Una piccola grande presa per…i fondelli

Un giorno un mio conoscente piuttosto intelligente e attento alle cose della politica mi chiese provocatoriamente: “Secondo te è più qualunquista l’uomo della strada che si scandalizza delle porcherie dei politici o il politico che fa le porcherie?”. Non mi iscrivo al partito dei qualunquisti, che oggi si fa chiamare partito dell’antipolitica, ma se la politica si desse una regolatina non sarebbe male.

Cinque parlamentari, nonostante usufruissero dell’indennità da deputati, hanno chiesto e ottenuto il bonus per le partite iva previsto dalle misure anti covid 19, in quanto evidentemente svolgono a tempo perso un’attività di lavoro autonomo. Non è questione di quantum: non saranno certo questi pochi soldi a mettere in crisi le casse dello Stato. È questione di dignità e onestà di fronte ai cittadini, oltre tutto in un momento drammatico: una vera e propria presa in giro per i tanti soggetti che stanno soffrendo le conseguenze della pandemia, un perfetto assist a chi vuole screditare le istituzioni con badilate di fango.

Un Parlamento, dove succedono queste cose e purtroppo anche di peggio, può essere tranquillamente ribattezzato “pirlamento”, come ho sentito dire a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora. Mi chiedo se un rappresentante del popolo possa scendere a questi livelli. Non mi interessa il partito di provenienza. Questi signori dovrebbero avere il buongusto di rimettere il loro mandato e tornarsene alle loro partite iva. Non voglio assolutamente generalizzare: sono sicuro che in Parlamento siedano fior di galantuomini, ma proprio per questo le mele marce vanno rapidamente eliminate. Oltre tutto si tratta di una furbata veramente meschina: compromettere la propria dignità e quella del Parlamento per una simile sciocchezza. Gente che probabilmente non sapeva fare il proprio mestiere, che non sa cosa voglia dire essere un deputato, che, diciamolo pure, non sa nemmeno rubare e si fa miseramente scoprire con le dita nella marmellata. Che pena!

Qualcuno troverà in questo episodio un motivo ulteriore per ridurre il numero dei parlamentari, per abbassarne la retribuzione, per ridurre all’osso la rappresentanza e la partecipazione democratica vista brutalmente solo come un male necessario. Non sono per niente d’accordo, anche se mi chiedo chi abbia mandato in Parlamento questi bambini scemi a divertirsi assai poco innocuamente.

Mio padre raccontava un fatterello, che non ho mai capito se fosse un aneddoto di sua invenzione o un episodio veramente accaduto: a un arbitro, che stava svolgendo il suo compito in modo vergognoso, si avvicinò un giocatore e gli chiese: “Scusi lei è venuto qui di sua esclusiva iniziativa o è stato inviato qui dall’autorità federale competente?”. Una offesa elegante ma pazzesca, che costò una squalifica pesantissima al calciatore in vena di provocazione. Verrebbe spontaneo indirizzare una domanda simile ai deputati di cui sopra: qualcuno li avrà pur candidati e votati…Il discorso a questo punto si farebbe molto complesso e lo lascio immaginare.

Mi limito a ricordare un altro episodio, quello di un funzionario pubblico così incapace e confusionario da meritare una reprimenda, da parte del suo superiore, al massimo dell’umiliazione possibile: “Lei d’ora in poi non faccia niente, legga, pensi ai fatti suoi e, se proprio non sa come trascorrere il tempo in ufficio, dorma”. Non ho idea di quale provvedimento disciplinare siano passibili i furbetti del bonus, ma, se fossi il presidente della Camera dei deputati, appurata inequivocabilmente la realtà dei fatti, non mi accontenterei di scuse, di restituzioni del maltolto, di spiegazioni impossibili, insisterei per le dimissioni. Per il loro bene, ma anche per il nostro. Questa volta mi esprimo da intransigente giustizialista: sì, perché, scusatemi, ma mi sento preso per il … .

Troppi stregoni a caccia delle streghe

Credo di essere stato facile profeta nel prevedere, nei giorni scorsi, che la desecretazione dei verbali del comitato tecnico scientifico sull’emergenza covid 19 non avrebbe fornito utili elementi, ma avrebbe creato solo ulteriore confusione, sollevando il solito polverone di polemiche strumentali. Da questi verbali appare che il comitato aveva consigliato in data 03 marzo di istituire una ulteriore zona rossa nei comuni lombardi di Alzano e Nembro, parere disatteso dal Governo nel senso che si preferì dopo tre giorni imporre il lockdown in tutta la Lombardia, per poi estendere la chiusura il 09 marzo a tutta l’Italia in contrasto con il suddetto Comitato che consigliava chiusure articolate e diversificate per regione.

Pur non essendo un ammiratore ante litteram di Giuseppe Conte e del suo strano e zoppicante governo, mi sforzo di essere obiettivo e di valutare, come mi ha insegnato mio padre, i pro e i contro. Innanzitutto bisogna riportare indietro il calendario a quei drammatici giorni in cui era oltre modo difficile capire la situazione e decidere il da farsi. Del senno di poi son piene le fosse e probabilmente lo stesso Conte, se potesse tornare indietro, eviterebbe certi errori commessi.

In secondo luogo gli organismi scientifici non erano e non sono depositari di assolute verità: lo hanno dimostrato ampiamente snocciolando contraddizioni in un tira e molla spesso poco dignitoso e molto clamoroso.  Se, da una parte, Conte si rimette al pensiero forte degli scienziati, lo si accusa di debolezza, di appiattimento e di declinamento delle proprie responsabilità; se, dall’altra parte, decide in parziale dissenso con i pareri fornitigli, lo si accusa di assurda muscolarità, di fastidiosa presunzione e di petulante preoccupazione mediatica.

In terzo luogo bisogna chiedersi come avrebbe reagito la pubblica opinione davanti a immediati drastici provvedimenti, allorquando non esisteva nella gente e forse nemmeno nelle forze politiche e nelle cosiddette forze intermedie una seria consapevolezza della gravità della situazione e c’era ancora chi sosteneva che si trattasse di una mera, seppur grave, influenza. Non dimentichiamoci infatti che un certo qual negazionismo, anche a livello scientifico, c’era e c’è tuttora. Chi governa deve valutare anche l’impatto psicologico, sociale ed economico dei provvedimenti in via di emanazione.

In quarto luogo mi pare che il comportamento del governo sia, tutto sommato, riconducibile ad una, per certi versi coerente seppure discutibile, scelta di fondo: nei limiti del possibile adottare misure di carattere generale per semplificare e armonizzare le regole, agevolarne il rispetto e ottenerne il massimo effetto. È meglio entrare a gamba tesa rischiando di far male ai cittadini, creando ulteriore panico, oppure è meglio non fare falli ed aspettare un attimo, rischiando di compromettere l’esito della partita? Non ho una risposta.  È pur vero che il medico pietoso fa la piaga puzzolente, ma è altrettanto vero che il medico precipitoso può sbagliare diagnosi e terapia. Capisco l’ansia di ottenere giustizia da parte dei famigliari delle vittime, ma non si può cercare a tutti i costi un capro espiatorio su cui scaricare le colpe. Il discorso vale a tutti i livelli e in tutti i sensi.

Quanto a coerenza e linearità nei comportamenti, chi è senza peccato scagli la prima pietra: tutti abbiamo brancolato e stiamo ancora brancolando nel buio, scienziati compresi. Al buio è molto difficile scegliere e magari nel giro di qualche giorno la situazione cambia, mutano gli umori, e le decisioni adottate, pur in buona fede, si rivelano sbagliate, mentre quelle riconducibili alla demagogia hanno il vantaggio (?) di essere per loro natura volubili e camaleontiche.

In conclusione, si poteva governare meglio l’emergenza pandemica? Certamente sì. Però stiamo attenti ad evitare metodi sbrigativi ed illusori. La caccia alle streghe è storicamente la ricerca di persone (quasi sempre donne definite streghe) o di prove di stregoneria, spesso legate a superstizione o isteria di massa. Metaforicamente con questa espressione si intende un’indagine pubblica condotta per scoprire supposti e gravi errori. Non ripetiamo tragici errori del passato anche recente: non aggiungiamo al danno enorme della malattia la beffa infinita della ricerca dei colpevoli ad ogni costo.

 

 

La pillola va giù, ma i drammi tornano su

“L’aborto farmacologico è sicuro. Va fatto in day hospital, nelle strutture pubbliche e private convenzionate, e le donne possono tornare a casa mezz’ora dopo aver assunto il medicinale”. La novità è nelle nuove linee d’indirizzo per l’interruzione volontaria di gravidanza che verranno emanate dal ministero della Salute. Pagine elaborate dopo che il ministro Roberto Speranza ha ricevuto il parere del Consiglio superiore di sanità. Non è più necessaria la spedalizzazione che comprometteva l’impostazione e la finalità sdrammatizzante dell’aborto farmacologico.

Stiamo pur sempre parlando di pannicelli caldi per l’aborto, un problema delicatissimo, che però va affrontato senza riserve mentali ed ipocrisie frenanti o enfatizzanti. Non accetto l’atteggiamento di chi si attesta sull’ultima spiaggia del rendere ripida la salita verso l’interruzione di gravidanza, ma non accetto nemmeno che l’aborto possa essere una bandiera da sventolare nella battaglia sui diritti della donna. Parliamo comunque sempre di una scelta minimalista da non ideologizzare né a favore né contro.

L’aborto non è un diritto in assoluto, è un diritto di ripiego, è la presa d’atto di una sconfitta individuale e collettiva. Sono d’accordo che sia meglio un’amara sconfitta di una vittoria imposta, ma non c’è niente di cui gioire e rallegrarsi. Le battaglie etiche e sociali andrebbero fatte prima: è inutile intestardirsi a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati così come è goliardico festeggiare la chiusura della stalla vuota.

Non mi sento di colpevolizzare la donna che decide di interrompere la sua gravidanza: è una decisione che rispetto, ma mi chiedo se un po’ tutti (dal suo partner alle strutture socio-assistenziali, da chi può rimuovere i condizionamenti economici a chi può educare ad una maternità responsabile, etc. etc..) abbiano aiutato la donna a prendere questa decisione in modo consapevole e costruttivo e se tutti cerchino di aiutarla prima e dopo la decisione. Sì, perché anche il dopo-aborto è pur sempre un dramma che la donna vive spesso in assoluta solitudine umana, psicologica, etica e religiosa.

Riprendo quanto scrissi in passato sull’argomento: una sofferta ma doverosa ripetizione. Alcuni anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi, all’entrata, in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione?

Diceva don Andrea Gallo (cito a senso): «Con una ragazza incinta, sola, magari una giovane prostituta, cerco di portare avanti il discorso del rispetto della vita, faccio tutto il possibile, ma se lei non se la sente, se non riesce ad accettare questa gravidanza, cosa devo fare?».

Provocatori interrogativi rimasti nella mia immaginazione. È comodo scendere in piazza ad inneggiare al diritto di abortire, è comodo pregare per o addirittura contro…, è facile mettere a posto la coscienza snocciolando una cinquantina di avemaria e…chi ha il problema si arrangi…, è facile obiettare lasciando la patata bollente in mani altrui, è illusorio pensare di risolvere i problemi a valle mentre a monte si creano i presupposti del dramma umano, è inutile e pericoloso aggrapparsi al proibizionismo per nascondere le magagne di una società permissiva, è altrettanto inutile pensare di far quadrare i conti della persona e della società con un permissivismo spinto fino alle estreme conseguenze. Tra proibizionismo e permissivismo c’è l’area dell’interventismo positivo a tutti i livelli e in tutti i sensi.

Di fronte a questo problema vado in crisi di coscienza e mi interrogo prima di sputare sentenze. L’aborto è certamente una scelta drammatica. Mi oppongo strenuamente alla vomitevole, bigotta e spietata colpevolizzazione della donna che, certamente in modo sofferto, decida in tal senso e non accetto per nessun motivo di accusarla, né sul piano civile, né sul piano etico, né a livello religioso. Lei, sì, farà i conti con la sua coscienza e chissà quanta sofferenza ne ricaverà. Semmai bisognerebbe sforzarsi di essere più vicini alla donna in procinto di assumere decisioni così delicate e anche dopo che le abbia assunte. Persino la Chiesa, a livello istituzionale, sta assumendo qualche seppur tardivo e insufficiente   atteggiamento di comprensione. Abbandoniamo quindi ogni velleità e rispettiamo la coscienza di tutti, anche quella dello Stato laico.

Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Ilarion Capucci venne presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Cappucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiabortista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…». Con tutto il rispetto per l’allora papa credo che pregare sia importante, ma non basti.

 

I farisei alla riscossa

La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ‘creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle. “Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ‘A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale – riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede – è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità”. Ma l'”io”, che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: “segno-presenza dell’azione stessa di Cristo”. “Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione”, spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito “Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?”, la risposta del Vaticano è: “affermativamente”. “Negativamente” è la risposta che si dà al quesito principale: “È valido il Battesimo conferito con la formula: ‘Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?”.

In pratica i battesimi con la formula ‘noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica – secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano – potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ‘ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che “Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti”. Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: “Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato”.

Da uomo della strada, la prima reazione stupita a questa notizia, che ho riportato integralmente così come pubblicata dall’Ansa, è stata: in Vaticano hanno del tempo da perdere. Con tutti i problemi che ha il mondo e la Chiesa possibile che ci si perda in queste disquisizioni? Altro che beghe di frati!

La seconda reazione, da cattolico praticante, dopo un primo senso di incredulità, è una semplice domanda: pensiamo veramente che la potenza salvifica di Dio si lasci condizionare dalle parole di una formula, che non è magica, ma espressione di una volontà sostanziale? Se non è puro fariseismo questo? Consiglio a tutti di rileggere i brani evangelici in cui si narrano i formalismi (sciocchi e/o dettati dall’ansia di difendere il potere) dei farisei e la reazione stizzita, quasi violenta, di Gesù di fronte a tali atteggiamenti: la questione battesimale di cui sopra si inquadra perfettamente in questo contesto di assurda e colpevole superficialità.

La terza reazione di sconforto mi porta a ricordare il mio battesimo. Sono stato battezzato in casa di mio zio sacerdote, gravemente ammalato: il sacramento non fu amministrato da lui, materialmente impossibilitato a farlo, ma dal parroco territorialmente competente, in un clima di sofferta partecipazione. Lo zio, da cui ho indegnamente ereditato il nome e che considero il mio santo protettore, mi poté solo dare un bacio di benedizione in quanto la zia suora ebbe la sensibilità di renderlo possibile. Pochi giorni dopo il mio battesimo lo zio Ennio finiva il suo calvario, terminava le sofferenze accettate, o meglio offerte, in un cammino di autentica santità. Ebbene, mi è sempre stato detto che la celebrazione casalinga del rito era stata autorizzata: sarà vero? Dove sarà questa autorizzazione curiale? Stai a vedere che il mio battesimo non era valido…L’eccezione fatta per il mio caso infatti è forse ben più trasgressiva della piccola modifica “noi ti battezziamo”. Probabilmente il mio spirito critico nei confronti della Chiesa nasce proprio dal mio battesimo celebrato in ambiente assai poco canonico.

La quarta reazione ironica riguarda un amico sacerdote alle prese da sempre con qualche problema di balbuzie, superato intelligentemente e brillantemente cambiando le parole su cui è più facile incagliarsi. Si comporta così anche nella celebrazione eucaristica. Vuoi vedere che anche quelle messe sono a rischio Congregazione della fede? A volte registravo che qualcuno si stupiva di questi cambiamenti: non capiva il motivo per cui erano fatti, si scandalizzava un po’ perché non aveva la furbizia di comprendere la situazione. No, forse era un inviato speciale della Congregazione delle fede. Attento caro don … a non farti scomunicare e d’ora in poi rassegnati a sottoporti fino in fondo alla tortura della balbuzie!

Quinta e ultima reazione, forse la più cattiva: papa Francesco, che consente giustamente alle mamme di allattare al seno i battezzandi nella Cappella Sistina, possibile che si lasci invischiare in queste beghe pseudo-liturgiche? Non vorrei che uscisse una nota vaticana in cui l’allattamento in Cappella si considera possibile solo per le madri con seno a misura “small”. Se l’eccezione del “noi ti battezziamo” serve a rendere l’idea di una maggiore partecipazione al rito battesimale, a dare un respiro più comunitario al sacramento, dovremmo essere in pieno solco conciliare. E allora? Caro papa Francesco stai attento alle trappole, perché ho la netta impressione che in Vaticano ci sia gente che si diverte a metterti in difficoltà. Mandali tutti, per favore, a dar via i piedi.

 

 

 

 

Il dio della televisione

Non mi piace unirmi al coro celebrativo alla morte delle persone: il rischio di fare un manierato epitaffio è sempre dietro l’angolo della comoda e stucchevole memoria elogiativa. “Fäls cmé ‘na lapida” si dice in dialetto parmigiano. Mi sento però quasi in dovere di fare un’eccezione per Sergio Zavoli, tentando scrupolosamente di evitare il rischio.

I media, come al solito, sono saltati addosso all’evento (che non vuol dire seguirlo e farlo seguire): stanno involontariamente tradendo la sua preziosa eredità giornalistica e televisiva. Quanta nostalgia per Sergio Zavoli, il quale durante l’alluvione di Firenze aprì la finestra e fece vedere e sentire l’acqua dell’Arno che scorreva per le vie del centro: l’approccio disincantato ma rispettoso ai fatti per valutarne umanamente la portata.

Il mio indimenticabile insegnante di italiano lo definiva “il dio della televisione”: in effetti fu l’inventore del giornalismo televisivo, riuscendo a coniugare la proposizione dell’immagine con il diritto di cronaca, aggiungendo all’obiettività dell’immagine l’eco del resoconto giornalistico in un mix coinvolgente e stimolante.

Davanti al giornalismo televisivo, così sbracato e così vuoto, spesso mi chiedo: ma dov’è il cuore? E, senza cuore, pensiamo di essere liberi di pensare, giudicare, decidere. Riteniamo di essere intelligenti. Un tempo si diceva, dal punto di vista fisico, che il cuore era il padrone di casa. Oggi si preferisce affermarlo del cervello. Se pensiamo alla miglior vita materiale, è giusto. Ma se badiamo all’esistenza totale dobbiamo tornare al cuore, non al muscolo che sovrintende alla circolazione del sangue, ma alla sede della coscienza in cui siamo interpellati da Dio e dagli uomini. Non avevo mai pensato che si potesse vedere col cuore! Invece Zavoli era capace di vedere e raccontare col cuore buttandolo oltre l’ostacolo dell’obiettività e della razionalità.

I suoi colleghi di oggi, anziché tesserne gli elogi, sarebbe meglio che si facessero un bell’esame di coscienza, che ripassassero la lezione e imparassero finalmente che è inutile raccontare le immagini, ma bisogna andare oltre per esprimere il loro impatto e commentare il loro messaggio. In questo senso è molto più facile fare giornalismo sulla carta stampata o alla radio dove il protagonista è il cronista: in televisione protagonista è l’immagine e il cronista deve essere capace di lasciarla lavorare in pace e di coglierne l’effetto vitale, usandola come un grimaldello per sviscerare la realtà che vi sta dietro.

I giornalisti televisivi sono preoccupati di non essere spiazzati dall’immagine e allora tendono a metterla in secondo piano rispetto al loro logorroico commento: no, non ci siamo e Sergio Zavoli lo ha dimostrato sul campo. Penso di fare cosa a lui gradita ricordandolo come giornalista più che come dirigente Rai e come politico. Era capace di aprire la finestra sui fatti per coglierne l’essenza, come fece appunto in occasione dell’alluvione di Firenze. E Dio sa quante alluvioni ci siano e quante finestre si dovrebbero aprire. E lui infatti era il dio della televisione.

 

L’elefante pentastellato nella cristalleria costituzionale

Dopo mesi di attesa a causa del lockdown, si avvicina la data del referendum sul taglio delle poltrone in parlamento: si andrà alle urne il 20 e il 21 settembre 2020, in una sorta di election day che accorpa amministrative e regionali. In autunno gli elettori saranno chiamati a votare per confermare o respingere la legge – cavallo di battaglia di M5S – che modifica la composizione delle Camere con il taglio di 345 poltrone: 115 in Senato e 230 alla Camera.

Il quesito referendario è pronto da un pezzo ed è il seguente: approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019?

Quello che andremo a votare è un referendum confermativo, disciplinato dall’articolo 138 della Costituzione, per il quale non è previsto il raggiungimento di nessun quorum particolare. Quindi se i sì superano i no il taglio dei parlamentari verrà confermato e 345 poltrone eliminate.

Scusi lei è favorevole o contrario? Mi viene in mente come reagì ad una simile domanda il mio indimenticabile professore di italiano. Erano i tempi del referendum sul divorzio e rispose all’incolpevole intervistatore: «Tu sei un cretino!». Per poi aggiungere davanti al microfono dello sbigottito sondaggista: «Amo mia moglie e quindi sono personalmente contrario al divorzio. Ma l’introduzione di questo istituto risponde ad esigenze civili e come tale deve essere giudicato…». Ben detto non c’è che dire.

Provo ad attualizzare, personalizzare e parafrasare l’episodio di cui sopra. In via Cavour, in pieno centro storico parmense, mi ferma un patetico intervistatore e mi chiede: “Scusi, lei è favorevole o contrario al taglio dei parlamentari?”. Non esiterei a rispondere: “Con tutto il rispetto per il tuo inutile e stressante lavoro, di politica non capisci un cazzo, studia, ragiona e riferisci a chi ti manda in giro a perdere e far perdere tempo che la politica è una cosa complicata e delicata e non si risolve con una sforbiciata di qua e una di là, con un sì o con un no…”.

Ricorro per l’ennesima volta agli insegnamenti di mio padre. Non era fatto per il gioco di squadra, non accettava schemi precostruiti, non era un militante. Temeva (aveva quasi un complesso al riguardo) i fanatismi, forse perché ne aveva visti troppi, e quindi riteneva di non rischiare e non si inquadrava. Questo non gli impediva di elaborare le proprie scelte, di esprimere le proprie idee e di partecipare al voto, cosa che aveva fatto con coraggio anche con gli addomesticati referendum del regime fascista, votando regolarmente “no”.

Il referendum è uno strumento di democrazia diretta molto delicato, che si presta a facili manipolazioni populiste: non a caso tutti i regimi lo hanno utilizzato e lo utilizzano per portare acqua al loro mulino. Dipende da quale domanda è oggetto del referendum e da come è posta. Il taglio dei parlamentari, se lo si mette in relazione all’affarismo ed alla inconcludenza della politica, può diventare una sferzata   responsabilizzante ed una cura dimagrante benefica; se lo si inserisce nell’impianto della Costituzione, può rappresentare un attentato alla democrazia e alla rappresentatività del Parlamento.

La nostra Costituzione è l’esempio ineguagliabile di compromesso politico ai livelli più alti ed è quindi una costruzione estremamente delicata e difficile da cambiare: lo dimostrano i numerosi tentativi andati a vuoto anche al di là delle più nobili intenzioni. Figuriamoci se si può procedere con sforbiciate da elefante nel negozio di cristalleria allestito dai costituenti.

Ho quindi due motivi per sentirmi estraneo al referendum sul taglio dei parlamentari: uno di metodo e uno di merito. Voterò per il no al taglio. La tentazione di schierarmi a favore della riduzione è forte, pensando a tutte le volte che vedo le aule parlamentari semivuote, a tutte le volte che assisto ad autentiche cagnare propagandistiche a Montecitorio o a Palazzo Madama, a tutte le volte che ascolto dibattiti parlamentari penosamente superficiali e  strumentalmente polemici, a tutte le volte che…Poi, però, penso che la democrazia sia il bene supremo da difendere a tutti i costi e che non mi sembra il caso di scherzare con il bisturi in mano, perché ne va della sopravvivenza del malato. Non vorrei che l’indomani del referendum si dovesse dire: l’operazione chirurgica è riuscita, ma il paziente è morto.

 

 

Il ponte dei sospiri democratici

Della cerimonia, giustamente mesta, di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, che ha sostituito quello crollato il 14 agosto di due anni fa, ho apprezzato la discrezione e la delicatezza del presidente della Repubblica nei confronti dei famigliari delle vittime: l’ennesima lezione di umanità e di stile dal Capo dello Stato. Non ripeto le sue parole perché potrei solo rovinarne la semplice profondità e l’apprezzabile disponibilità.

Mi viene invece spontaneo cogliere due messaggi provenienti dalla vicenda del tragico crollo e della immediata ricostruzione. Si fa un gran parlare di nuovi investimenti in infrastrutture finalizzati alla crescita socio-economica del Paese. Prima, però, siamo seri e vediamo di mettere veramente in sicurezza le vecchie e le nuove infrastrutture, per evitare che crolli qualche soffitto sulla testa degli alunni di una qualche scuola. Siamo tutti un po’ prigionieri della mentalità dello “straordinario” e finiamo col trascurare l’ordinario che rischia di diventare “straordinario per la sua precarietà”. Chi governa questo Paese si rimbocchi le maniche e imposti un piano di controllo, revisione e manutenzione di tutte le infrastrutture esistenti: soldi spesi molto bene anche se non se ne vedrà l’esito, perché serviranno a evitare le catastrofi e gli elenchi di morti e feriti.

Una seconda riflessione critica riguarda i tempi record di realizzazione del nuovo ponte di Genova. C’è di che rimanere stupiti e ammirati. E allora, perché tante lungaggini e ritardi nella realizzazione di altre strutture forse anche meno impegnative? È tutta questione di fari puntati? Ci si doveva in qualche modo far perdonare una enorme disgrazia? Si doveva dare dimostrazione della capacità di ripresa del nostro sistema? Tutti motivi plausibili, ma non mi sento soddisfatto da queste ipotetiche risposte.

Si dice sempre che quando gli italiani si impegnano veramente non li batte nessuno. E allora, cari italiani, vediamo di impegnarci sempre, non solo sulla spinta degli occhi puntati di mezzo mondo. La creatività e la fantasia non ci mancano, l’intelligenza, la professionalità e la laboriosità non ci fanno difetto. Cosa ci manca? Il senso dello Stato e lo spirito di servizio. Lo Stato lo vediamo come un lontano nemico da esorcizzare e combattere. La solidarietà è vissuta come medaglia da appuntarsi sul petto, ma non come stile di comportamento abituale.

Non siamo capaci di aiutare la politica a farsi carico dei veri nostri problemi e la politica non è purtroppo in grado di sollecitarci e spronarci all’impegno. La chiave di collegamento fra queste due necessità dovrebbe essere la democrazia. È nato prima il bisogno di socialità o la scarsità della politica? L’uovo del qualunquismo o la gallina del malgoverno? La laboriosità che costruisce i ponti o il menefreghismo che li fa crollare? Tutti i ponti, non solo quelli stradali.   I cittadini hanno la classe politica che meritano o è la politica che fa i cittadini?

“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa famosa frase, associata dai più a Massimo D’Azeglio, sta a significare che per quanto l’Italia geograficamente e politicamente nel 1861 risultasse unita, in essa regneranno sempre culture, tradizioni e lingue (dialetti) diversi tra loro. “Fatta la democrazia, bisogna fare i democratici”: una parafrasi della frase di cui sopra, che dovrebbe significare come la democrazia venga soprattutto dopo il voto e prima che crollino i ponti. Non è quindi questione di uovo o di gallina, ma di – mi si perdoni la brutta similitudine – pollaio democratico. La nostra politica è molto simile ad un pollaio, peccato però che sia un pollaio assai poco democratico.

 

L’Italia degli ossimori

Palazzo Chigi, attraverso l’Avvocatura dello Stato, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio, che aveva accolto l’istanza della Fondazione Einaudi per ottenere l’accesso agli atti del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile in base ai quali sono stati adottati i dpcm per far fronte all’emergenza covid 19. I giudici amministrativi hanno sospeso in via cautelare l’effetto della sentenza del Tar.

La Lega non perde l’occasione per attaccare il governo sulla secretazione degli atti del Comitato tecnico scientifico: Il gruppo del Carroccio al Senato ha scritto alla presidente Elisabetta Casellati perché metta in campo “tutte le iniziative istituzionali necessarie per permettere ai parlamentari di accedere agli atti, ai pareri e a ogni documento del comitato scientifico della Protezione Civile e utilizzati dal presidente Giuseppe Conte per emanare i dpcm”.

Il governo è contrario alla desecretazione. L’avvocatura parla di “danno concreto all’ordine pubblico e la sicurezza che la conoscenza dei verbali del Cts, nella presente fase dell’emergenza, comporterebbe sia in relazione alle valutazioni tecniche che agli indirizzi generali dell’organo tecnico”. Nella memoria si richiama poi, a titolo esemplificativo, “quanto avvenuto nel recente passato nel corso dell’emergenza epidemiologica in atto, in riferimento all’allarme sociale ingenerato dall’allora paventata chiusura delle scuole e previsione di limiti ai trasferimenti nel territorio nazionale ed alle problematiche, in alcuni casi anche di ordine pubblico, verificatesi nell’imminenza della decisione di creare una “zona rossa” in alcune regioni del nord Italia, a seguito della diffusione di notizie in ordine alle valutazioni effettuate dal Comitato Tecnico Scientifico”. Per questo secondo il governo “appare evidente che anche sotto il profilo dell’opportunità (…) sia legittimo confermare quanto meno il differimento dell’ostensione dei verbali in parola, al termine dell’emergenza in atto, vale a dire ad un momento nel quale possibili implicazioni derivanti dai medesimi verbali in parola, consentano una lettura più oggettiva rispetto all’attuale fase storica di emergenza e di allarme”. L’esecutivo quindi chiede di attendere almeno il 15 ottobre, quando scadrà la proroga dello stato di emergenza.

L’avvocatura inoltre ricorda che i Dpcm “sono atti amministrativi generali, frutto di attività ampiamente discrezionale ed espressione di scelte politiche da parte del governo che trovano la propria fonte giuridica nella delega espressamente conferita dal Legislatore all’esecutivo e rinvengono la propria ragione nell’esigenza temporanea ed urgente di contenere e superare l’emergenza epidemiologica causata dal Covid-19″. Per questo l’amministrazione ha ritenuto “che gli atti istruttori prodromici alla loro emanazione fossero sottratti ex lege all’accesso generalizzato”. Quanti spingono per rendere pubblici gli atti di cui sopra accusano il governo di “non fare sapere agli italiani quali sono le reali ragioni alla base degli innumerevoli decreti del Presidente del Consiglio”.

Staremo a vedere come finirà la diatriba giuridica. Non capisco quale possa essere lo scopo di conoscere i contenuti di questi documenti riservati se non quello di creare ulteriore confusione nel quadro delle opinioni scientifiche sulla base delle quali continuiamo a brancolare nel buio e di portare acqua al mulino dei negazionisti più o meno striscianti e ruspanti. La prudenza governativa inocula però ulteriormente nei cittadini il dubbio, peraltro già esistente, di essere stati tenuti all’oscuro della realtà. È un po’ come la questione del malato e del suo diritto a conoscere la verità sulla sua malattia: chi vuole rivelarla tutta senza pietà e cautela, chi ritiene sia meglio oscurarla e chi la vuole centellinare con estrema cautela a seconda delle prevedibili reazioni dell’interessato.

Non mi addentro pertanto nel merito della questione e mi limito a lapidarie, ironiche ed indirette riflessioni. Quando un mio simpatico zio invitava qualche persona a casa sua, tra il serio e il faceto, era solito dire: «S’at vol gnir a ca mèja, sta a ca tòvva…». In fin dei conti è l’atteggiamento paradossale che adottiamo davanti a tanti problemi. Adottiamo cioè l’etica degli ossimori, tendiamo a pensare e a comportarci in modo contraddittorio. Guglielmo Zucconi, giornalista, scrittore e parlamentare, con una stupenda battuta sosteneva simpaticamente che gli Italiani vorrebbero “i servizi segreti pubblici”. Ora siamo alle relazioni scientifiche riservate ma accessibili a tutti.

Nel nostro paese oltre i servizi segreti pubblici vorremmo i pentiti santi, i giudici perfetti e via discorrendo. Questo è un modo per lasciare le cose come stanno, salvo riprendere le lamentazioni alla prima occasione nel girone infernale del qualunquismo e della sfiducia rappresentanti il brodo di coltura ideale per tutte le minchiate politiche. Vorremmo sapere la verità fino in fondo per poi correre dietro ai mistificatori di turno. Il mondo è bello perché è vario: non c’è detto più popolare, ma non c’è nemmeno detto contro cui si scagliano maggiormente le animosità e i pregiudizi.

La volpe e il coronavirus

«Stamani mentre mi stavo rinfilando questo bello scafandro ho pensato a quanti mesi abbiamo tirato nel cesso, ho pensato a tutti quegli imbecilli che continuano a dire: “Ma il virus è finito”. Non è finito un c….o! Voi andate al mare che io mi diverto a sudare dentro sto coso di plastica». È lo sfogo pieno di rabbia – poi cancellato da Facebook – di un’infermiera dell’ospedale San Luca di Lucca, dove in questi giorni si continua a lottare contro il coronavirus. L’infermiera se la prende con chi continua a sottovalutare il rischio di una ripresa dei contagi. «Avete fatto bene – prosegue amaramente ironica nel suo post – a riaprire le discoteche, era di primaria necessità. Fate bene ad andare in giro senza mascherina, fate proprio bene! Vi meritate l’estinzione. Mi raccomando ora ricominciate con quella buffonata degli eroi».

Sono perfettamente d’accordo con questa infermiera in prima linea, disgustata dalla irresponsabilità e stupidità di troppa gente. Perché “quanno ce vo, ce vo”: la considero infatti una schietta, liberatoria e ironica invettiva contro la sistemica stupidità che accompagna la (finta) battaglia contro il coronavirus.

D’altra parte, a pensarci bene, tutto si spiega con la scala di valori che ci siamo insensatamente costruiti e che ostinatamente rispettiamo. Da giovane studente, per sostenermi economicamente e forse per accarezzare un sogno didattico mai realizzato, davo qualche lezione a ragazzini in difficoltà di apprendimento a livello scolastico. Ricordo il caso di lezioni impartite in materia di storia: eravamo, se ben rammento, ancora all’uomo primitivo e ai suoi bisogni primari. Provai a interrogare quel simpatico ragazzino chiedendogli qual era, a suo giudizio, il bisogno essenziale a cui l’uomo delle caverne doveva rispondere. Silenzio assoluto! Allora provai a dare, come si suole dire, un aiutino con i gesti, cercando di rendere l’idea della necessità di sostenersi e di avere la forza di sopravvivere. Ad un certo punto, equivocando clamorosamente i miei suggerimenti gestuali, mi arrivò una risposta apparentemente strana: lo sport! Scoppiai a ridere, chiesi scusa al mio ingenuo interlocutore, recuperai il discorso e lo portai faticosamente a ragionare seriamente. Aveva sputato cos’era per lui la cosa fondamentale, che veniva prima di ogni altra necessità: lo sport appunto.

Probabilmente oggi mi sentirei rispondere: il ballo in discoteca. Effettivamente anche gli uomini primitivi forse ballavano intorno ai pentoloni in cui facevano bollire qualche animale o addirittura qualche loro simile. Anche per loro valeva il discorso della rimozione psicologica, del divertirsi per non pensare al peggio, dell’evadere dalla triste e condizionante realtà. L’importante è andare in discoteca, è partecipare alle movide, è bulleggiare a destra e manca: vale per i giovani, ma anche per i meno giovani per i quali l’imperativo categorico ed irrinunciabile sono le vacanze. Tutto il resto viene dopo ed in subordine. Tempo fa un carissimo amico in vista dell’apertura della stagione estiva, mi diceva: «Vedrai, fra poco comincerà la solita bagarre delle vacanze: si abbandonano e si accantonano i vecchi negli ospedali o negli ospizi, si lasciano i cani e i gatti lungo le strade, ci si libera di ogni e qualsiasi fardello umano e animale per andare in vacanza…».  Oggi ci si libera persino dalla paura del covid 19, ci si convince che “sia andato tutto bene”, attualizzando finalmente quanto diceva il noto e demenziale ritornello che ci ha accompagnato durante il lockdown.

La tentazione di rimuovere gli ostacoli è sempre forte, ma diventa paradossale quando c’è in ballo la stessa esistenza. Il negazionismo non è un vezzo culturale che ritorna ciclicamente di moda, ma è una costante della nostra mentalità bacata. Nella famosa favola, la volpe vuol far credere che sia inutile fare tanti sforzi per un grappolo d’uva acerba; l’unica che probabilmente è riuscita a ingannare è solo se stessa.  La morale del racconto è che non bisogna disprezzare ciò che non si può ottenere. Noi stiamo andando oltre e rimuoviamo culturalmente non solo ciò che non possiamo ottenere (ci riteniamo onnipotenti…), ma ciò che ci dà fastidio (ci riteniamo onniscienti…).  Poi, dopo avere folleggiato, siamo costretti a tornare alla realtà e ci sgraviamo la coscienza mettendo sugli altari coloro che, per necessità e/o virtù, hanno tenuto i piedi in terra: loro ci salvano e ci salveranno.

Sono due i ritornelli di accompagnamento alla stagione del coronavirus. Il primo l’ho già indirettamente citato: “andrà tutto bene!”. Il secondo, apparentemente più profondo e culturalmente più pretenzioso, è: “niente sarà più come prima”. Osservando amaramente la realtà si può concludere che tutto è andato e sta andando malissimo e, ancor peggio, che nulla sta cambiando. Siamo sempre noi con i nostri incalliti e gravissimi limiti e difetti a prova di coronavirus. Il presidente della Repubblica, da par suo, ha fornito la morale civica nel tentativo di parare il colpo dell’insensatezza in cui stiamo precipitando: «Libertà non vuol dire diritto a far ammalare gli altri». Il monito di Sergio Mattarella peraltro è arrivato proprio nella giusta occasione, vale a dire nel corso della cerimonia del Ventaglio per il tradizionale saluto, prima delle ferie estive, con i giornalisti accreditati.

Le sistemiche gaffe della Rai

Riporto da “La repubblica” a firma di Alberto Custodero. La diretta, a volte, può giocare brutti scherzi. È il caso del servizio del Tg2 che, proprio in una diretta dal Senato a pochi secondi dalla chiusura delle votazioni sul caso Open Arms, ha annunciato “il colpo di scena”. “Salvini non andrà a processo, non è stata concessa l’autorizzazione”. La giornalista era nella sala dei Postergali, quella usata per le dirette nella quale non ci sono agenzie, non ci sono computer e non ci sono nemmeno schermi dai quali seguire i lavori in Aula. “Lo spoglio si è concluso pochi istanti fa, ha annunciato la conduttrice del Tg2, che ha ceduto la linea all’inviata in Parlamento.

La cronista posa il telefono e prende la parola. “È proprio di ora il risultato, non è passata l’autorizzazione a procedere…” è stato l’incipit del servizio della cronista di Palazzo Madama. Pare che l’errore di interpretazione del voto dell’Aula le sia stato suggerito al telefono, pochi istanti prima della diretta, dal suo caporedattore.

“Sembrava un voto scontato – prosegue lo sfortunato servizio – visto anche il sì di Iv. E invece no, ci sono stati 141 voti favorevoli ma 149 no. Quindi Salvini non andrà a processo. Questo è davvero un colpo di scena perché tutta la maggioranza era compatta per dire che non c’era interesse generale”. “Ma il centrodestra compatto ha detto no: Salvini ha fatto l’interesse generale”.

Si dice il peccato, ma non il peccatore. Sul peccato si possono dire inoltre tante cose: pressapochismo, faziosità, mancanza di professionalità, semplice gaffe? Naturalmente la clip dello sfortunato servizio è girata sui social. Lo svarione non è passato inosservato. E come avrebbe potuto non essere notato?

Per me l’occasione non è tanto quella di ridere per un clamoroso infortunio televisivo: tutti possono sbagliare e quindi non è il caso di sghignazzare né di ironizzare sotto sotto sulla indiretta beffa per Salvini. L’episodio mi ha invece risollecitato alcune domande sulla Rai, sul suo personale, sui suoi bilanci.

Quanta gente ha il microfono in mano senza sapere l’importanza e la delicatezza del compito che le viene affidato… Quanta e troppa gente fa informazione in modo superficiale al limite del banale, parziale se non addirittura fazioso… Quanta e troppa gente si occupa di cronaca e attualità politica senza avere la preparazione culturale adeguata… Quante risorse sprecate in inutili duplicazioni e ripetizioni… Quante cose non vanno in Rai… Ben vengano le gaffe se servono a migliorare il servizio pubblico radio-televisivo.

Il televisore, seppure in ritardo, entrò in casa mia, senza invadenza, accolto con simpatia ma senza fanatismo: uno strumento e non un fine. A volte mio padre, proprio per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e quatto, quatto se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: ”No vagh a lét” E l’altro ribatte: “Ah,  a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Il dialogo tra mio padre e la televisione non era come quello tra due sordi: sapeva godere anche della TV ma con una certa parsimonia (la usava spesso come sonnifero che provocava solenni russate, sistematicamente negate all’evidenza), forse intravedeva per tempo il pericolo che l’immagine assorbita acriticamente porta con sé, forse prevedeva la debordante saga informativa. Per non parlare di intrattenimento salottiero e di sport chiacchierato. Non se ne può più!