affarismo. Coraggio, papa Francesco, perché la convalescenza è molto lontana…

 

 

 

 

I cinque stelle non stanno a guardare

Gli esponenti politici pentastellati non brillano, a dispetto del loro nome, per preparazione, cultura, esperienza e acutezza politica. Sono portati a sparare giudizi alla “viva il parroco”. Non sono per tanti e svariati motivi un loro elettore, né un loro sostenitore, né un loro simpatizzante. Non mi pare però che l’ultima uscita di Laura Castelli, viceministra all’Economia, riguardo alle prospettive economiche dei ristoratori, meriti quelle violente censure che si sono scatenate: una valanga di insulti su Facebook, la maggior parte dei quali a contenuto sessista, dopo il video in cui invitava i ristoratori in crisi “a cambiare modello di business”. Parole rispetto alle quali l’esponente 5 Stelle del governo aveva rapidamente corretto il tiro, ma che hanno ugualmente scatenato, oltre alle polemiche, un diluvio di offese: da “Sei una m., mi auguro che tu spenda in medicine tutte le mie tasse” a minacce di morte come “Piazzale Loreto è sempre aperto per m… come te” agli insulti sessisti estesi ad altre donne della politica come De Micheli, Bellanova, Boldrini, Lamorgese.

È la stessa Laura Castelli a denunciarlo in un altro post su Facebook: “Da ieri ricevo questo genere di insulti, che lascio giudicare a voi. Un attacco, senza precedenti, alimentato da una campagna di disinformazione montata ad arte da quella parte di opposizione che racconta di voler collaborare, ma preferisce falsificare le mie parole, piuttosto che favorire un dibattito positivo di confronto economico e politico su un tema estremamente importante come quello del sostegno alle imprese che si vogliono innovare, cosa di cui ho realmente parlato”.

“Questo becero modo di interpretare la politica -aggiunge – fa molto più male al Paese, generando tensioni sociali, di quanto faccia male a me e alle persone che mi stanno accanto. Dispiace, però, vedere che per qualche like, o per qualche click in più, ci sia invece chi è disposto a tutto questo. Media e opposizioni, soprattutto in questo preciso momento storico, hanno un ruolo estremamente importante. Per questo, da parte di tutti, serve maggiore responsabilità e coesione, nel rispetto della corretta dialettica politica”.

“Non ci fermiamo certo a causa di questi attacchi – conclude la ministra – sono altri i problemi del nostro Paese. C’è una trattativa fondamentale in Europa, che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sta portando avanti per tutti noi, su cui dobbiamo raggiungere il risultato auspicato, e ci sono i problemi degli italiani da continuare a risolvere, senza lasciare nessuno indietro. Andiamo avanti”.

Le proteste e accuse contro la viceministra dell’Economia erano cominciate dopo le dichiarazioni rilasciate durante la trasmissione Tg2 Post. Poche parole, in cui la 5 Stelle ha tentato di spiegare che con la crisi “vanno cambiati i modelli di business”, ma che hanno però suscitato proteste e fraintendimenti delle opposizioni, con il centrodestra che chiedeva le dimissioni dell’esponente del governo e chef stellati come Gianfranco Vissani che attaccavano duramente la grillina. Una bufera, contro la 5 Stelle, che l’ha costretta nel pomeriggio a correggere il tiro: “Ho fatto solo un esempio, ma non era un attacco alla categoria dei ristoratori”.

“Trovo nauseante come certa stampa abbia completamente reinventato le parole di Laura Castelli, attribuendole virgolettati mai pronunciati e trasformandola in un bersaglio” – scrive il capo politico di M5S, Vito Crimi – “Eppure il suo è un ragionamento di buon senso: cosa c’è di sbagliato nel ritenere che in questi tempi di grave crisi lo Stato debba essere al fianco delle aziende in difficoltà e debba accompagnare chiunque voglia riconvertire la propria attività per adattarsi alle nuove sfide che ci attendono?”.

La viceministra poteva essere più prudente, ma il suo ragionamento di fondo non mi sembra né sbagliato né offensivo. Non possiamo illuderci di ripartire, economicamente parlando, come se niente “fudesse”: saranno purtroppo necessari parecchi aggiustamenti nei modelli e parecchie riconversioni produttive. Quando diciamo che “niente sarà come prima”, il discorso vale anche e soprattutto per gli assetti economici e produttivi. Nessuno quindi si deve sentire offeso se dovrà ripensare e riconvertire in tutto o in parte la propria attività. Mi rendo perfettamente conto dello sconcerto che provoca la crisi che ci ha investito. Alcuni giorni fa sono passato davanti ad una bella, nuova e moderna struttura alberghiera: tutto chiuso e chissà se e quando riaprirà. Sono stato preso da un sincero senso di angoscia e, fra me e me, ho esclamato: “Che peccato! Quanto lavoro, quanta imprenditorialità a rischio sopravvivenza…”.

Dovremo avere la forza di volontà, la fantasia, la perseveranza per riprendere il cammino, dopo avere ridisegnato il percorso e mettendo in conto di dover superare parecchi ostacoli. La politica non può e non deve illudere nessuno, ma aiutare, possibilmente tutti, ad aggiustare il tiro e mirare bene il bersaglio, prima di ricominciare a sparare a salve contro la crisi, che sarà molto dura a morire e che forse dovrà essere aggirata più che affrontata di petto.

 

Finti pretesti, veri pregiudizi, diffuso razzismo

“Io non sono razzista, ma se un soggetto straniero, che vuole vivere in Italia, non si comporta bene, lo sbatto fuori su due piedi e lo riporto nel suo paese”. Quante volte ho sentito questo lapidario ragionamento (?) e mi ha sempre insospettito tale implacabile atteggiamento, che, a mio giudizio, nasconde una ostilità di base: un modo elegante per essere razzisti. Sì, perché un motivo per espellere un immigrato non è difficile da trovare. Se è appena arrivato e per mangiare fa dell’accattonaggio, se ne deve andare perché non ha voglia di lavorare e finirà col fare lo spacciatore e/o il ladro. Se lavora, se ne deve andare perché ruba agli italiani il poco lavoro che c’è.  Se sbarca con estrema fatica sulle nostre coste, è un potenziale diffusore di malattie e di coronavirus in particolare e quindi non possiamo tirarci in casa dei potenziali focolai infettivi.

In questi giorni però siamo arrivati al culmine. Ho letto su La stampa: Quindicenne aiuta una donna per strada e un passante lo scaccia: “Mulatto, torna al tuo paese”. È successo a Grugliasco (Torino). La mamma del ragazzo, indignata, si è sfogata su Facebook: «Mio figlio ha solo 15 anni. Ha visto una donna svenire per strada, l’ha presa al volo, ha cercato di ricordare le nozioni di primo soccorso apprese alle medie». E mentre il ragazzino si dava da fare per aiutare la donna, un passante lo ha spinto via malamente: «Mulatto, spostati, tornatene al tuo paese». «Io sono fiera di lui – continua mamma Katia –. A 15 anni ha fatto quello che poteva per aiutare una persona che aveva bisogno, senza esitare».

Il sindaco di Grugliasco, Roberto Montà, informato dell’episodio, ha reagito così: «Un pessimo esempio di maleducazione e inciviltà. A forza di mandare messaggi razzisti e divisivi ormai qualcuno pensa che episodi simili rientrino quasi nella normalità». L’episodio, tra l’altro, «ha un che di ridicolo, perché conosco il ragazzo e ha la cittadinanza italiana: è italianissimo, forse più di chi l’ha offeso».

Un lupo e un agnello, erano giunti al medesimo ruscello spinti dalla sete; il lupo era superiore (in un luogo più alto) l’agnello di gran lunga in basso. Allora il lupo, sollecitato dalla sua insaziabile fame, suscitò un pretesto per litigare. «Perché», disse, «mi hai reso torbida l’acqua che bevevo?». L’agnello, timoroso, di rimando: «In che modo posso di grazia fare ciò che ti lamenti, lupo? L’acqua scorre da te alle mie labbra». Quello spinto dalla forza della verità: «Hai sparlato di me, sei mesi fa». L’agnello rispose: «In verità non ero nato». «Tuo padre, in verità, aveva sparlato di me». E così afferra l’agnello e lo sbrana per un’ingiusta morte. Questa favola è stata scritta per quegli uomini, che opprimono gli innocenti con finti pretesti.

Al posto del lupo mettiamo quel sospettoso e sbrigativo italiano e al posto dell’agnello quell’ingenuo e generoso ragazzino di colore. Provo a parafrasare la fiaba di Fedro alla luce dell’episodio di cronaca.

Un maturo cittadino di Torino e un quindicenne ragazzino di colore si incontrano in strada mentre il ragazzo soccorre una donna in difficoltà. Allora il primo, sollecitato dal suo pregiudizio razzista, cerca un pretesto per attaccare briga. «Perché», dice, «non lasci in pace quella donna, non vedi che sta male». Il ragazzo, timoroso, di rimando: «Ho visto questa donna svenire, l’ho presa al volo». Il torinese ribatte: «Stavi approfittando della situazione, vergognati!». Il ragazzo risponde: «Ho solo cercato di ricordare le nozioni di primo soccorso apprese alle scuole medie che ho frequentato». «Dovevi chiamare i soccorsi e non ti dovevi permettere di toccare quella donna!». «Ma io…ho agito in buona fede…». «Voi immigrati siete tutti uguali…». «Ma io veramente sono un cittadino italiano…». A quel punto l’italiano si ricorda di essere di pelle bianca e così afferra il ragazzino e gli grida: «Mulatto, spostati, tornatene al tuo paese! Non mi interessa niente dei tuoi diritti!». Questo episodio viene riportato e, in parte condito ad hoc, per tutti coloro che cercano finti pretesti per esprimere il loro vero razzismo.

 

 

 

I rutti di Rutte

Il Consiglio europeo straordinario riunito a Bruxelles per cercare un accordo sul prossimo bilancio comunitario e sul Recovery fund per fronteggiare la crisi pandemica si è rivelato un vero e proprio scontro tale da mettere in crisi la stessa sussistenza della Unione Europea. I principali fronti di scontro sono il volume e l’equilibrio tra sussidi e prestiti del Recovery fund, la governance degli aiuti e le correzioni al bilancio 2021-2027. L’Olanda non cede di un millimetro nel chiedere un voto all’unanimità dei leader europei sui piani di ripresa nazionali.

Rutte pretende che sia sufficiente il veto di un singolo Paese, proposta inaccettabile per l’Italia, “incompatibile con i trattati e impraticabile sul piano politico”. A stretto giro è arrivata la dura risposta olandese: l’impraticabilità del voto del Consiglio all’unanimità non “la beviamo”, questa “è una situazione eccezionale, che richiede una solidarietà eccezionale e per la quale si possono trovare soluzioni straordinarie”.

L’Olanda – capofila del fronte dei frugali che vede schierati anche Austria, Svezia e Danimarca – insiste appunto sul voto all’unanimità dei leader sui piani di ripresa nazionali. E di conseguenza sulla possibilità di bloccare con un veto l’erogazione di fondi ai Paesi che non facessero riforme secondo i desiderata dell’Aja. La proposta di mediazione arrivata venerdì scorso dal presidente del Consiglio Ue Michel è stata giudicata insufficiente: prevedeva che la Commissione conducesse una valutazione e il Consiglio la votasse a maggioranza qualificata (55% dei Paesi membri, cioè almeno 15 Paesi su 27, che devono rappresentare almeno il 65% della popolazione Ue). All’Aja non basta perché non si fida della neutralità della Commissione, che in passato avrebbe dato prova di usare “due pesi e due misure” nell’applicazione del patto di stabilità.

Quanto alle sovvenzioni a fondo perduto, “se vogliono che le concediamo invece dei prestiti, allora devono dare garanzie molto forti”, ha ribadito il premier Mark Rutte. Appoggiato dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz secondo cui “è cruciale” che gli aiuti siano usati per “riforme lungimiranti e non per progetti orientati al passato”. Ai nordici però sta a cuore anche e soprattutto che restino invariati o comunque siano fissati “a un livello sufficiente” gli “sconti” sui versamenti al bilancio Ue di cui hanno goduto finora.

Non so come finirà: probabilmente uno straccio di accordo lo troveranno. Abbiamo però forse toccato il fondo riguardo allo spirito di solidarietà. È l’Europa degli egoismi nazionali e del perseguimento dei propri interessi particolari. Il futuro europeo, a queste condizioni, lo vedo veramente fosco. I paesi cosiddetti frugali vogliono ridurre al minimo possibile il loro contributo al bilancio comunitario e, nello stesso tempo, pretendono un diritto di veto per la concessione degli aiuti ai vari stati europei ed un potere decisivo di controllo su come verranno utilizzati.

“Frugale” è colui che è moderato, semplice, parco nel mangiare e nel bere, colui che è amante della vita sobria e parsimoniosa. Avaro è chi, per un eccessivo attaccamento al denaro o un esagerato senso del risparmio, è estremamente restio a spendere, non solo per altri ma anche per sé, restio a fare, a dare, a concedere. Penso quindi si debba parlare non tanto del gruppo di “frugali”, ma del gruppo di “avari”.

Siamo arrivati al dunque europeo che dovrebbe chiamarsi solidarietà, ai fondamentali della Ue e alla regola d’oro di mio padre: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”. Dobbiamo innanzitutto avere atteggiamento autocritico per noi italiani che tendiamo a chiuderci nel nostro guscio, illudendoci di poter bastare a noi stessi: pura follia sovranista. Poi possiamo e dobbiamo anche stigmatizzare l’atteggiamento dei benestanti e benpensanti, una sorta di usurai in senso politico, che alzano l’asticella della condizionalità ad un punto tale da rendere impossibile ricorrere agli aiuti. Stiano molto attenti, perché anche per loro, prima o poi arriverà la necessità di essere aiutati e le loro mani chiuse non potranno ricevere gli aiuti. Un tempo, per concludere certi pessimistici e sconfortanti discorsi, si diceva: “Povera Italia!”. Oggi possiamo tranquillamente aggiungere: “Povera Europa!”.

 

 

Popolo di poeti e di…laureati in scienze informatiche

La mia ormai lontana esperienza scolastica e universitaria è stata improntata al criterio della rigida selezione. Il passaggio dalla scuola elementare alla scuola media fu segnato dall’esame di ammissione, l’esame più difficile di tutta la mia vita: un bambino di dieci anni, sottoposto a prove scritte e orali riguardanti italiano, storia, geografia e matematica, interrogato dai potenziali insegnanti della scuola d’accesso. Lo superai con fatica e ne uscii con gli abiti inzuppati di sudore come se fossi caduto in un laghetto. Si trattava della prima selezione a cui si era sottoposti: proseguire il percorso formativo normale o ripiegare sull’istruzione professionale.

Poi arrivò la difficile scelta della scuola media superiore. Per me la selezione avvenne in base alle possibilità economiche della mia famiglia, che non erano tali da consentirmi e garantirmi una lunga carriere scolastica, classica o scientifica che fosse, e allora studiai per diventare ragioniere, non per virtù, ma per necessità. Erano tempi in cui un diploma scolastico aveva un certo valore e dava prospettive occupazionali abbastanza concrete e quindi mio padre mi consigliò (sic!) di “prendere in fretta un pezzo di carta”, che mi desse il più alla svelta la possibilità di lavorare.

Mi diplomai a pieni voti e, siccome l’appetito vien mangiando, ebbi l’ardire di tentare di proseguire gli studi all’università iniziando contemporaneamente a lavorare (le possibilità non mancavano). Per quanto concerne l’università allora esisteva un vero e proprio blocco: ci si poteva iscrivere solo a certe facoltà strettamente in linea col titolo di studio. Per me, ragioniere, la strada era quasi obbligata: economia e commercio a Parma, sociologia a Trento, lingue orientali a Verona. Ho frequentato economia a Parma ed è stato un bene, perché se avessi scelto sociologia a Trento, con la sensibilità sociale che mi ritrovavo, avrei potuto anche diventare un brigatista rosso (fu quella infatti la culla culturale del brigatismo), mentre a quei tempi le lingue orientali erano poco più di un miraggio.

Mi laureai a tempo di record, rinunciando all’abbinamento studio lavoro che mi si rivelò ben presto  impraticabile. Una volta laureato, ho provato la via dell’insegnamento universitario (assistente: ma capii subito che non c’era niente da fare) e valutato la strada dell’insegnamento nelle scuole medie inferiori e superiori (ragioneria, tecnica commerciale, diritto ed economia, matematica), che si rivelò troppo lunga. La mia famiglia non poteva attendere ulteriormente e io dovevo cominciare a lavorare rendendomi autonomo. Mi capitò, quasi per caso e grazie ad alcuni amici, un posto di lavoro nel mondo cooperativo, che allora non conoscevo, e lo accettai (fu decisivo il consiglio di un mio carissimo compagno di studi, che mi orientò, senza giri di parole, ad accettare). Strada facendo, pur tra difficoltà e titubanze, si rivelò, per certi versi, la scelta giusta da tutti i punti di vista: un percorso professionale un po’ distante rispetto alle aspettative di studio, ma interessante e stimolante.

Ho voluto fare questa digressione per il gusto, tipico degli anziani, di parlare del passato, ma anche per sottolineare come i criteri siano radicalmente cambiati, le selezioni totalmente e velleitariamente eliminate e, se non eliminate, introdotte in modo assurdo a livello di settimana enigmistica o poco più. Al di là di tutto bisogna considerare come la vita sia strana e riservi sorprese, che vanno al di là delle nostre pur giuste aspirazioni e convinzioni. Mia sorella condensava questa filosofia in una battuta dialettale: “as fa cme as pol e miga cme as vol” (si fa come si può e non come si vuole). E magari, strada facendo, si scopre, che è stato meglio così…

Quindi, se il mondo del lavoro offre sbocchi occupazionali per i laureati in materie tecnico-scientifiche bisogna pur tenerne conto, rinunciando magari alle prospettive di prima scelta. Stando ai dati statistici, il 23% delle aziende italiane cerca laureati in scienze e ingegneria e non li trova perché gli studenti scelgono altri ambiti. Nelle decisioni di livello universitario si dovrebbe quindi tenere conto dei tassi di occupazione offerti dai diversi indirizzi di studio. Sarebbe teoricamente bello e giusto che ognuno potesse scegliere la propria strada senza condizionamenti di carattere socio-economico, ma bisogna stare coi piedi in terra, fare bagni di sano realismo, iscriversi alle facoltà che possono offrire maggiori possibilità a livello professionale.

È inutile inflazionare gli studi classici, quando il mondo del lavoro chiede ingegneri e tecnici informatici. Non ho idea di come si possa perseguire concretamente la tendenza all’incontro fra opzioni studentesche, programmi universitari ed esigenze dell’economia. Si parla di piani mirati…Forse il primo e più importante piano mirato ognuno se lo deve elaborare personalmente, abbinando la voglia di studiare con quella di lavorare, senza raffreddare i sacrosanti entusiasmi giovanili, ma coniugandoli col realismo della necessità di lavorare.   Questo discorso vale per i singoli, per le famiglie, per le aziende, per l’intera società che non può assistere imperterrita alla pericolosissima fiera della disoccupazione.

Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, o meglio: popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori. È la parte rimasta più famosa di un discorso che Benito Mussolini pronunciò il 2 ottobre 1935 contro la condanna all’Italia, da parte delle Nazioni Unite, per l’aggressione all’Abissinia. Questa stessa citazione campeggia sulle quattro facciate del Palazzo della Civiltà Italiana, o della Civiltà del Lavoro, uno splendido edificio che si trova a Roma nel quartiere dell’EUR. Lungi dalla vomitevole  retorica di stampo fascista, non sia mai che ci si trasformi in un popolo di ingegneri e di esperti informatici, ma trovare una giusta via di mezzo sarà più necessario che opportuno.

 

Su le mascherine!

Non era ancora scattato l’obbligo e già si discuteva sul dove e come comprarle. Le si dovevano indossare e non si sapeva se effettivamente avessero qualche efficacia protettiva. Quando finalmente si è riusciti ad averne la facile disponibilità, dopo un periodo di speculazioni e di prezzi diversificati, si è cominciato il conto alla rovescia per dismetterle. Le regioni si stanno sbizzarrendo a varare regole particolari creando un ginepraio in cui non è facile districarsi. Ci sono luoghi chiusi, ma molto spaziosi in cui è obbligatorio indossarle, ci sono luoghi aperti ma piuttosto stretti e vocati all’ammassamento delle persone in cui non è obbligatorio metterle.

I guanti hanno fatto il loro tempo, sono diventati addirittura pericolosi, meglio sanificarsi continuamente le mani fino a spellarsele. Le mascherine invece tengono botta: sembrano l’ultima barriera difensiva contro il covid 19, salvo fare una confusione pazzesca a livello di obbligo. Un mio sarcastico collega, di fronte alle varie confusioni normative, sosteneva che erano scientificamente volute e create per poi poter sanzionare la gente e incassare soldi a livello di multe. Non arrivo a tanto pregiudizio, ma qualche domanda uno se la fa. Forse le regioni dopo aver fatto a gara fra di loro per essere le più rigorose e restrittive, adesso giocano a fare le più permissive in un’escalation di riaperture al limite del ridicolo.

In questi giorni si è posto il problema se rinnovare o meno lo stato di emergenza: il governo vorrebbe fare di testa sua, il parlamento rivendica voce in capitolo, le regioni, come detto, marciano in ordine sparso. Non ci si capisce un cavolo. Temo che possa finire all’italiana, in una colossale, tacita e penosa situazione in cui tutti se ne fregano nonostante gli indici tutt’altro che tranquillizzanti e nonostante la situazione internazionale induca a molta prudenza. Se a Parma non ci sono decessi, non posso illudermi perché dietro l’angolo c’è la Lombardia in cui la situazione non è affatto incoraggiante, ma soprattutto perché la mondializzazione della vita non ci consente distrazioni nazionalistiche e men che meno regionalistiche o addirittura campanilistiche.

Adesso abbiamo oltre tutto la possibilità di gridare all’untore immigrato: una ragione in più per chiudere i porti e gli accessi ai poveri diavoli, mentre magari il coronavirus ci arriva più dai voli intercontinentali in classe di lusso che dai barconi che tentano di attraccare sulle nostre coste. Più andiamo avanti e più brancoliamo nel buio: mi immagino il casino che scoppierà in vista della prossima vaccinazione antiinfluenzale di massa e della possibilità di operare la vaccinazione anti-coronavirus senza sperimentazione alcuna.

La situazione è molto complessa, ma l’impressione, fin dall’inizio dell’emergenza, è che forse la stiamo ulteriormente incasinando con i nostri assurdi tira e molla. Dei malati e dei morti non parla più nessuno, ora si parla di ferie distanziate, di disoccupati ammassati e di soldi in arrivo da investire. Si fa l’abitudine a tutto, anche a morire. Ognuno fa quel cazzo che vuole e chi vivrà vedrà. Nel frattempo divertiamoci con il carnevale delle mascherine. Ai tempi del fascismo mi sembra fosse vietato andare in maschera, forse perché il regime temeva la concorrenza a livello carnevalesco. Oggi, fatte le debite e confuse eccezioni, è amaramente obbligatorio mascherarsi, forse per coprire la vergogna di avere fatto cattivo uso della libertà.

Come si legge sul sito “Adige.it”, le mascherine sono diventate il nuovo modo per essere “di tendenza”. C’è chi è attratto da quella con il disegno delle zanne, ma poi guarda quell’altra con l’arcobaleno e lo slogan ormai inflazionato: “Tutto andrà bene”. Sono comparse mascherine sui siti di moda, sui più noti portali di shopping, nelle home page delle tipografie online. Il gadget del momento. C’è perfino chi propone mascherine personalizzate con le proprie iniziali o un’immagine scelta dall’acquirente. Tutte rigorosamente lavabili, anche se – specificano le varie pubblicità – non si tratta di dispositivi medici. La nostra società metabolizza tutto. Sembra trascorsa una vita da quando eravamo chiusi in casa: oggi usciamo, andiamo in vacanza, socializziamo liberamente. Basta mettersi la mascherina. Non passerà molto tempo che anche le mascherine andranno in cavalleria anche se i virus continueranno a marciare contro di noi.

 

L’ossimoro istituzionale

Secondo Massimo Cacciari, in autunno la situazione sociale ed economica sarà drammatica con pericoli per l’ordine sociale. Per stare a galla, il governo dovrà coprirsi dietro il pericolo della pandemia e tenere le redini in qualche modo. Una “dittatura democratica sarà inevitabile”.

Molto simile a questa piccante analisi, quella di Carlo De Benedetti, secondo il quale è la disuguaglianza il punto a cui si possono far risalire i principali difetti della nostra realtà. De Benedetti la vede come causa scatenante del malcontento destinato ad esplodere nel prossimo autunno, che, a suo dire, verrà calmato con mance e polizia, vale a dire con un po’ di ordine pubblico e un po’ di regali.

Il discorso, seppure in via chiaramente provocatoria e previsionale di (troppo) larga massima, si fa pesante e, per certi versi, preoccupante.

L’ossimoro è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. Con l’espressione “dittatura democratica”, usata da Cacciari e che fa parte indubbiamente di questa categoria, faccio qualche fatica a capire cosa si intenda. Così come mi mette in difficoltà di comprensione il discorso di “mance e polizia”, fatto da De Benedetti. Considerato il livello culturale di questi personaggi, pur tenendo conto di una loro propensione a stupire l’uditorio, pur condividendo le preoccupazioni per un futuro politico che si preannuncia drammatico, non vorrei che si finisse col giocare a parlare di corda in casa dell’impiccato o, se volete, a spargere sale sulle evidenti ferite.

Mi sembra di intuire che la sostanza sia una notevole sfiducia nella capacità dell’attuale classe politica e dell’attuale compagine governativa ad elaborare un vero e proprio piano per uscire dall’emergenza continua. Non ci si può aspettare altro che di vivacchiare, di smorzare le proteste, di scolmare la pentola? Due importanti chirurghi di mia conoscenza facevano due affermazioni sconcertanti nella loro ironica brutalità. Uno affermava di non avere trovato alcuna traccia dell’anima durante i tanti interventi eseguiti. L’altro, per curare il raffreddore, consigliava di fare una buona scorta di fazzoletti.

Seguendo le tracce di questi luminari della chirurgia, si vuole forse dire che l’anima della politica non esiste più e bisogna ripiegare sulla cura pragmatica del corpo sociale martoriato? Si vuole forse prendere atto che le emorragie di lacrime e di sangue non potranno essere evitate, ma soltanto limitate con i pannicelli delle grida governative, delle rassicurazioni poliziesche e delle regalie di stampo mafioso?

Prima di arrivare a questi punti di sfiducia forse ci sarebbe qualcosa da fare. Rimanendo nell’ambito della medicina, il mio valoroso ed encomiabile medico di base affermava che “non c’è mai niente da fare” ossia che, anche per la più grave delle malattie, c’è sempre qualcosa da fare o almeno da tentare. Andrei quindi adagio con le diagnosi catastrofiche e con le previsioni tragiche. La dittatura democratica mettiamola nella cantina degli ossimori, lo stile politico del cerchiobottismo lasciamolo perdere. Cerchiamo di essere seriamente provocatori e non provocatoriamente cervellotici.

Se è vero, come è vero, che la provocazione consiste in un atto diretto a sollecitare una reazione irritata o violenta, di violenza e di irritazione ne abbiamo anche troppa. Non chiedo atteggiamenti bonari, concilianti e tranquillizzanti, perché non servono. Sarebbe come dire di stare calmo a uno che è incazzatissimo: si arrabbierebbe ancora di più. Però, essere un tantino più (pro)positivi e un tantino meno distruttivi non farebbe male. Pur con tutto il rispetto per il professor Cacciari, per l’ingegner De Benedetti e con tutto lo scetticismo possibile e immaginabile per il premier Giuseppe Conte e il suo governo giallo-rosso.

 

 

 

Pagnoncelli al Var

Hanno voluto, insistentemente e per scontati motivi di cassetta, riprendere e portare in fondo il campionato di calcio, salvo poi continuare a dire che è falsato dalla ristrettezza dei tempi, dalla mancanza di pubblico, dagli arbitri che hanno venduto il cervello al Var. Sono ragionamenti che consacrano, se ce n’era ancora bisogno, la fine del calcio come sport e l’approdo definitivo al mondo dell’avanspettacolo.

Infatti di cosa si sta parlando? Dei futuri assetti societari di parecchie squadre, del balletto dei giocatori e degli allenatori in vista del prossimo campionato, quello vero e ritornato alla normalità (?). Nella famosa opera lirica Madama Butterfly, Pinkerton, ufficiale della marina degli Stati Uniti, sposa, quasi per scherzo, una giapponesina e, prima di convolare a queste nozze, brinda, con il console americano, peraltro piuttosto perplesso, pensando apertamente al giorno in cui si sposerà a una vera sposa americana. Sappiamo tutti come andò a finire. Non vorrei che anche il calcio finisse con un harakiri dello sport e una sopravvivenza degli affari.

Ma è un’altra la similitudine che ho in testa. La politica considera l’emergenza coronavirus come un fatto provvisorio, da vivere con la testa rivolta al futuro, quando finalmente si potrà tornare alla vera politica ed ai suoi equilibrismi partitici. Speriamo che non finisca come in Butterfly, vale a dire con un suicidio della politica a favore dei politicanti più o meno di turno. I tempi sono stati scombussolati, l’elettorato è distratto dalla paura e dalla voglia di esorcizzarla, i politici hanno venduto il cervello alla scienza. Di cosa si sta parlando? Delle prossime elezioni! Quelle imminenti di carattere regionale in cui tutti si preparano a giocare in vista del vero campionato delle elezioni politiche, con l’intermezzo o l’epilogo dell’elezione del nuovo Capo dello Stato.

I partiti, come le società calcistiche, stanno cercando gli assetti per il futuro: le pedine sono in movimento, le dirigenze in fibrillazione, le alleanze tutte da scoprire. Stando ai sondaggi ed alle proiezioni diramati da Nando Pagnoncelli, oggi il centrodestra vincerebbe le elezioni. Ma con il proporzionale sarebbe decisiva Forza Italia. Con l’attuale sistema elettorale, il Rosatellum, la coalizione staccherebbe Pd e M5S. Qualora si passasse ad un sistema elettorale proporzionale, ad esempio il Germanicum, il partito di Berlusconi sarebbe l’ago della bilancia. Con la soglia del 3% Calenda entrerebbe in Parlamento, Renzi no.

Non è il caso di dilungarmi sulle varie ipotesi elaborate da Pagnoncelli. La morale della favola è quella dell’opera Carmen, laddove la protagonista si fa le carte e, comunque le rigiri, viene sempre fuori la morte. Possono cambiare i sistemi elettorali, ma vince sempre il centro-destra, più o meno berlusconi-dipendente.

Ma come sarà il campionato nella realtà? Il pubblico tornerà negli stadi? Ci sarà il tempo per preparare adeguatamente le partite? I politici ragioneranno col buon senso o in base alle cifre dei sondaggi e/o a quelle degli andamenti della pandemia? Oggi sono in vena di azzardate citazioni teatrali e quindi non mi resterebbe che concludere con la battuta finale de “I pagliacci” di Ruggero Leoncavallo: “La commedia è finita!”. Sul più bello però rientra in gioco Luigi Pirandello, che riapre i discorsi alla sua maniera e butta lì una sua opera incentrata su un tema molto caro a lui: l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli altri: “Così è (se vi pare)”.

 

La leghista Susanna Tuttapanna

La candidata della Lega alle prossime elezioni regionali in Toscana, Susanna Ceccardi, parla di fascismo e antifascismo con nonchalance. Anzi, arriva a dire che secondo lei, semplicemente, oggi essere antifascisti non ha più senso. Ceccardi risponde a un’intervista a Repubblica Firenze e la domanda che le viene rivolta è diretta: “Lei è antifascista?”. La replica, però, non è altrettanto diretta. “Io sono anti-ideologica – afferma la candidata leghista –. E vengo anche io da una storia rossa: ho una famiglia di tradizione di sinistra, il fratello di mio nonno era un partigiano e fu ucciso dai fascisti. Non sono né fascista né antifascista, aveva un senso la domanda allora, nel 1944. Oggi è troppo facile dirsi antifascisti con un nemico che non esiste. Sono dalla parte dei temi”.

Quando si tocca questo tasto non riesco a trattenermi e magari rischio anche di ripetermi. Non voglio restare ancorato ai bei tempi in cui ero modestamente impegnato in politica e, quando si stilava un documento, non mancava quasi mai un accenno alla scelta antifascista: “democratico ed antifascista” era un virtuoso ritornello, che segnava inequivocabilmente il territorio su cui si camminava e si operava politicamente. A me non è mai venuto in mente che fosse una proposizione stucchevole, anzi la consideravo come un distintivo da esibire con orgoglio e impegno. Certo, non bastava a qualificare un programma o un progetto, ma ne era un presupposto essenziale e indispensabile.

“In generale, per fascismo si intende un sistema di dominazione autoritario caratterizzato: dal monopolio della rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa gerarchicamente organizzato; da una ideologia fondata sul culto del capo, sull’esaltazione della collettività nazionale e sul disprezzo dei valori dell’individualismo liberale, sull’ideale della collaborazione tra le classi, in contrapposizione frontale al socialismo e al comunismo, nell’ambito di un ordinamento di tipo corporativo; da obiettivi di espansione imperialistica perseguiti in nome della lotta delle nazioni povere contro le potenze plutocratiche; dalla mobilitazione delle masse e dal loro inquadramento in organizzazioni miranti a una socializzazione politica pianificata funzionale al regime; dall’annientamento delle opposizioni attraverso l’uso della violenza terroristica; da una apparato di propaganda fondato sul controllo delle informazioni e dei mezzi di comunicazione di massa; da un accresciuto dirigismo statale nell’ambito di un’economia che rimane fondamentalmente privatistica; dal tentativo di integrare nelle strutture di controllo del partito o dello Stato secondo una logica totalitaria l’insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali”.

Non necessariamente questi ingredienti devono essere tutti presenti in un sistema politico, ne bastano alcuni, forse anche uno solo, per far scattare l’allarme. Consiglierei pertanto a Susanna Ceccardi di fare un’attenta e scrupolosa analisi delle politiche portate avanti dalla Lega, suo partito di appartenenza, per verificare se non ci sia qualche caratteristica di cui sopra. Non pretendo una seconda guerra partigiana, ma, siccome afferma di essere dalla parte dei temi, provi a passarli in rassegna e probabilmente troverà qualche sgradevole sorpresa (almeno per me).

L’antifascismo dovrebbe essere parte integrante e fondamentale della vita di una persona, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), democrazia (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare, anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

Rabbrividisco apprendendo come si possa provenire da una famiglia antifascista per poi sorvolare bellamente sul discorso. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza? D’altra parte era nato e vissuto in oltretorrente (come del resto anch’io e  me ne vanto): “l’oltretorrente, il rione dove ho respirato la politica fin da bambino, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà”.

Termino con una frase emblematica di don Andrea Gallo: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Aggiungo di mio: respingo certe rimozioni storiche, certe equidistanze politiche, certi anti-ideologismi di comodo, pretendo che chi si candida a ricoprire incarichi politici faccia espressa professione di fede antifascista e rinunci aprioristicamente ad ogni e qualsiasi indulgenza, diretta o indiretta, verso il fascismo. Non ce ne sarebbe bisogno, ma aggiungo, a scanso di equivoci, che, se fossi un elettore toscano, non voterei per Susanna Ceccardi.

 

 

 

 

Siamo europei o caporali?

“Non un centesimo per gli italiani”. È il cartello con cui il parlamentare d’opposizione olandese, Geert Wilders, leader del Partito per la libertà e alleato di Matteo Salvini in Europa, ha accolto il premier Conte, in visita da Mark Rutte. La contestazione è andata in scena davanti al Palazzo Binnenhof, sede del bilaterale Italia-Olanda. “Se sono questi gli alleati di Salvini la Lega cambi slogan: “Prima gli olandesi!” ha commentato il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Zingaretti ha condiviso la foto di Wilders insieme a Salvini, con la scritta: “Ecco chi sono i suoi alleati”.

Non mi interessa in sé e per sé la polemichetta contro Salvini: non aspetta altro per mantenere viva la sua immagine mediatica. Il fatto mi sollecita invece una riflessione un po’più profonda. Siamo o non siamo in grado di ragionare di politica in termini europei? Parecchi anni fa un mio amico non si faceva scrupolo di tifare, calcisticamente parlando, per il Real Madrid. A chi se ne stupiva rispondeva per le rime: non siamo in Europa e allora…

La metafora calcistica è pertinente in quanto il nostro atteggiamento verso la Ue è più o meno quello di un tifoso, che accetta la partita, ma vuole a tutti i costi che la sua squadra nazionale vinca o, a volte, desidera ancor più ardentemente che perda soprattutto il suo antipatico competitor.

Le istituzioni europee dovrebbero aiutare a superare queste assurde ed anacronistiche contrapposizioni, invece purtroppo le ripropongono alla grande. Il Parlamento europeo dovrebbe essere la stanza di decantazione di questi sentimenti nazionalistici: i gruppi dovrebbero costituirsi ed operare in chiave politico-programmatica avendo a riferimento l’intero contesto europeo. Non succede e i rapporti finiscono nell’intersecazione dei fili della conflittualità politica (popolari, socialisti, verdi, liberali, etc.) con quelli della geo-politica (europeisti, euroscettici, nazionalisti, sovranisti, etc.).

Poi naturalmente arrivano i cortocircuiti: gente che a casa propria si allea in un certo modo, diverso da quello adottato in sede europea; gente che si ritrova come avversario il potenziale alleato (quando c’è da dare addosso all’Europa, si può andare d’amore e d’accordo, quando si parla di soldi, il discorso cambia e le alleanze saltano come birilli).

Ricordo un paradossale episodio capitatomi in una sede politica. Partecipavo ad un convegno e, seduto accanto a me, c’era un amico piuttosto insofferente e polemico, che mi manifestava la sua contrarietà rispetto alle tesi che venivano esposte dai relatori. Lo spinsi ad intervenire nel dibattito e a perorare con veemenza le sue cause, che pensavo, tutto sommato, fossero anche le mie. Prese la parola, andò sul palco e cominciò una requisitoria pazzesca contro tutto e tutti. All’inizio ero assai divertito e orgoglioso di aver innescato la polemica, ma ad un certo punto la valanga mi venne addosso al punto che mi ritrovai in piedi, rosso in viso, a contestare apertamente e violentemente il mio alleato, il quale mi guardava, non capiva cosa stesse succedendo e si ritrovava isolato a sparare le sue cartucce.

Ho la netta impressione che a livello europeo sia in atto un vero e proprio gioco delle parti, che ha ben poco da spartire con la politica e finisce col cristallizzare certi rapporti di forza in netta controtendenza rispetto ai processi di integrazione. In troppi parlano, in senso politico, due lingue e finiscono col non capirsi in mezzo al conseguente casino. Quando si elegge il Parlamento europeo si resta ancorati ai criteri di scelta di carattere nazionale. Non faccio per vantarmi, ma per più volte ho tentato di liberarmi da questi lacci nazionalistici. Una volta ho votato un missionario cattolico candidato nelle liste di “democrazia proletaria”, pensando che almeno avrebbe reagito in modo forte al clima affaristico della Ue. Altre volte ho votato i Verdi, l’unico partito veramente europeista, orientato su un concetto di Europa pulito da tutti i punti di vista. Ho lasciato perdere gli schemi tradizionali, che, come diceva mia sorella, a livello europeo servono a coprire una sostanziale e generalizzata conservazione o addirittura un’opzione pseudo-fascista.