Prove d’orchestra ecclesiale

Continuando a parlare delle prospettive del papato di Leone XIV devo registrare tre note liete un po’ forzate, che tuttavia mi hanno sorpreso nella mia ignoranza, incuriosito nel mio scetticismo, consolato nella mia delusione: giudizi strani ma positivi, che forse mi possono aiutare ad uscire dallo sconcerto in cui sono caduto.

Parto con Padre Ermes Maria Ronchi, un presbitero e teologo italiano dell’Ordine dei Servi di Maria, che ha presentato e salutato il nuovo papa come di seguito, prendendo in considerazione il nome da lui scelto e partendo da esso. “Nomen omen” è una locuzione latina, peraltro anche un po’ evangelica, che, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio”, “un nome un destino”, “il destino nel nome”, “di nome e di fatto”.

“Amici, il nuovo Papa è un frate, il suo nome è Leone. Lo chiamerò Frate Leone, che era il discepolo più vicino a Francesco d’Assisi. Benvenuto Frate Leone, pecorella di Dio!”.

Don Luigi Ciotti, col suo linguaggio senza fronzoli e appassionato, ha dichiarato di pensare che il nuovo papa sia un gran regalo di papa Francesco, perché lo ha scovato quando era vescovo di una piccola diocesi del Perù, se lo è portato a Roma e l’ha fatto cardinale giusto in tempo per…

Il teologo Piero Coda, un presbitero e teologo italiano, segretario generale della Commissione teologica internazionale, ha usato la bella immagine del direttore d’orchestra a significare l’esigenza di uscire dal “papacentrismo” ed al contempo la presa d’atto che papa Leone non sarà un solista, un assoluto protagonista della scena ecclesiale, ma una specie appunto di direttore d’orchestra, che dovrà cercare in tutte le maniere  di coinvolgere gli strumentisti  che abbiano voglia e capacità di suonare.

In effetti, a prima vista, non vedo in Prevost un grande e travolgente carisma ed allora, visti i chiari di luna della mancanza di leader, che caratterizza il mondo intero, bisogna fare di necessità virtù, privilegiando il gioco di squadra: insieme, insieme, basta con gli eccessivi protagonismi, con gli occhi puntati su una persona sola…

Dal momento poi che tira un venticello leggero (?) di normalizzazione post-bergogliana, è meglio andare giustamente in cerca di collegamenti fra papa Francesco e papa Leone, usando anche un po’ di fantasia che non fa mai male. Temo che, per trovare una forte continuità tra Bergoglio e Prevost, di fantasia ne occorra parecchia…

 

È arrivato l’ambasciatore

Ha tutte le sembianze della goccia che fa traboccare il vaso diplomatico, l’incidente occorso oggi a Jenin, dove militari israeliani hanno sparato in aria per allontanare una delegazione di diplomatici stranieri. Dopo l’ulteriore espansione delle operazioni militari a Gaza lo Stato ebraico appare ormai da giorni sempre più isolato, anche tra i suoi storici alleati, dall’Europa agli Stati Uniti. Oggi i governi dei Paesi coinvolti, dalla Francia all’Italia, hanno protestato con veemenza con Israele per quanto accaduto a Jenin. E per quanto riguarda Roma in particolare, l’occasione è stata colta dal governo per mandare a Israele un messaggio di inedita durezza sul quadro complessivo delle azioni israeliane, comprese quelle a Gaza. Lo si evince chiaramente dalla scelta di far trapelare che a muoversi in prima persona è stata questa volta la premier Giorgia Meloni, che ha «sentito al telefono il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, per concordare la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatore israeliano in Italia, non solo alla luce dell’episodio di oggi vicino al campo profughi di Jenin che ha coinvolto diplomatici stranieri, tra cui il vice console italiano a Gerusalemme, ma anche nel contesto più ampio della drammatica situazione nella Striscia di Gaza». E la conferma del cambio di passo e di tono arriva poi dalla nota con cui la Farnesina dà conto di quanto è stato comunicato esattamente all’ambasciatore israeliano in Italia Jonathan Peled.

Nel faccia a faccia con Peled, fa sapere nel tardo pomeriggio il ministro degli Esteri, il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia «ha protestato e chiesto spiegazioni per l’incidente di oggi in cui una delegazione diplomatica di Paesi dell’Unione europea, che comprendeva il vice-console italiano a Gerusalemme, è stata colpita con armi da fuoco da parte di soldati dell’IDF all’ingresso del campo profughi di Jenin. L’ambasciatore Guariglia ha contestato il comportamento dei militari israeliani, definendo inaccettabile il fatto che una delegazione diplomatica civile venisse allontanata da un’area presidiata dai militari con l’uso delle armi da fuoco». Il segretario generale della Farnesina però è andato oltre e a nome dell’Italia ha anche detto a Peled che «Israele deve interrompere le operazioni militari a Gaza, deve puntare sul negoziato politico e diplomatico per la liberazione degli ostaggi israeliani e per raggiungere un cessate il fuoco che possa far ripartire un processo di pace. Soprattutto Israele deve aprire immediatamente i varchi di accesso a Gaza per permettere l’ingresso massiccio di aiuti alimentari e sanitari per la popolazione palestinese». Una scelta verbale, quella del dovere ripetuto più volte, particolarmente forte in termini diplomatici e inedita da parte dell’Italia dall’inizio della guerra a Gaza. L’unica “concessione” alla narrativa di Israele resta quella sul fatto che la popolazione palestinese è da considerarsi «essa stessa vittima dei terroristi di Hamas». Ma la conclusione dell’Italia, in linea coi partner europei ma sembra pure con gli Usa, è opposta a quella del governo Netanyahu: proprio per questa la popolazione palestinese «non può più essere coinvolta negli attacchi militari dell’Idf». (da open.online)

Morale della favola: un affronto ai diplomatici vale più del massacro di bambini. Così va il mondo! D’altra parte mio padre rilevava, con il suo solito sarcasmo, come di fronte alla caduta di un cavallo gli astanti si impietosiscano ed esclamino “povra béstia”, mentre di fronte alla caduta di una persona si sbellichino dalle risa senza preoccuparsi minimamente dei conseguenti danni subiti dalla persona stessa.

Ci voleva l’incidente diplomatico per smuovere le coscienze? Staremo a vedere…Anche perché il giorno precedente il governo italiano non aveva esitato a voltarsi ancora una volta e vergognosamente dall’altra parte.

Con il lancio dell’operazione Carri di Gedeone da parte di Israele, l’Unione Europea sta iniziando a capire che – forse – lo Stato ebraico va fermato. I ministri degli Esteri dell’Unione hanno infatti approvato la richiesta di avviare una revisione del trattato di associazione UE-Israele, avanzata dai Paesi Bassi dopo un anno di ripetuti appelli da parte di Spagna e Irlanda. In sede di votazione, comunicano fonti diplomatiche, nove Paesi si sarebbero opposti tra cui, come ormai consolidato in sede diplomatica, anche l’Italia. L’accordo regola le relazioni multilaterali tra Israele e Stati membri e, sin dal preambolo e dai suoi primi articoli, si fonda sul rispetto dei diritti umani e sulla condivisione dei valori democratici. Aprendo a una possibile revisione, l’UE compie così, con drammatico ritardo, i primi passi formali per distanziarsi dallo Stato ebraico, sottolinea Amnesty. «L’entità della sofferenza umana a Gaza negli ultimi 19 mesi è stata inimmaginabile. Israele sta commettendo un genocidio a Gaza con agghiacciante impunità». (lindipendente.online)

Evviva la sensibilità, la coerenza, l’europeismo, il coraggio e l’umanità di chi ci (s)governa. Se i bambini di Gaza aspettano un cenno di concreta solidarietà da Giorgia Meloni e c. fanno in tempo a crepare tutti sotto le bombe o di fame. Non mi si dica che questo è il cinismo della politica. Per la verità non è che gli altri Paesi dell’Europa stiano facendo molto meglio: questa feroce indifferenza ammantata di subdola equidistanza fa letteralmente schifo!

Stiamo forse aspettando che Trump si stanchi di Netanyahu e lo scarichi lasciandolo al suo destino? Campa cavallo: ogni simile ama il suo simile! Ho esaurito le mie parole di condanna. Mi vergogno di essere italiano, anzi mi vergogno di essere una persona cosiddetta umana.

 

 

La Cocomeri vuol intortare Prevost

“Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni – informa Palazzo Chigi – ha avuto oggi una conversazione telefonica con il Santo Padre sui prossimi passi da compiere per costruire una pace giusta e duratura in Ucraina. Il colloquio – si spiega – fa seguito alla telefonata di ieri con il Presidente Trump e con altri leader europei, nel corso della quale è stato chiesto al Presidente del Consiglio italiano di verificare la disponibilità della Santa Sede a ospitare i negoziati”. Meloni ha riscontrato l’apertura di papa Prevost: “Trovando nel Santo Padre conferma della disponibilità ad accogliere in Vaticano i prossimi colloqui tra le parti – conclude Palazzo Chigi – il Presidente del Consiglio ha espresso profonda gratitudine per l’apertura di Papa Leone XIV e per il suo incessante impegno a favore della pace”.

“Speriamo che la Cocomeri non riesca ad intortare Prevost. Con Francesco ce l’aveva fatta… ma mi sa che questo papa sia più politico o almeno lo spero…La furbetta ha già chiesto (dicono) udienza entro 10 giorni. Ma non c’è prima Mattarella?”.

Questo breve ma ficcante messaggio, giuntomi da un caro amico, attento osservatore delle cose politiche e religiose, fotografa perfettamente la situazione. Da una parte una premier, che lui chiama sarcasticamente “Cocomeri” e che gira a vuoto come il garzone di mio padre (non combinava niente di buono…), dall’altra parte un papa a cui tutti stanno tirando la tonaca bianca (sarà già diventata grigia…).

Giorgia Meloni, o Cocomeri come dir si voglia, vuole far credere di essere immanicata a livello internazionale: effettivamente tutti sembrano darle ascolto, in realtà la considerano una mascotte, la compatiscono (coi fanciulli e coi dementi spesso giova il simular…).

Si difende a livello mediatico: questa è l’unica sua forza (fino a quando?). In realtà non si capisce da che parte stia con la scusa di fare la “pontiera”, tra la Ue e Trump, tra i sovranisti e gli europeisti, tra i post-fascisti e i post-democratici, tra i leghisti e i nazionalisti, adesso anche tra la politica e il Vaticano.

Forse l’unico merito che ha è quello di essere un vero e proprio “estrat äd confuzion” e quindi di evidenziare plasticamente il casino che regna sovrano a livello politico internazionale e nel suo governo nazionale. Gli allocchi applaudono, gli scettici scrollano le spalle, gli snobboni ridono, le persone serie piangono.

Ultimamente sta alzando un po’ troppo l’asticella delle sue esercitazioni pseudo-diplomatiche: con Trump se la può cavare, salvo i pochi secondi che il tycoon impiegherà per darle il benservito, allorché non gli farà più comodo averla fra i piedi; col Vaticano avrà vita dura, perché in quell’ambiente hanno un’esperienza tale da riconoscere i bagoloni a prima vista e da smascherare quanti si credono i più furbi della compagnia.

Per quanto concerne papa Leone XIV mi rifaccio a quanto già scritto. Premesso che non mi piace affatto vedere la Chiesa-istituzione protagonista della politica anche se a fin di bene, ammettendo pure che un papa politico possa rappresentare un valido riferimento per il mondo alla deriva, mi permetto di osservare cinicamente come la politica sia un terreno molto difficile da praticare. Agh vôl al cul plä!

Con licenza parlando, non so come sia messo al riguardo Prevost: fatto sta che tutti sono in fila per sfruttare l’audience di cui gode. Lui al momento non fa nemmeno una piega, forse è assai meno ingenuo di quanto si possa pensare.  E poi, se gira per le stanze vaticane (sembra preferirle a casa Santa Marta), di furbastri dai quali farsi aiutare ne trova fin troppi.

Don Andrea Gallo diceva fuori dai denti: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche, perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Mi permetto di allargare il discorso al vicario di Dio in terra. Dopo di che per la signora Cocomeri la vita nei rapporti col Vaticano non sarebbe così facile.

 

Chiesa, meglio copiare le ONG che scimmiottare l’ONU

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito “una grande idea” che il Vaticano possa ospitare eventuali negoziati di pace tra Russia e Ucraina, sottolineando come vi sia “molta rabbia” tra le parti e come il simbolismo del luogo possa contribuire a un clima più favorevole. 

“Penso che sarebbe fantastico farlo in Vaticano. Forse avrebbe un significato ulteriore”, ha dichiarato durante un evento alla Casa Bianca. Trump ha parlato lunedì separatamente con i suoi omologhi di Russia e Ucraina, Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, e dopo questi colloqui ha annunciato che i due Paesi apriranno immediatamente dei negoziati per un cessate il fuoco e per porre fine alla guerra.

Papa Leone XIV aveva già manifestato la sua disponibilità a farsi coinvolgere nel dialogo, e Zelensky ha ipotizzato che il futuro incontro possa tenersi in Vaticano, in Svizzera o in Turchia. Trump si è detto favorevole all’ipotesi della Santa Sede: “C’è un’enorme amarezza, una grande rabbia, e penso che forse potrebbe aiutare ad alleviare parte di questa rabbia. Quindi farlo in Vaticano sarebbe una grande idea”, ha affermato. (da RaiNews.it)

La critica più frequente – peraltro subdola ed inconsistente – rivolta a papa Francesco era quella di avere trasformato la Chiesa in una ONG, di averla cioè appiattita sul piano sociale, trascurando quello spirituale.

In realtà ai detrattori di Bergoglio non interessava la spiritualità, ma erano infastiditi dall’attenzione ai poveri: è una storia vecchia come il cucco, chi sta dalla parte dei poveri in realtà non piace anche se magri si fa finta di ammirarlo.

Evidentemente anche Gesù aveva in mente le ong e si appiattiva sul sociale, dal momento che non faceva altro che parlare dei poveri, degli ultimi, dei sofferenti, etc. etc.

Non vorrei che, sulle ali dell’entusiasmo diplomatico conseguente alla sua elezione, papa Leone si facesse prendere la mano per trasformare la Chiesa in una sorta di ONU riveduto e scorretto.

In materia di pace e di intervento della Chiesa a favore della pace si sta facendo un po’ di confusione. Innanzitutto si confonde la Chiesa col Vaticano: sono due realtà ben diverse. Il Vaticano non è nemmeno lo specchio esaustivo della Chiesa-istituzione, figuriamoci della Chiesa-comunità, ma semmai quello della Curia romana implicata anche troppo nelle cose di questo mondo.

In secondo conseguente luogo la Pace che dona il Risorto non è quella che dà il mondo, vale a dire quella di Trump, Putin e c. La Chiesa quindi deve stare attenta a non diventare protagonista nelle questioni mondane: non è la “pasta”, ma il “lievito”. Gesù non ha nemmeno lontanamente pensato di fare da mediatore fra Romani ed Ebrei, se ne è ben guardato a costo di deludere tutti e di farsi mettere in croce. A Pilato, che gli chiedeva conto delle sue “strane” idee, non ha proposto di dialogare, ma lo ha elegantemente mandato a cagare.

La storia dei papi è piena di interventi a favore della pace: Giovanni XXIII riuscì, col carisma che possedeva, a scongiurare la crisi di Cuba con tutto quel che ne poteva conseguire: fortunatamente aveva come interlocutori personaggi di altra statura rispetto agli attuali. Non li ospitò ufficialmente in Vaticano, così come Giovanni Paolo II fece un autentico capolavoro diplomatico con Jaruzelski, senza intromettersi politicamente nelle vicende polacche, facendo valere la propria incontenibile autorevolezza umana e spirituale. Paolo VI si recò in visita all’Onu e lanciò il suo storico “jamais plus la guerre”, ma non offrì nessun tavolo vaticano per affrontare le emergenze belliche, anche perché dovrebbe essere proprio l’Onu la principale sede dove dirimere i conflitti fra le nazioni.

Essere il primo Pontefice americano fa sì che Washington e Bruxelles possano contare su di lui come canale di collegamento con Mosca, anche se il “passaporto Usa” può alimentare diffidenze dei russi ortodossi, orientati a vedere in lui un tipico rappresentante dell’Occidente complessivo. L’esperienza missionaria in Sudamerica amplia lo spettro del suo intervento.

Un Papa che conosce sia il campesino del Perù sia il businessman di Chicago può creare ponti tra visioni in conflitto, così come le sue iniziative di dialogo intessute in un linguaggio ampio di giustizia sociale possono risuonare positivamente nel Sud globale, ampliando il consenso anche a proposte ambiziose.

(…)

Dopo il colloquio tra Trump e Putin, nel quale è sembrata ancora prevalere l’ambiguità del leader del Cremlino, pronto a firmare memorandum preliminari a una tregua ma solo alle proprie condizioni, c’è più che mai bisogno di un mediatore che abbia il coraggio della chiarezza e della mitezza, avendo a cuore il valore della pace per sé, senza alcun secondo fine. L’accenno fatto dal presidente Usa sui social media sembrerebbe aprire ottimisticamente a trattative imminenti, forse ospitate proprio in Vaticano. (dal quotidiano “Avvenire” – Andrea Lavazza)

In questo delicatissimo momento storico il Papa rischia di essere visto come il mediatore per eccellenza tra le potenze del mondo, il Vaticano rischia di diventare la foglia di fico con cui coprire la fine della laicità della politica, nonché il tramonto del diritto e delle istituzioni internazionali: sarebbe una nefasta influenza pseudo-evangelica. Ed inoltre non accontentiamoci del dito dietro cui nascondere le comode inerzie dei cattolici che applaudono il Papa.

Mi sembra opportuno citare integralmente una preghiera, redatta dal Cardinale Zuppi, che ogni buon cristiano dovrebbe recitare ogni giorno: “Signore, che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, che vieni sulla terra per portare luce nelle tenebre, dona al mondo la pace. Donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace. Donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Amen”.

Attenzione alle sbruffonate politiche di Trump, alle furbizie di Putin, alle ipocrisie di Netanyahu e persino alle disperate condizioni di Zelensky (come noto chi sta per affogare ti trascina nel gorgo…). Invece di andare dietro alle insulse chiacchiere dei delinquenti al potere, non sarebbe meglio scomunicarli nella sostanza e nei fatti, proclamando ad esempio che la carneficina dei palestinesi come quella degli ucraini non può andare su alcun tavolo di trattativa, direttamente o indirettamente patrocinato dalla Chiesa?

I vescovi statunitensi volevano negare la comunione a Biden. Non ho sentito nulla del genere nei confronti di Trump: attenzione papa Leone, perché alcuni suoi elettori probabilmente cadono in queste contraddizioni clamorose. Forse lo Spirito Santo eviterà che presentino il conto al nuovo papa. Nella storia della Chiesa è successo spesso che il Papa, una volta eletto, vada per la sua strada e non si faccia dettare il comportamento da chi lo ha eletto con secondi poco ecclesiali fini. Papa Francesco chiedeva sempre preghiere: gli servivano per resistere alle pressioni di chi lo voleva distogliere dalla sua pastorale evangelica!?

Sull’Ucraina oltre tutto si giocano anche i rapporti con una parte della Chiesa ortodossa (quella dei chierichetti di Putin), che magari vedrebbe di buon occhio una intromissione vaticana atta a compensare quella del patriarcato russo: le chiese cristiane affaccendate e intrecciate con gli equilibri di potere. Ci potrebbe esser di mezzo anche l’ecumenismo riguardante i rapporti tra cattolici e ortodossi.

Se c’è stata una preoccupazione particolare nella vita di Gesù è stata quella di non lasciarsi coinvolgere in questioni politiche, se non stando dalla parte dei poveri e degli ultimi. Credo che papa Francesco, per il quale il vademecum era solo ed esclusivamente il Vangelo, sia riuscito ad essere il miglior interprete possibile della beatitudine riguardante “i pacifici che saranno chiamati figli di Dio”. Nessuno è perfetto, nemmeno papa Francesco, ma ricordiamoci che, come diceva mio padre, «al ‘n era miga un gabiànn…» (non ho approfondito e stabilito da dove venisse questo modo di dire: probabilmente il richiamo al “gabbiano” era dovuto al fatto che questo strano uccello si diverte a rovistare nella spazzatura, nel “rudo” e quindi non dimostra di essere un mostro di intelligenza e furbizia).

Fantastico un tavolo di pace in Vaticano? Fantastico per Trump, ma non per me! Fin dal primo momento ho temuto che dietro l’elezione di papa Prevost ci fosse troppa politica. Vorrei tanto essermi sbagliato anche se lo “spatagliare” di governanti intorno a Leone XIV mi infastidisce e mi preoccupa.

 

L’assenteismo dei presenzialisti

Dopo la storica vittoria tennistica di Jasmine Paolini, anche la Premier Giorgia Meloni ha voluto unirsi alla celebrazione con un messaggio sui social: “Complimenti a Jasmine Paolini per una vittoria straordinaria agli Internazionali di Roma. Un’impresa che entra nella storia dello sport italiano e rende orgogliosa tutta la Nazione.”

Tuttavia, sotto il post della premier, è intervenuto con dure parole l’ex parlamentare Alessandro Di Battista, che ha scritto: “Subito a commentare i successi sportivi ma resti zitta di fronte a una mattanza di bambini senza precedenti. Come fai a guardarti allo specchio? Vigliacca come fai a dormire la notte? I tuoi amici terroristi israeliani uccidono per il gusto di uccidere. Stanno colpendo deliberatamente bambini e neonati e te zitta. Muta. La Storia non ti assolverà mai vigliacca!”.

Il presenzialismo off limits della premier italiana è decisamente fastidioso e provocatorio: il problema oltre tutto è che sotto questo vestito non c’è niente e che gli italiani ci stanno cascando alla grande.

Per la verità anch’io spesso mi sono chiesto e mi chiedo come facciano certi governanti di tutti i livelli a dormire sonni tranquilli di fronte ai problemi drammatici direttamente o indirettamente riconducibili alla loro inerzia o ignavia.

Purtroppo non tutti hanno la sensibilità di Giorgio La Pira che da sindaco di Firenze affermava di non poter dormire fintanto che nella sua città c’erano persone che passavano la notte sotto i ponti. Ecco come si espresse nel 1955 alla segreteria nazionale della DC: «Fino a quando mi lasciate a questo posto, mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli Italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà sempre assicurata al nostro Paese».

Mia sorella, nelle sue pur modeste cariche pubbliche ricoperte, soffriva una vera e propria ansia per non riuscire a rispondere ai problemi della povera gente a cui andavano le sue attenzioni. Ricordo che una volta, per tranquillizzarla un po’, arrivai a dirle che anche Gesù non riusciva a sanare e ad aiutare tutti, quindi…

Tornando a Giorgia Meloni e alla sua posizione verso i palestinesi, mi sembra opportuno richiamare il giudizio espresso da Moni Ovadia: secondo l’autorevole scrittore ed eclettico uomo di cultura che si definisce ebreo antisemita, forse il personaggio più lucido nel giudicare la vicenda israelo-palestinese, la premier italiana ha soltanto la preoccupazione di apparire in campo occidentale come la miglior amica di Israele. È detto tutto!

 

 

Un fiume di bombe e un rigagnolo di lacrime di coccodrillo

Per mettere fine a questa guerra è necessario comprendere il dolore. E credo che, fino a qui, il dolore della mia gente per il 7 ottobre non sia stato davvero capito. Non si tratta “solo” del peggior massacro terroristico che Israele ha subito dalla Seconda Guerra mondiale: è stato il massacro di persone che credevano nella pace, nella convivenza, che vivevano accanto, in senso fisico, a chi le ha uccise, bruciate, stuprate, rapite nel modo più crudele che si sia mai visto. Questo ha innescato meccanismi di auto-difesa, in un popolo intero, che non si possono liquidare con faciloneria. C’è poi il dolore dei palestinesi, e le assicuro che io, noi israeliani, lo sentiamo, lo viviamo come nostro. Ma c’è un’unica, sottolineo, un’unica chiave per aprire la porta a una soluzione, qualcosa che vi invitiamo a cercare insieme a noi, rivolgendo la nostra richiesta in particolare alla comunità cristiana: il rilascio degli ostaggi. Serve pressione per riportare a casa la nostra gente. Abbiamo 58 persone, là sotto, quaranta metri sotto terra, nelle condizioni che conosciamo. Abbiamo negoziato con Hamas. Ma li tengono lì, come arma per raggiunge il loro scopo che, in quanto jihadisti, è uno solo: cancellare il nostro popolo, e distruggere le altre religioni. Compresi i musulmani che non la pensano come loro, e che sono stati trucidati in quel Sabato Nero al pari di tutti gli altri. Ve lo posso garantire: se rilasciano gli ostaggi, ci sarà il più positivo e persistente cambiamento per Gaza e per tutta la regione. Come abbiamo visto in Siria e in Libano: situazioni che ci danno speranza. (così il presidente israeliano Herzog in un’intervista al quotidiano “Avvenire”)

La ferocia israeliana è forse il più grande paradosso della storia: da torturati a torturatori per colpa di un sentimento patriottico completamente fuorviante.

Altro che antisemitismo…

La tesi giustificazionista di Israele riguardo al genocidio di Gaza, che emerge anche dalle parole di Herzog, deve essere smontata pezzo per pezzo dal punto di vista etico, religioso, storico e politico.

I palestinesi non sono certo stinchi di santo, ma sono sempre stati lasciati a loro stessi, senza patria e senza degne prospettive di vita: si capisce persino la loro tentazione terroristica.

Come noto, in uno storico intervento al Senato, Giulio Andreotti, non certo un rivoluzionario, ebbe a dire: “Vorrei vedere come vi comportereste voi, se foste trattati da cani come i palestinesi…”.

Eticamente parlando, il comportamento di Israele non ha motivazioni plausibili se non quella della vendetta insensata e della rappresaglia spropositata.

Anche la storia parla in modo assai diverso dalla versione israeliana.

L’ipocrisia di Israele raggiunge il vertice nell’ostentata preoccupazione per i civili di Gaza: guardate come li tratta Hamas, urlano i democratici israeliani, così attenti ai diritti dei palestinesi. Hamas ha un atteggiamento tirannico, ma la sua tirannia non è nulla in confronto a quella di Israele, che ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio di 7 anni e un’occupazione che dura da 47 anni.

L’assedio è la prima causa della distruzione della società e dell’economia di Gaza, e tante grazie a chi sostiene di volerla salvare, a chi si preoccupa della sua mancanza di democrazia, a chi si stupisce per la corruzione, a chi denuncia il fatto che i leader palestinesi vivono in hotel di lusso o in bunker nascosti, a chi si indigna per i soldi spesi per i tunnel e i razzi anziché per i parchi gioco e le attività ricreative. Grazie, grazie tante. (Gideon Levy, giornalista israeliano)

Se andiamo sul terreno religioso, come dimenticare che il potere in Israele e in tutto il mondo è fortemente condizionato dai vertici dell’ebraismo. Quante volte mi sono sentito dire che in Israele comandano i capi religiosi!

Dirò di più: leggendo l’antico testamento della Bibbia, che fa riferimento alla storia del popolo Ebreo, si intuisce l’equivoco religioso pazzesco in cui cadono gli Israeliani, accompagnato appunto da una bruttissima storia di potere e da una classe dirigente bigotta e spietata.

Mi convinco sempre più che la Bibbia va letta e interpretata alla luce del messaggio evangelico: se togliamo Gesù le religioni diventano trappole mortali. So di non essere molto interreligioso, ma senza Gesù l’uomo rischia una tragica deriva personale e comunitaria.

Gesù dice di porgere l’altra guancia e tutti sorridono, sminuiscono e sottovalutano il perentorio invito: il non vendicarsi non è una virtù, ma una necessità se vogliamo costruire la pace. Vale per tutti, anche per Israele, che deve uscire dall’imbuto della tremenda vendetta.

Mi permetto allora di toccare un tasto delicato: come coniugare il dialogo interreligioso con la necessaria condanna della complicità dell’ebraismo rispetto al massacro di Gaza e più in generale all’atteggiamento israeliano “colonialista” nei confronti dei palestinesi?

La ragion di stato e la realpolitik tentano di spiegare vomitevolmente l’atteggiamento morbido del cosiddetto Occidente democratico così ospitale nei confronti di Israele: è giunta però l’ora di finirla con la comprensione verso la furia vendicatrice e l’attenzione alle lacrime di coccodrillo.

A maggior ragione, dal punto di vista religioso, non è ammissibile voltarsi dall’altra parte, nascondersi dietro confusi e generici richiami alla pace del vogliamoci bene.

Un bel grattacapo per il nuovo Papa, il cui incipit teologico e pastorale è stata la ricerca della pace ed al quale vengono indirizzate pelose avance da parte israeliana – vedi l’intervista del presidente Herzog da cui sono partito: “Intendo porgere un messaggio sincero di amicizia, di rispetto e di dialogo. E voglio invitarlo in Terra Santa, qui da noi. Per incontrare il popolo israeliano” – sperando magari in un allentamento della posizione portata avanti da papa Francesco, peraltro nemmeno troppo spinta sul piano diplomatico, ma almeno cristianamente chiara.

 

La diplomazia asinina

Non è una delegazione con i pieni poteri, ma appare funzionale al raggiungimento di qualche risultato. A Mosca si dice che vi sia un altro gruppo pronto a partire. Non per parlare con l’Ucraina, ma con gli Usa, laddove ce ne fosse bisogno. Ne farebbero parte figure più note come il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, che ieri ha definito «uomo patetico» Volodymyr Zelensky, il consigliere del presidente Yuri Ushakov, e Kirill Dmitriev, il russo di Harvard, l’anello di congiunzione tra Cremlino e Casa Bianca. Quanto al Capo, Vladimir Putin si muoverà soltanto se riceverà l’invito anche ufficioso da parte di Donald Trump. A quello di Zelensky non ha ritenuto neppure di dover rispondere. Con un apposito decreto ieri il presidente russo ha rinnovato fino al 2027 il piano di difesa nazionale per lo sviluppo delle Forze Armate e l’attuazione dei programmi di armamento, e già che c’era ha rimosso dal suo incarico il comandante Oleg Salyukov, capo delle forze terrestri dell’esercito, che aveva per altro guidato la recente parata della Vittoria. Forse vuole la pace, ma intanto continua a preparare la guerra. (dal “Corriere della Sera” – Marco Imarisio)

Il vertice sull’Ucraina sta diventando un’occasione tattica per Putin: ottenere da Trump il riconoscimento di “grande potenza” con cui fare i conti per la spartizione del mondo. E Trump cosa farà?  Era partito in quarta, pensando di mettere sbrigativamente nel sacco Vladimir Putin con qualche concessione da far ingoiare a Zelensky. Né Putin né Zelensky sono così sprovveduti da cascare nel tranello trumpiano. E allora? Putin si fa subdolamente sponsorizzare dalla Cina: è il momento buono in quanto i cinesi sono obiettivamente in difficoltà di fronte alla dichiarata guerra commerciale dei dazi. Zelensky si attacca all’Europa: è il momento buono in quanto gli europei sono obiettivamente in difficoltà di fronte ai provocatori sgarbi della nuova politica americana.

Trump crede di essere il miglior fico del bigoncio, ma probabilmente si sbaglia e infatti sta facendo vergognose marce indietro, creando una confusione diplomatica in cui probabilmente ha molto da perdere.

Putin crede di essere il più furbo e forse lo è, ma prima o poi dovrà pure fare i conti con la sua vittoria di Pirro in Ucraina.

Xi Jinping crede di essere il più forte dal momento che associa la tranquillità politica alla strategia economica del suo regime, ma fino a quando i cinesi si accontenteranno di un finto benessere e di una reale mancanza di libertà.

Lasciamo perdere l’Europa che pensa di farsi grande con il riarmo e la forza dei litigiosi Paesi di punta.

L’Ucraina è costretta a fare le spese di questo bailamme diplomatico, in cui sta trovando un ruolo persino il premier turco Erdogan.

Tiro un’amara e forse esagerata conclusione: in mancanza dei cavalli, trottano gli asini. Ulteriore complicazione: gli asini sono troppi e non si lasciano legare dove vuole il padrone, che, peraltro, non esiste. Troppi asini, troppi padroni, troppi…

Uno sterminio da cortile

Un drappo rosso sangue che spunta ai piedi di una culla in segno di protesta contro le morti dei bambini uccisi a Gaza e cartelli in aria, nel silenzio. È il presidio organizzato da Amnesty davanti alla Farnesina, sede del Ministero degli Affari Esteri, nel 77º anniversario della Nakba per chiedere la fine dell’invio di armi a Israele e il riconoscimento dello stato di Palestina. “L’appello è di intervenire per fermare il genocidio nella Striscia di Gaza – ha dichiarato Riccardo Noury di Amnesty International. – Un giorno forse una sentenza condannerà l’Italia per complicità. Bisogna riconoscere che a Gaza è in corso un genocidio, e contemporaneamente bisogna fermare ogni trasferimento di armi verso Israele e convincere altri partner dell’Ue a fare lo stesso”.

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Su invito del leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, i deputati di M5S, Pd e Avs si solo alzati in piedi in Aula per condannare “in silenzio” lo “sterminio” a Gaza. Un appello non accolto però dai membri del governo e dai parlamentari di maggioranza che, invece, sono rimasti seduti. “Siamo qui, nel luogo eletto della democrazia, e rivolgo un appello a tutti i colleghi, un segno di umanità diamolo. Condanniamo in silenzio questo sterminio di donne, di bambini, di giornalisti, tutte le vittime civili di Gaza. Alziamoci in piedi”, ha detto Conte durante il premier question time alla Camera. Il leader M5S si è allora rivolto alla presidente al Consiglio sottolineando: “Lei rimane seduta”, tra le grida dei colleghi che dicono: “Vergogna!”. “E gli ostaggi?”, hanno replicato i deputati del centrodestra rimasti anche loro seduti ai propri posti. Fontana a quel punto ha chiesto a Conte di terminare il suo intervento. “Mi rendo conto che lei agisce senza mandato sempre. Su Gaza non ha alcun nessun mandato degli italiani per dare copertura politica e militare al governo e alla condotta criminale di Netanyahu. Nessuna condanna nel suo intervento”, aveva sottolineato Conte rivolgendosi alla premier. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Qual è la motivazione della pilatesca posizione di governo e maggioranza?

“Non è stato Israele a iniziare le ostilità e c’era un disegno alla base dei disumani attacchi di Hamas e la crudeltà rivolta agli ostaggi” (così Giorgia Meloni in Parlamento). 

Abbiamo tutti presente come i bambini reagiscono rispetto ai violenti litigi che li coinvolgono: è stato lui o sono stati loro a cominciare. Con la piccola differenza che nel caso di Gaza non siamo in presenza di una rissa da cortile, ma del massacro di un’intera popolazione. Eppure fior di opinionisti continuano (per tutti Federico Rampini) a praticare una omertosa equidistanza tra massacratori e massacrati, strumentalizzando il pur esecrabile attacco terroristico di Hamas. Per fortuna non tutti la pensano così persino in Israele.

È così facile essere un israeliano: la tua coscienza è pura come la neve, perché tutto è colpa di Hamas. I razzi sono colpa di Hamas. Hamas ha cominciato la guerra, senza alcuna motivazione. Hamas è un’organizzazione terrorista. I suoi esponenti non sono altro che bestie, nati per uccidere, fondamentalisti. Circa 400mila palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case. Più di 1.200 sono stati uccisi. L’80 per cento erano civili. La metà erano donne e bambini. Circa 50 famiglie sono state spazzate via. Le loro case sono state distrutte con loro dentro. La tragedia ha raggiunto le dimensioni di un massacro, ma Israele ha le mani e la coscienza pulite. È tutta colpa di Hamas.

(…)

Personalmente non sono un ammiratore di Hamas, al contrario. Ma il tentativo di Israele di dare tutta la colpa a Hamas è inaccettabile. Presto la comunità internazionale giudicherà le atrocità di questa guerra. Hamas sarà criticata, giustamente, ma Israele sarà condannato e ostracizzato molto di più. E gli israeliani diranno: “È colpa di Hamas”. E il mondo intero riderà. (Internazionale.it -Gideon Levy – giornalista israeliano).

Ho letteralmente citato l’incipit e la conclusione dell’articolo di cui sopra, la cui lettura integrale consiglio a tutti coloro che vogliano uscire dai giochetti psico-politici per fare i conti con un vero e proprio sterminio in atto e prendere almeno le distanze dalle responsabilità di chi sta portando avanti questa disumana, vergognosa, tragica e colpevole guerra, nascondendosi dietro il dito della pur grave provocazione subita.

 

Il modello europeo è classico e non va fuori moda

«È urgente, direi prioritario, che l’Europa agisca, perché stare fermi non è più un’opzione». È dal summit sull’innovazione Cotec di Coimbra – lo stesso a cui era presente anche Mario Draghi – che Sergio Mattarella lancia un «appello all’azione» ai vertici delle istituzioni europee. Il tema scelto per l’edizione del 2025 è la competitività, parola finita in cima alle priorità di Bruxelles, in particolare dopo i report di Enrico Letta e dello stesso Draghi. «Progredire senza indugi e con efficacia in quest’ambito è largamente considerata condizione indispensabile all’ulteriore approfondimento del progetto d’integrazione continentale, al rilancio strategico dell’Unione Europea e alla preservazione di un’economia prospera per i suoi Stati Membri e i suoi cittadini», ha scandito Mattarella dal palco del summit in Portogallo.

Di fronte a un mondo che cambia sempre più rapidamente, il capo dello Stato invita l’Europa a darsi da fare per non rimanere indietro: «Sarebbe miope guardare all’Unione come a una costruzione nata “sottovuoto”. Al contrario, fin dalle sue origini gli Stati membri hanno prestato attenzione ad adattare l’Unione a un’ambiente politico ed economico in continua evoluzione». Il riferimento, anche se mai citato esplicitamente, è al terremoto politico, diplomatico e commerciale innescato dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Un passaggio delicato, a cui – secondo Mattarella – Bruxelles dovrebbe reagire lavorando «insieme per un’Europa più competitiva, tecnologicamente avanzata e quindi più sicura, capace di ridurre le sue dipendenze strategiche ma senza pregiudicare la tela di fondo di un ordine internazionale fondato sul libero commercio».

Il discorso di Mattarella a Coimbra arriva poco dopo la Turandot di Giacomo Puccini. Un assist perfetto per le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco il capo dello Stato. «Poc’anzi abbiamo ascoltato la romanza ‘Nessun dorma’, potrebbe applicarsi alla nostra Unione», ha detto il presidente della Repubblica. Dopodiché, Mattarella ha rivendicato tutto ciò che distingue il modello economico e sociale europeo, soprattutto rispetto a quello americano e cinese. «L’Unione si erge su solide fondamenta: un’economia di mercato aperta alla concorrenza e agli scambi internazionali; un sistema di banche centrali indipendente; un quadro giuridico stabile e affidabile; una concezione di Stato di diritto saldamente ancorata a una convinta tradizione democratica; politiche di redistribuzione attive ispirate al principio di solidarietà. Occorre essere orgogliosi – ha insistito Mattarella – di questa “eccezionalità europea” e progredire su tali presupposti». (da open.online)

Sono tre gli aspetti toccati dal presidente Mattarella, un europeista convinto in mezzo a troppi europeisti di maniera. Il primo punto riguarda la dinamicità del sistema europeo: non si può giocare sempre di rimessa, imprigionarsi in una diplomazia asfittica e inconcludente, credere nell’Europa ma solo un pochettino, fino a mezzogiorno. Non sono ammesse mezze misure!

Il secondo perentorio invito è quello di reagire al mondo e al modo trumpiani non solo e non tanto tatticamente, ma passando al contrattacco, agendo concretamente per un’Europa protagonista che è in gradi di mettere in campo un modello economico e sociale diverso rispetto a quelli degli Usa e della Cina. È inutile piangere sul latte versato da Trump, bisogna salvaguardare il latte europeo. Ogni botte dà il vino che ha, non è il caso di tentare di tagliare il vino democratico con quello sovranista e populista, ne uscirebbe comunque una vomitevole bevanda.

Il terzo discorso riguarda la consapevolezza di essere portatori, come europei, di un modello originale e competitivo, non rinunciando ai nostri principi per opportunismo geopolitico. Non so se all’alba vinceremo, so che avremo contribuito a costruire un mondo decisamente migliore rispetto a quello emergente dal quadro internazionale di questi tristissimi tempi.

Fa benissimo Sergio Mattarella a farci queste flebo europeiste, a lanciare queste sublimi provocazioni: ne abbiamo un bisogno estremo, se non vogliamo sprofondare del tutto in un mondo di egoismo, ingiustizia e guerra. (Dis)armiamoci e partiamo!

 

 

 

L’algebra papale

Quali erano i rapporti di papa Francesco con la base cattolica e con la gente in genere? Fra la gente era molto popolare, perché riusciva a sintonizzarsi con l’umore delle persone a cuore e Vangelo aperto: in lui prevaleva l’impostazione pastorale della misericordia.

Le sue difficoltà erano invece sul fronte interno laddove tende da sempre a prevalere l’impostazione dottrinale. Il pensiero di Bergoglio fu chiaro fin dall’inizio: non tendere in maniera esagerata alla sicurezza dottrinale a scapito della misericordia.

In molti, preoccupati di svilire la dottrina, facevano buon viso a cattiva sorte: li sa solo lui i bastoni fra le ruote che gli avranno messo i patiti della tradizione. Gli avevano consegnato una Chiesa disastrata dagli scandali e lui era riuscito a recuperare la fiducia e il consenso, toccando certi nervi scoperti. Siccome faceva male alla carne conservatrice non vedevano l’ora di sbarazzarsene e l’ora purtroppo è venuta. Non mi stupisco quindi del respirone di sollievo tirato da parecchi ambienti cattolici a pieni polmoni prevostiani: finalmente un papa che torna a vestire prada.

Checché se ne dica è stata troppo repentina la presa di distanza dal papato bergogliano: lo hanno archiviato con tanta sospettabile fretta.

Riusciranno le due correnti di cui sopra esistenti nella Chiesa e di cui si deve prendere atto – anziché negarle ipocritamente confondendole nella melassa del vogliamoci bene – a trovare un punto d’incontro? La prima comunità cristiana, dove le diversità di vedute non mancavano, riusciva nel dialogo franco e costruttivo a superare le divisioni, forse perché allora le preoccupazioni “politiche” e gli equilibrismi conseguenti non esistevano.

E la gente? Non ha spina dorsale, è succube dei media e, siccome i media sono immediatamente saltati sul carro del vincitore, anche la gente si è buttata a capofitto su Leone XIV: in fin dei conti, morto un papa se ne fa un altro. Il bagno mediatico si è immediatamente spostato da Bergoglio a Prevost.

Per papa Francesco l’espressione matematica può essere la seguente: più gente meno Chiesa o meglio più misericordia meno dottrina. Come si sa in algebra il prodotto finale è negativo. Non sono bastate le preghiere, che insistentemente Francesco chiedeva, a mutare quel meno di Chiesa in un più di Carità cristiana per tutti. Non so quale sia il risultato finale nelle coscienze: nella mia è stato “scombussolatamente” positivo, papa Francesco mi ha fatto bene!

Per papa Leone: più gente più Chiesa, con il prodotto positivo fin dall’inizio. Il nuovo papa va sul velluto: si dà enorme credito al suo parlare di pace come se il suo predecessore non ne avesse mai parlato.

Mi sovviene una sferzante annotazione di mio padre. Parlava il nuovo allenatore di una squadra di calcio – non ricordo e non ha importanza quale – che aveva ottenuto subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiese il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore rispose: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Tutto sommato, a tutti, convintamente o distrattamente, interessa più la dottrina della misericordia: la dottrina è fatta di parole che si possono aggirare e formalizzare, la misericordia richiede fatti concreti e ci tiene quindi sulla corda interpellandoci in prima persona.

Non mi convince la tesi secondo la quale il cardinale Prevost fosse e sia il compromesso ai livelli più alti fra dottrina e misericordia. C’era di meglio, penso al cardinale Tagle, che avrebbe inoltre garantito anche la mondializzazione del papato in chiave evangelica e non geopolitica.

Qualcuno sostiene che sia emersa l’esigenza di cambiare l’aria nei rapporti internazionali fra Vaticano e resto del mondo, con la Cina in particolare, forse non per difendere la Chiesa dalle intromissioni di quel regime, ma per fare un favore al trumpismo (boccaccia mia statti zitta!) e pagare un po’ di dazi religiosi agli Usa. Sembra che la candidatura del cardinale Parolin sia scivolata proprio sulla buccia di banana filocinese.

In conclusione, Pietro nelle intenzioni di Gesù, doveva avere la voce rassicurante e riconoscibile del pastore (pasci i miei agnelli e le mie pecore). Mentre per me la voce di Francesco lo era, anche se a volte dissentivo da certe sue linee, la voce di Leone temo di non riuscire a coglierla. Al momento mi sento una pecora senza pastore, salvo cambiamenti nella voce del pastore e nelle mie orecchie.