La commedia/tragedia degli equivoci

L’overdose a livello di informazione (?) sulla pandemia, oltre che provocare più disagio psicologico che attenzione etica e civica, rischia di distrarci colpevolmente dal contesto mondiale problematico entro cui la pandemia stessa si inquadra. Non è che il covid 19 abbia cancellato le altre questioni per obbligarci a pensare alla salute e all’economia in crisi, ma ci manda un messaggio di globalità problematica entro cui dobbiamo pensare, ragionare e vivere.

Alla intera realtà ci richiama la catena di attentati terroristici di matrice islamica susseguitisi in Francia ed Austria, legati anche al discorso migratorio gestito in modo approssimativo. Il fatto che un attentatore fosse sbarcato a Lampedusa o in qualche altra località europea, proveniente dalla Tunisia o da qualche altro Paese di religione islamica, non cambia di molto il problema, anzi rischia di fuorviare il discorso sulle ali del solito illusionistico pretesto della chiusura dei porti e del rimpatrio dei soggetti che andrebbero diversamente poi a zonzo per le vie europee a tagliare gole qua e là.

Il problema migratorio va comunque affrontato con spirito programmatico e gestito con oculatezza a prescindere dal covid. Non lo stiamo facendo: preferiamo ignorare il fenomeno, mettendolo magari nel mirino più o meno razzistico di chi vuol fare cagnara e non aspetta altro che l’attentato per riproporre la cosiddetta linea dura, vale a dire l’impossibile oltre che ingiusto paradigma del “basta, tutti a casa loro”. Tra i migranti c’è sicuramente chi è vocato pregiudizialmente alla delinquenza e chi approfitta per sfogare la rabbia razzista contro l’Occidente di cui la Francia è storicamente e culturalmente uno degli avamposti più appetibili.

La Francia sintetizza in se stessa tutti i valori positivi della nostra cultura e del nostro sistema, ma aggiunge nel pentolone anche tutti gli errori storici commessi nei confronti dei Paesi arabi ed africani. È inutile e disonesto nasconderlo: mentre giustamente piangiamo le vittime dell’insensato e tremendo odio dei terroristi, dobbiamo ammettere le colpe accumulate nel tempo a livello degli equilibri internazionali, che stanno alla base di assetti insostenibili e tenuti assieme con lo scotch degli interessi petroliferi.

C’è poi il delicato rapporto fra la libertà di stampa e di espressione e il rispetto dei principi e delle sensibilità di tutte le religioni, islamismo compreso. C’è proprio bisogno, per affermare le nostre irrinunciabili libertà, di andare a disturbare con pesanti affondi satirici la suscettibilità, più o meno strumentale, dei sedicenti credenti nel corano e dei sedicenti seguaci di Maometto. So benissimo che i terroristi e i loro sostenitori non hanno niente di religioso, ma dobbiamo togliere ad essi ogni e qualsiasi pretestuoso aggancio con il brodo di coltura islamico, così come gli islamici veraci devono tagliare ogni e qualsiasi ponte con i terroristi ed il terrorismo (cosa su cui mi permetto di nutrire qualche dubbio).

Occorre sgombrare il campo dagli equivoci di cui è impastato il rapporto con l’Islam: ammetto che invece aumentano le perplessità verso la teoria e la prassi di questo movimento. Si va dalle disposizioni coraniche che, come minimo, si prestano a notevoli storture interpretative ed applicative ai comportamenti di certi imam che si tolgono le scarpe per pregare, ma che culturalmente e tatticamente tengono i piedi in due paia di scarpe (l’Islam non violento e quello terrorista).

Dietro il macabro paravento del terrorismo si recita e si celebra appunto la commedia degli equivoci. Si va dalla disponibilità al dialogo al rifiuto delle regole di convivenza civile dei paesi ospitanti. Da parte nostra rispondiamo con una formale apertura che nasconde una sostanziale intolleranza ed una profonda diffidenza. Sembra di essere allo stadio dove i giocatori combattono e gli spettatori fanno finta di essere fuori dal gioco sporco, ma in realtà tifano a più non posso.

Ebbene, tifo a parte, l’asimmetrico scontro culturale rischia effettivamente di trasformarsi in profonda ed insanabile incomprensione con tutte le conseguenze del caso. Indubbiamente pesa la secolarizzazione occidentale: una “giusta” laicità che sta progressivamente involvendo “nell’ingiusto” categorico e strisciante rifiuto della dimensione religiosa della vita. Ma pesa anche (e quanto pesa!) la “giusta” considerazione della fede che si è storicamente sempre più incarnata nella fanatizzazione religiosa dell’Islam.  Se non si fa un passo indietro da entrambe le parti, il dialogo, al di là delle solidarietà contingenti e di maniera, rimane sostanzialmente impossibile. Credo però sia, tutto sommato, relativamente più facile per gli occidentali recuperare il rispetto per la fede, che non per gli islamici riportare la religione nel suo alveo, che poi è quello della fede senza “giuste cause” e senza orribili integralismi. Certo dobbiamo tutti deporre le armi offensive (lotta agli infedeli) e difensive (intolleranza verso l’Islam) della paura (del diverso culturalmente e religiosamente parlando), togliendo di mezzo ogni e qualsiasi pretesto teologico, culturale, religioso e sociale.

 

 

Una società fuori tema, un Paese che non esiste più

Mio padre a volte, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto – quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. E lui con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: “ No vagh a lét” E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Il leader della Confindustria, Carlo Bonomi, e quello della Cgil, Maurizio Landini, si sono confrontati direttamente alla rassegna “Futura” del sindacato di Corso Italia. Peggio di un dialogo fra sordi, un dibattito campato in aria, fuori dalla realtà. Qualcuno dirà che sono diventato qualunquista o populista. Nossignori, qui ormai è vietato scherzare e io sono stanco di fare finta che…

“In un rapporto di interlocuzione anche duro è necessario mettersi intorno a un tavolo, serve un Patto per l’Italia”, la prima uscita di Bonomi. “E al di là delle differenze, sediamoci e troviamo soluzioni per il Paese che influiranno molto sulla traiettoria economica dei prossimi 30 anni. Auspico un rapporto organico: è il momento della responsabilità e la nostra capacità di dialogo deve trovare la mediazione”, aggiunge il leader degli imprenditori.

Risponde Landini: “Siamo convinti che questo cambiamento o si fa insieme o non si fa. Ma io più che patti vedo contratti, il rinnovo dei contratti”. E dettaglia: “Credo sia il momento di investire sul lavoro, è il lavoro delle persone che sconfiggerà il virus, il rinnovo dei contratti. In questa fase abbiamo un’occasione irripetibile, c’è la possibilità di far ripartire gli investimenti pubblici. E noi vogliamo essere dei soggetti che vogliono essere coinvolti nella fase di progettazione di questi investimenti. Non si può andare avanti senza un confronto con i corpi intermedi – aggiunge Landini – e lo abbiamo dimostrato, non possiamo tornare a prima dell’emergenza, noi dobbiamo cambiare”.

Ma dove vivono questi signori affetti da sordità e cecità totali? Non hanno capito che sta crollando il mondo? Ma quali patti, quali contratti? Non si rendono conto che, ben che vada, si imporrà una gigantesca conversione industriale e il lavoro esisterà solo in tre settori: quello ecologico-ambientale, quello sanitario e quello educativo. I valori di ripartenza saranno appunto la natura, la vita e la cultura. Questa è la morale della favola. Mettiamocelo bene tutti in testa. Non c’è vaccino che tenga! Quali contratti può firmare un’industria senza futuro e quali patti si possono stipulare fra governo e forze intermedie, tutti incollati a schemi e categorie di un passato senza possibilità alcuna di ritorno? Tutta gente che sta timbrando il cartellino di un Paese che non esiste più. La rassegna che ha ospitato il dibattito di cui sopra si chiama paradossalmente “Futura”, mentre tutti cercano di difendere gli indifendibili assetti del passato.

Sono alle viste catastrofici epiloghi pandemici e/o sconvolgenti ripartenze. Non c’è nulla da recuperare e ristrutturare, bisogna ricostruire daccapo, rifondare la nostra convivenza e ricominciare da zero. Mi fanno sinceramente pena quelli che si rammaricano di non potere trascorre i fine-settimana nelle casette al mare, in montagna o al lago. Sì, siamo tutti in una barca che naviga su un immenso mare di merda; siamo tutti ai piedi di montagne impossibili da scalare; siamo tutti in un lago di lacrime.

Torno a bomba. Confindustria e sindacati vogliono triangolare col governo. Quale governo? Quello dei banchi con le rotelle? Quello delle flebo ai moribondi? Quello che vuole combattere una pandemia senza ospedali e senza rianimazioni? Quello che spende i soldi che non ha, senza essere peraltro nemmeno capace di spenderli? Quello che fa un decreto al giorno perché leva la pandemia di torno? Quello ventilato da un’opposizione inguardabile, inascoltabile, rifiutabile a scatola chiusa?

Mi sovviene la canzone “Triangolo” di Renato Zero.

 

Lui chi è?
Come mai l’hai portato con te?
Il suo ruolo mi spieghi qual è?
Io volevo incontrarti da sola
Se mai
Mentre lui
Lui chi è?
Lui chi è?
Lui chi è?
Già è difficile farlo con te
Mollalo
Lui chi è?
Lui cos’è?
Lui com’è?

L’espressione “gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” del grande Gino Bartali, che così declamava quando parlava dei problemi del ciclismo su strada, è ormai entrata in uso comune, ma ora è diventata un articolo da aggiungere alla nostra meravigliosa Costituzione. Abbiamo svolto, in barba agli insegnamenti dei Costituenti, un tema con tante belle parole e tante belle espressioni. Lo abbiamo consegnato convinti di aver fatto quasi un capolavoro. Il docente neo-assunto, che si chiama Covid, ce l’ha restituito con questo lapidario giudizio: “Tutto molto bene, ma siete fuori tema”.

Non c’è giorno della mia vita in cui non emerga, con più o meno forte risonanza, un insegnamento lasciatomi in preziosa eredità da mio padre. Chi mi conosce e mi frequenta me ne può dare atto perché spesso il ricordo rimbalza sugli altri, direttamente o indirettamente, straripa a livello d’ambiente, ricade sui miei interlocutori che, loro malgrado, si trovano a fare i conti con la filosofia spicciola di un uomo d’altri tempi. Quasi sempre il messaggio mantiene intatta la sua attualità, la sua abbondante dose di ironica, per non dire graffiante, provocazione, in una gustosa miscela di anticonformismo, radicalismo, anarchia, trasgressione etc: il tutto insaporito da una spruzzata di autentica parmigianità, molto soft, poco ostentata, ma sottilmente e gradevolmente percettibile. In questa fase storica intingo la penna in questo calamaio, non ho altra scelta e lo faccio volentieri. Carta, penna e calamaio per ricominciare a scrivere. Per tentare di continuare a vivere in un’altra società.

 

 

Il macabro valzer dei commissari

Se non ho capito male, la regione Calabria è da tempo in emergenza sanitaria al punto da avere un commissario da circa un decennio. Il Consiglio dei ministri ha prorogato ancora una volta il commissariamento della sanità regionale che dura da un decennio. Commissario era Saverio Cotticelli, nominato nel 2018 e confermato nel 2019, a cui vengono chieste le dimissioni dopo una incredibile intervista durante la quale ammette con imbarazzo di non avere capito di essere stato incaricato dal governo anche del “Programma operativo per la gestione dell’emergenza Covid”. Della serie “io non c’ero e se c’ero dormivo e se dormivo sognavo di non esserci”.

Dopo l’imbarazzante intervista pubblica, il Capo del Governo Giuseppe Conte ha detto: «Il generale Saverio Cotticelli va sostituito con effetto immediato». Aggiungendo: «Voglio firmare il decreto già nelle prossime ore: i calabresi meritano subito un nuovo commissario pienamente capace di affrontare la complessa e impegnativa sfida della sanità». In tarda serata al suo posto è stato nominato Giuseppe Zuccatelli attualmente il commissario straordinario dell’Azienda ospedaliera Pugliese Ciaccio di Catanzaro e del Policlinico universitario Mater Domini, sempre nel capoluogo calabrese. Contattato dall’Ansa, il suo unico commento è stato: «Guardi, sono risultato positivo e sto finendo la quarantena, ci sentiamo nei prossimi giorni».

Dopo pochissimi giorni arrivano le dimissioni di Giuseppe Zuccatelli. «Mi sono dimesso da Commissario ad acta della sanità della Regione Calabria». Zuccatelli aveva confermato al telefono: «Me l’ha chiesto il ministro della Salute Roberto Speranza e come avevo già anticipato durante l’intervista a Buongiorno regione, ho rassegnato le dimissioni». Aggiungendo: «Ho fatto una gaffe ed è giusto che paghi. Spero che chi ha commesso o detto delle idiozie, in passato, faccia la stessa cosa». «Sono stato nominato Commissario, ma non mi è stato ancora notificato il decreto, dunque non sono in grado di svolgere le mie funzioni» aveva affermato poche ore prima del colloquio con Speranza. Fatali al commissario sono state le sue parole sull’inutilità delle mascherine pronunciate pochi mesi fa.

I commissari della sanità calabrese saltano come birilli. A poche ore dalle dimissioni del commissario Giuseppe Zuccatelli, arrivano le nuove nomine per la sanità calabrese. Sarà il cosentino Eugenio Gaudio, già Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, il nuovo commissario alla Sanità della Regione Calabria. Ma insieme a lui arriverà anche Gino Strada. Il fondatore di Emergency ha confermato la disponibilità, anche con una delega speciale.  “Due nomi autorevoli che possono aiutare la sanità calabrese a ripartire”, spiegano fonti di Palazzo Chigi. Poi però su Facebook è arrivata la precisazione di Gino Strada: “Apprendo dai media che ci sarebbe un tandem Gaudio-Strada a guidare la sanità in Calabria. Questo tandem semplicemente non esiste. Ribadisco di aver dato al presidente del Consiglio la mia disponibilità a dare una mano in Calabria, ma dobbiamo ancora definire per che cosa e in quali termini. Sono abituato a comunicare quando faccio le cose – a volte anche dopo averle fatte – quindi mi trovo a disagio in una situazione in cui si parla di qualcosa ancora da definire”, aggiunge il fondatore di Emergency. Strada ringrazia “il Governo per la fiducia” e rinnova “la disponibilità a discutere di un possibile coinvolgimento mio e di Emergency su progetti concreti per l’emergenza sanitaria che siano di aiuto ai cittadini calabresi”.

Ebbene, appena nominato dal Consiglio dei ministri, Gaudio ha rimesso l’incarico. Alla base delle dimissioni dell’ex rettore dell’università La Sapienza di Roma ci sarebbero «motivi personali». “Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro. Un lavoro del genere va affrontato con il massimo impegno e non ho intenzione di aprire una crisi familiare” così dichiara a La Repubblica. “Sarebbe una sfida importante, ma la famiglia per me è un valore primario” aggiunge. A proposito dell’inchiesta giudiziaria in cui è stato coinvolto, precisa:
“Sono sempre colpito dall’imbarbarimento della politica. Le do una notizia in proposito, però: il procuratore di Catania ha appena fatto sapere al mio avvocato che è andato a depositare la richiesta di archiviazione per la mia presunta turbativa nei concorsi. Ne esco come ne sono entrato, pulito. Vorrei ricordare questo…”. E conclude: “Avrei voluto provare. È un impegno gravoso, ma mi sono sempre messo a disposizione del servizio pubblico. Ho trovato resistenze in casa, e a questo mi piego. L’ho detto per tempo al ministro Speranza”.

Non si sa come finirà questa assurda telenovela calabrese, che scatena non pochi interrogativi. Come è possibile che un commissario incaricato di sistemare e gestire la sanità a livello regionale non si ponga il problema dell’emergenza Covid? Evidentemente tra lui e il ministro competente non esisteva alcun rapporto informativo e collaborativo. La Calabria è una regione disastrata dal punto di vista sanitario e la situazione è resa ancor più grave dalla pandemia in atto: nessuno si preoccupa di verificarne l’assetto direttivo, occorre una intervista per far scoppiare il caso e costringere il governo ad intervenire facendo fare le valigie ad un commissario irresponsabile ed inetto.

Entra in campo un nuovo commissario sulla base di una nomina a dir poco frettolosa. Basta poco tempo per verificare l’inadeguatezza al ruolo del prescelto, complici alcune sue demenziali, anche se precedenti, dichiarazioni in materia di Covid, tali da far considerare Giuseppe Zuccatelli un riduzionista. Chi ha fatto questa nomina e sulla base di quali elementi è stata fatta? Forse assieme a Zuccatelli dovrebbe dimettersi anche qualcun altro.

Arriva il terzo commissario nel giro di pochi giorni e scoppia un altro equivoco. Assieme ad Eugenio Gaudio dovrebbe lavorare Gino Strada. Appena il tempo per tirare un sospiro di sollievo per la regione Calabria e arriva una precisazione del fondatore di Emergency: il mio ruolo è tutto da scoprire, staremo a vedere. Capisco le perplessità di Gino Strada, un uomo abituato a farsi su le maniche per affrontare situazioni tali da mettersi le mani nei capelli, ma evidentemente piuttosto dubbioso di fronte ad un quadro istituzionale a dir poco incasinato. Capisco meno il governo, che spara a salve un nome rassicurante probabilmente per farsi perdonare le colpevoli incertezze evidenziate in tutta la vicenda. Poi anche il terzo commissario rinuncia e si deve ricominciare tutto daccapo: evidentemente quella poltrona è molto scomoda, scotta e, a maggior ragione, è inutile e pericoloso continuare a sparare nomi a casaccio.

Morale della favola: la regione Calabria ed i calabresi sono vittima di questo vergognoso “tira e molla” e stanno soffrendo le conseguenze di una pregressa situazione disastrosa ulteriormente aggravata dall’emergenza Covid e dalla sua gestione più assente che scriteriata. Calabria naturalmente in zona rossa. Speculazioni politiche a parte, il rosso dovrebbe essere il colore dominante anche per segnare la vergogna sui visi di chi ha governato in passato, remoto e prossimo, questa realtà. Rosso dovrebbe essere il cartellino per chi a livello governativo (non) si sta occupando della sanità calabrese. Non stupiamoci più di tanto che, in questo paradossale bailamme, la gente butti masochisticamente il prete nella merda, dopo che i governanti hanno scagliato il pallone in tribuna, facendo nomine commissariali alla viva il parroco.

Il vizio evangelico della povertà

Se vado al dunque della solidarietà così come intesa nella mia famiglia di origine, se torno ai fondamentali della mia educazione, devo riferirmi alla regola d’oro di mio padre: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”. Papà non era papa, ma la sapeva lunga. Volete la dimostrazione? Ecco di seguito cosa scrive e dice papa Francesco nel suo messaggio in occasione della IV Giornata Mondiale dei Poveri.

“Tendi la mano al povero” fa risaltare, per contrasto, l’atteggiamento di quanti tengono le mani in tasca e non si lasciano commuovere dalla povertà, di cui spesso sono anch’essi complici. L’indifferenza e il cinismo sono il loro cibo quotidiano. Che differenza rispetto alle mani generose che abbiamo descritto! Ci sono, infatti, mani tese per sfiorare velocemente la tastiera di un computer e spostare somme di denaro da una parte all’altra del mondo, decretando la ricchezza di ristrette oligarchie e la miseria di moltitudini o il fallimento di intere nazioni. Ci sono mani tese ad accumulare denaro con la vendita di armi che altre mani, anche di bambini, useranno per seminare morte e povertà. Ci sono mani tese che nell’ombra scambiano dosi di morte per arricchirsi e vivere nel lusso e nella sregolatezza effimera. Ci sono mani tese che sottobanco scambiano favori illegali per un guadagno facile e corrotto. E ci sono anche mani tese che nel perbenismo ipocrita stabiliscono leggi che loro stessi non osservano.

Viene spontaneo porre due obiezioni. La prima: celebrare questa giornata può servire a tacitare le coscienze lasciando immutata la situazione. Se a creare il mondo, come sostiene la Bibbia, sono stati necessari ben sette giorni, figuriamoci se un giorno basterà a risolvere il problema della povertà nel mondo.  Parlare di povertà è facile, praticarla un po’ meno, anche per la Chiesa. L’affarismo che in essa alberga suona scandaloso nei confronti dei poveri. Basta riformare le strutture vaticane che dovrebbero amministrare con sobrietà e giustizia i beni ecclesiastici o bisogna rinunciare a questi beni spogliandosi evangelicamente di ogni e qualsiasi orpello economico-finanziario? La Chiesa istituzione ha le sue necessità, ma fin dove queste necessità non diventano alibi per coltivare affari evangelicamente inopportuni e addirittura legalmente illeciti? E certi comportamenti di altolocati uomini di Chiesa non fanno a pugni con l’imperativo dell’attenzione ai poveri e con la fedeltà allo spirito delle Beatitudini?

Alcuni Padri del Concilio Vaticano II assunsero un preciso impegno: «Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti». Un consistente gruppo di vescovi, col cosiddetto Patto delle Catacombe a latere del Concilio, furono ancora più chiari e dettagliati: «Noi vescovi rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (questi segni devono essere effettivamente evangelici)». Ho l’impressione che la gerarchia e il clero in generale lasci parlare bene i santi e continui a scherzare coi fanti imitandoli a più non posso o, se volete, nasconda dietro il parlar bene di alcuni il razzolar male di altri (troppi!).

La seconda obiezione è di carattere sociologico e macro-economico: il sistema capitalistico è una macchina schiacciasassi che non consente deroghe alla logica del profitto a tutti i costi. Ha un bel dire il papa: non è quindi velleitaria la rivoluzione per l’economia ipotizzata nella recente enciclica Fratelli tutti? Come si chiede acutamente il mensile paolino Jesus, il dogma neoliberista è finito? È pur vero che la pandemia ha definitivamente messo a nudo le contraddizioni dell’economia di mercato quando agisce senza regole, ma nel nuovo “disordine mondiale” un cambio di rotta non sembra essere tra le priorità (quasi) di nessuno.

Papa Francesco risponde a tono: “È vero, la Chiesa non ha soluzioni complessive da proporre, ma offre, con la grazia di Cristo, la sua testimonianza e gesti di condivisione. Essa, inoltre, si sente in dovere di presentare le istanze di quanti non hanno il necessario per vivere. Ricordare a tutti il grande valore del bene comune è per il popolo cristiano un impegno di vita, che si attua nel tentativo di non dimenticare nessuno di coloro la cui umanità è violata nei bisogni fondamentali”.

Diceva il vescovo dei poveri Helder Camara: «Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Monsignor Oscar Romero, vescovo del Salvador, sosteneva: «Non è amore voler nascondere con l’elemosina ciò che si deve per giustizia». Non è un caso che l’enciclica papale abbia urtato la suscettibilità dei liberisti ad oltranza e non è una novità che papa Francesco venga considerato ed osteggiato da certi ambienti interni ed esterni alla Chiesa come un pericoloso eretico, comunista e pauperista vestito di bianco. Lui risponde così a chi l’accusa: «I comunisti ci hanno rubato questa bandiera, ma i poveri sono al centro del Vangelo».

Il problema dei poveri e della povertà dentro e fuori della Chiesa rimane aperto. C’è di che discutere, ma soprattutto ci sarebbe di che fare a livello dei singoli e delle comunità. A proposito di comunità, quella di Santa Cristina, guidata da don Luciano Scaccaglia, metteva in bocca a Gesù queste parole: «Io ho curato molti malati, molte bambine, molti lebbrosi, ma non tutti; ho accolto molti stranieri, ma non tutti; non ho avuto il tempo, a 33 anni mi hanno ucciso perché stavo dalla parte dei poveri; ora tocca a voi, ragazzi, a voi adulti. Siate ospitali con tutti; se potete, cercate casa e lavoro per chi non ce li ha. Voi conoscete la mia predilezione per i più deboli, sia anche la vostra».

Sono partito con la regola di mio padre e termino con un’altra regola di fonte famigliare. Luciano Scaccaglia, il mio amico “pretaccio”, amava ricordare un forte ed irrinunciabile insegnamento materno, di quelli che, anche volendo, non si possono dimenticare e tanto meno tradire: «Se nella vita non vuoi sbagliare, stai dalla parte dei poveri».

 

 

 

 

 

Un secco “no” al coprifuoco sentimentale

Mi fa sinceramente pena la superficialità e l’infantilità con cui si sta pensando alle prossime feste natalizie in chiave (anti) Covid. Innanzitutto – non voglio essere più catastrofico della catastrofe che stiamo già vivendo – bisognerebbe augurarsi di arrivare a questo appuntamento e chiedersi dove lo potremo vivere seriamente, se su questa terra o nell’aldilà. La precarietà, che è il dato caratteristico e inquietante di questo periodo, ci impone di vivere alla giornata, non nel senso di deresponsabilizzarci rispetto al futuro, ma per prepararci ad esso in modo ragionato e disincantato.

Ammesso e non concesso di arrivare al traguardo natalizio, smettiamola, per favore, di pensare solo ai cenoni ed ai pranzi. Rimanere incollati a questa visione consumistica significa non avere capito niente del Natale e del “messaggio covidiano”. Certo il Natale non farà che accentuare il dramma dei difficili (al limite dell’impossibile) rapporti umani ravvicinati: quindi il problema non sta tanto sulla tavola ed intorno ad essa, ma nel riuscire a difendere i nostri sentimenti dall’attacco divisivo del virus. Personalmente non vedo altra strada se non l’approfondimento dei nostri reciproci sentimenti a prescindere dalle occasioni per esternarli, o meglio, selezionando queste occasioni e valorizzandole interiormente.

Affermo con assoluta convinzione di non rinunciare a coltivare i miei legami sentimentali in nome di una pseudo-difesa fisica contro il “virus nero” che vuole mangiarmi. Se essere negazionisti vuol dire non piegarsi alla logica brutale dell’isolamento e della chiusura in se stessi, mi iscrivo anch’io a questo partito, di per sé paradossale, demenziale e masochistico. Se per vivere devo rinunciare a vivere, meglio morire. Però l’unico dato irrinunciabile della nostra esistenza non sono le feste, i balli, i cenoni, i pranzi, gli apericena, le merende al ristorante, le colazioni al bar, le serate spensierate e i botti, l’essenza del nostro vivere non è nemmeno coltivare gli interessi culturali, visitando mostre, musei, librerie, partecipando a convegni e concerti, frequentando discoteche, teatri, cinema etc. etc.,  l’importante è “il cuore” e quanto contiene.

Il coronavirus potrà vuotarmi le tasche, rinsecchirmi la pancia, financo condizionarmi la mente e incasinarmi la psiche, ma il cuore non me lo può toccare, anzi me lo arricchisce e mi costringe a rivalutarlo pienamente. “Un caffè con un amico vale più di qualsiasi libro”. Questa frase sta nel film “Centochiodi”, che è un film di Ermanno Olmi, girato nel 2007: mi ha cambiato la vita. Ricordo di averla letta in anteprima durante una seduta di lettura giornaliera. Ho rimesso negli scaffali tutti i libri che avevo in ballo e sono uscito alla spasmodica ricerca di un amico. Mi si dirà che adesso non lo si dovrebbe più fare: ebbene, telefoniamo ad un amico. D’altra parte credo proprio che Olmi intendesse paradossalmente fissare una scala di priorità imprescindibile a livello esistenziale.

Accetto il “coprifuoco logistico” e sarei ancor più deciso in tal senso, ma rifiuto categoricamente il “coprifuoco sentimentale”. Ecco perché mi fanno sorridere le preoccupazioni natalizie riferite agli aspetti esteriori della festa. Abbiamo da tempo accantonato il significato religioso del Natale, ne abbiamo fatto un totem consumistico e affaristico. Forse anche il Covid ci impone di rivedere questa assurda mentalità: torniamo al vero Natale, quello che non teme i virus, quello che dà un senso profondo alla nostra vita e niente e nessuno ce lo potrà togliere.

Quando si avvicinavano le feste di Natale mio padre registrava quasi con fastidio, con un notevole senso di sorpresa, una ricorrente domanda che gli veniva formulata “Indò vät par Nadäl “. Questo succedeva nel periodo delle vacche grasse, perché, quando regnava sovrana la miseria, tali richieste sarebbero risuonate assurde per non dire offensive. E la risposta, pronta e spontanea anche se un po’ risentita e giustamente provocatoria, fulminava l’interlocutore: “Tutti, s’ j én lontàn, i fan di vèrs da gat  par gnir a ca’, e mi ch’a són a ca’ vót ch’a vaga via?” . Si trattava, a ben pensarci, di un libero rifacimento del classico “Natale con i tuoi”, ma un po’ più ragionato e motivato da una logica stringente e indiscutibile che inchiodava, col buon senso, chi proponeva l’evasione in una pur legittima uscita dagli schemi. Per mio padre non se ne poteva neanche parlare: Natale=famiglia e basta così. Questa battuta, che spesso in vista del Natale mi capita di rammentare, viene a fagiolo in clima Covid ed a chiosa del discorso appena fatto.

Melania santa subito

Avevo un collega molto impegnato nella sua professione, che, nonostante la necessità di osservare ritmi e orari di lavoro al limite della sopportabilità, malgrado la complessità e difficoltà dei problemi che era chiamato ad affrontare, pur nella complessità di rapporti che gli erano imposti, riusciva a mantenere una calma ed una serenità invidiabili. Lo sapevo sposato con prole e mi chiedevo come potesse conciliare l’impegno lavorativo così assorbente con l’esigenza di partecipare seriamente alla vita famigliare. Azzardai un pronostico. Gli dissi a bruciapelo: «Tu hai un ottimo rapporto con tua moglie!». Mi guardò piuttosto incuriosito da questa mia fugace ma decisa intromissione e mi chiese: «Come fai a saperlo?». Risposi: «Lo vedo da come ti comporti, dalla calma e tranquillità con cui lavori…». Mi confermò che avevo colto nel segno e mi spiegò di avere trovato un’ottima combinazione esistenziale con la sua compagna, concedendo ad essa gran parte del merito per i risultati raggiunti.

D’altra parte è un classico sentire dagli uomini, che raggiungono importanti obiettivi nei diversi campi della loro attività, parole di ringraziamento per le loro compagne: senza l’aiuto di mia moglie non sarei mai arrivato a questo importante traguardo, molto del merito va a lei. Non credo si tratti di un ritornello a livello di mera piaggeria, ma di un riconoscimento assegnato sul campo. L’apporto femminile nella coppia è fondamentale alla faccia dei maschilisti e financo delle femministe.

Ecco perché, senza scadere nel gossip, guardo con attenzione al futuro dell’unione fra Trump e la moglie Melania. Può darsi non si tratti di un matrimonio d’amore, ma pur sempre di matrimonio si tratta. Alcuni danno Melania sull’orlo del divorzio, altri ritengono che i reciproci interessi, d’immagine (per Trump) e di portafoglio (per Melania), terranno unita comunque la coppia, almeno formalmente. Osservando (quasi) con ribrezzo il comportamento del presidente americano mi sono più volte chiesto come facesse sua moglie a sopportare un simile soggetto a prescindere dall’avere o meno, come si suole dire, attaccato il cappello all’attaccapanni della Casa Bianca. Voci di screzi e divergenze si sono rincorse fino ad arrivare alla previsione di un imminente e morbido divorzio. Forse si è trattato di un “divorzio matrimoniale” fin dall’inizio, fatto sta che le follie trumpiane lasciavano intendere la mancanza della supervisione sentimentale di una donna amata.

Melania Trump, la bella moglie del presidente americano, scese in campo per la prima volta su una questione politica, criticando il marito per la linea dura contro gli immigrati al confine col Messico.  Ha coraggiosamente affermato: «Odio vedere bimbi separati dalle loro famiglie». Non so come l’abbia presa Donald Trump. Le donne hanno comunque sempre una marcia in più e riescono a far pesare il cuore anche nelle faccende politiche. Magari Melania farà come Veronica con Berlusconi, gli darà il ben servito. Non ho la vocazione a rovistare sotto o sopra le lenzuola di alcuno, men che meno di questi personaggi pubblici, di cui mi interessano ben altri profili di carattere politico. Fortunatamente il ben servito gliel’hanno dato gli americani, rinsaviti dopo il loro penoso affidamento ad un simile squallido figuro.

C’è poco da fare l’avventurismo politico spesso coincide con quello sessuale e sentimentale. Non esigo governanti bigotti (gli avventurieri sono spesso i più bigotti) e bacchettoni, ma, per i motivi di cui sopra, non mi sento di consegnare un Comune, una Regione, uno Stato, una Unione di Stati a chi dimostra clamorosi squilibri in campo sentimentale.  Spesso si dice di voler distinguere tra vita privata e impegno pubblico: accetto questo principio fino al momento in cui i vizi privati non compromettono irrimediabilmente le pubbliche virtù e prendendo atto come spesso sono proprio i vizi privati a comportare quelli pubblici.

Credo che il giusto atteggiamento lo abbiano trovato i nostri costituenti, che la sapevano lunga: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Cosa significhino disciplina ed onore è tutto da scoprire, ma, per tornare a Trump, non mi sembra che il suo sia stato un comportamento esemplare. Melania ce ne può dare atto, pur non essendo uno stinco di santo.

 

 

 

I ladri di Pisa e di…Covid

Nei giorni scorsi dialogando con un amico avevo preso in seria considerazione l’atteggiamento costruttivo di Silvio Berlusconi nei rapporti col governo in materia pandemica, improntato a svelenire il clima di contrapposizione fra maggiorana e opposizione offrendo la disponibilità a valutare le misure varate dal governo ed elaborando concrete proposte aggiuntive e/o emendativeAl termine del breve colloquio mi sono permesso di sollevare un malizioso dubbio: tutto molto bene a meno che Berlusconi non abbia più o meno inconfessabili secondi fini non certo di carattere politicamente strategico, ma di valenza brutalmente bottegaia. Pensavo alle sue aziende che hanno sempre rappresentato il leitmotiv dell’impegno politico berlusconiano.

Passano pochi giorni e leggo al riguardo un titolo piuttosto inquietante su Formiche.net: “L’astensione della Lega (e il no in Commissione) al Senato sull’emendamento Pd per difendere Mediaset da Vivendi apre un crepaccio nel centrodestra. Un monito a Silvio Berlusconi e ai suoi flirt con il Conte bis. Salvini nega, ma alcuni fra i suoi sono sgomenti, “è incomprensibile”. Preso dalla curiosità ho letto il pezzo che di seguito riporto integralmente. Lo faccio per lasciare ad altri la responsabilità di inserire questioni così piccanti e insinuanti, aggiungendo benzina sul fuoco del dibattito politico già tanto teso e poco leale. Lo faccio però anche per esercitare un dovere di critica come cittadino senza voltarmi dall’altra parte di fronte a fatti quanto meno imbarazzanti, ammesso e non concesso che ne venga acclarata la fondatezza.

La Lega mette in mora Forza Italia? Lo stop dei leghisti in Commissione Affari costituzionali del Senato all’emendamento anti-scalate per difendere Mediaset dai francesi di Vivendi ha suonato un campanello d’allarme nel centrodestra. L’emendamento “per proteggere le aziende italiane televisive ed editoriali” era stato presentato dalla relatrice del decreto Covid, la dem Valeria Valente, per fermare l’avanzata del gruppo guidato da Vincent Bolloré, ad oggi proprietario di una quota del 9,98%, dopo aver affidato a una società indipendente senza diritto di voto la restante quota del 19% su richiesta dell’Agcom.

A settembre una sentenza della Corte di Giustizia Ue aveva ritenuto inappropriato l’intervento dell’Authority guidata da Giacomo Lasorella, di fatto dando un via libera a Vivendi per riprendere fra le mani l’intera quota Mediaset. Con lo scudo preparato dal governo, Agcom avrebbe invece la possibilità di congelare per sei mesi la scalata nel gruppo di Silvio Berlusconi richiedendo un’istruttoria.

Per questo lo stop leghista a Palazzo Madama ha suscitato rabbia e sgomento fra i forzisti, tanto più perché arriva a pochi giorni dalla relazione del Copasir (presieduto dal leghista Raffaele Volpi) che ha acceso i riflettori sulle mire francesi su Generali e Unicredit.

Prendendo la parola in aula, il segretario Matteo Salvini ha negato i retroscena di uno strappo nel centrodestra, annunciando l’astensione della Lega sull’emendamento dem (che è poi stato approvato). “Una grande riforma non si fa di notte con un emendamento al decreto Covid, si fa con trasparenza”, ha tuonato il “Capitano”.

Eppure in tanti l’hanno letta in modo diversa. A qualcuno lo stop di Salvini all’emendamento salva-Biscione è suonato come un monito a Berlusconi, reo di un flirt troppo prolungato con la maggioranza di governo sull’emergenza coronavirus che nelle ultime settimane ha preso le sembianze di un’intesa politica.

A tradire la frattura le violente reazioni dei senatori forzisti. “Credo che la Lega in Commissione non abbia compiutamente valutato la situazione”, ha mugugnato Maurizio Gasparri, padre dell’omonima legge sul riassetto delle telco in Italia. Ci va giù pesante Andrea Cangini, “evidentemente Salvini ha cambiato slogan: da ‘prima gli italiani’ a ‘prima i francesi’”. Gli fa eco Osvaldo Napoli, “Salvini non vuole alleati ma solo plauditori”.

Ma a sollevare il sospetto di una crisi domestica è soprattutto quella velina fatta circolare da fonti leghiste a metà pomeriggio, che prima specifica come la Lega sia sempre a favore delle aziende italiane e a difesa dell’italianità”, ma si premura di aggiungere che i vertici di via Bellerio non vogliono credere “ad alcune ricostruzioni (come quella di Dagospia) che parlano di inciucio tra la maggioranza e Forza Italia”. A riprova che il patto del Nazareno su Mediaset ha messo sull’attenti i leghisti, Salvini in aula ricalca: “Non credo a un inciucio Conte-Berlusconi, su questo emendamento”.

L’emendamento è passato, lo strappo leghista si vedrà. Intanto anche dentro al Carroccio c’è chi rimane sgomento. “Incomprensibile, ne stavamo parlando oggi”, confida a Formiche.net un fedelissimo di Salvini. Ma un collega prova a spiegare: “Il primo voto è stato un errore-messaggio. Tattica, insomma. Poi è stato corretto con l’astensione”.

Cosa aggiungere a commento? Se il Covid fosse diventato occasione per scambi di favori a livello parlamentare, sarebbe cosa gravissima e squalificante per una politica che non riesce mai a distanziarsi da operazioni opache e affaristiche: un autentico insulto alla sofferenza del popolo italiano. Dietro la pandemia ci sarebbe chi coglie occasioni per fare i cazzi propri in modo più o meno elegante.

Non trovo motivo di soddisfazione nel cogliere difficoltà tattiche nel centro-destra: ammesso e non concesso che esistano queste divergenze, piove sul bagnato della incapacità dell’opposizione a fare seriamente il suo mestiere in una fase storica che richiederebbe il massimo dell’impegno. Da una parte ci sarebbe Salvini che sputa veleno sul governo comportandosi come lo spretato nei confronti del vescovo Conte che lo ha colto con le mani nella marmellata; dall’altra Berlusconi, che tirerebbe la giacca al governo per ottenere favori in difesa delle proprie aziende. Non c’è che dire: un vomitevole mix politico da segnare sul calendario e da ricordare alle prossime tornate elettorali. Non so se sia più grave puntare, sulla pelle degli italiani martoriata dal Covid, a raggranellare consensi strumentalizzando tutto in chiave antigovernativa alla faccia del buonsenso, della coerenza e della serietà, oppure cercare di incassare qualche favore per Mediaset barattando appoggi con un piatto più o meno succulento di lenticchie alla mensa del popolo italiano. Una scelta schifosamente paradossale, a cui accenno, ma che mi rifiuto di prendere in ulteriore considerazione. Qualcuno penserà sicuramente alla differenza tattica dei “ladri di Pisa”: fanno finta di litigare di giorno in Parlamento poi, di notte, alle elezioni, rubano assieme i voti.

L’ipotesi dell’armata brancaleone destrorsa potrebbe avere anche una piccola variante. Non vorrei infatti che fosse, solo o almeno soprattutto, una grossa e subdola montatura di Matteo Salvini per uscire dall’angolo in cui si è ficcato: Trump solleva pretestuosamente la questione dei brogli elettorali, il suo referente italiano, peraltro e oltre tutto a corto di lucidità,  lascia intendere la questione  di un broglio affaristico, tirando il sasso nella piccionaia del pur storico e incancellabile conflitto di interessi berlusconiano nascondendo la mano dietro un improbabile azione moralizzatrice targata Lega. Sono anni in effetti che Salvini getta manciate di cacca addosso a tutti. Gli elettori non sono riusciti finora a sentirne la puzza. Tutto è politica, purtroppo anche la spazzatura politica.

 

Il cuore a sensibilità intensiva

Mia sorella andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente, la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della concreta solidarietà e della risposta politica.

Probabilmente è quel tratto di percorso che non stiamo facendo di fronte alla tragica pandemia che ci colpisce. Saltiamo un passaggio, quello appunto della pietà, per andare immediatamente al discorso politico, spesso dimenticandoci anche della fase solidale che dovrebbe coinvolgerci. L’ho capito l’altra sera, rivivendo l’imbarazzato e tormentato atteggiamento di mia sorella, guardando le immagini ed ascoltando le parole dei parenti delle persone ricoverate in ospedale in quanto affette da Covid, ammucchiate in reparti collassati, costrette a stendersi su barelle appoggiate in terra o a rimanere in ambulanza per ore in attesa di un (im)possibile ricovero, soli come cani, rifiutati dal sistema sanitario incapace di farsene carico. Non ho retto, ho cambiato canale, ho provato un senso paralizzante di impotenza.

Ho accantonato le forbite e contraddittorie analisi degli scienziati, ho dimenticato le carenti, per non dire  insufficienti, disposizioni approntate  dai governanti, ho criminalizzato i negazionisti che giocano a fare i furbi sulla pelle degli altri, ho solo sfiorato tutto gli errori commessi dalla nostra società del finto benessere, ho imprecato contro la irresponsabilità di quanti faticano persino a rispettare le minime regole per una convivenza adeguata al momento drammatico che stiamo vivendo.

Mio padre di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi o bellicisti, come dir di voglia. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre. Così come di fronte alla umana cattiveria auspicava, per le persone fuorviate e condizionate dall’egoismo più incallito, un giretto tra le corsie degli ospedali: si illudeva che sarebbero scesi definitivamente a più miti consigli. Sante e ammirevoli illusioni.

Non mi illudo, ma se pensassimo un poco al dramma di chi soffre e magari muore in solitudine a causa del coronavirus, di chi non riesce nemmeno ad essere assistito, di chi non può nemmeno vedere un suo congiunto isolato e inchiodato ad un letto di terapia più o meno intensiva, qualcosa potrebbe cambiare e migliorare: ognuno, col suo piccolo o grande bagaglio di responsabilità, potrebbe fare di più, senza scaricare indirettamente tutto sulle spalle di chi si trova in prima linea a fronteggiare l’emergenza. Non mettiamoci a posto la coscienza con la retorica dell’eroismo dei tanti operatori sanitari, con la critica spietata ai governanti che brancolano nel buio, con la graduatoria delle colpe altrui, con il qualunquismo della sfiducia nei pubblici poteri, con la speranza del miracolistico vaccino.

Almeno proviamoci anche perché non abbiamo altro modo per cercare di uscire dal tunnel. Più postazioni di terapia intensiva, ma anche e soprattutto più cuore nel petto di tutti. Tempo fa mi raccontarono un triste episodio, che sembrava uscito dalla parabola evangelica del ricco epulone. Un povero diavolo, che non riusciva a pagare un debito verso una persona molto ricca, chiese timidamente un po’ di comprensione al suo intransigente creditore: «Cal s’mètta ‘na man in-t-al côr…». La risposta fulminante fu: «E lu cal s’la mètta in-t-al portafoj…». Mettiamoci tutti una mano al cuore e poi potremo anche pensare al portafoglio anti-pandemia italiano ed europeo. A ben pensarci, tra l’altro, le due cose sono anche molto collegate.

 

 

Tutto il virus minuto per minuto

Sembrava una soluzione sensata quella di articolare su tre fasce di pericolosità il territorio nazionale, assegnando ad ogni fascia le regioni più o meno a rischio Covid sulla base di parametri obiettivi in grado di misurare l’esposizione al contagio e la capacità di farvi fronte. Doveva essere il modo intelligente per affrontare una intricata questione, vale a dire, come sostiene Nicolò Bellanca su Micromega, per risolvere il trilemma della pandemia tenendo insieme salute pubblica, funzionamento dell’economia e qualità della vita sociale.

L’apprezzabile tentativo si sta purtroppo rivelando una pantomima: non si capisce più niente, si sovrappongono di continuo catalogazioni regionali, gli addetti ai lavori lasciano trapelare indiscrezioni, i media fanno previsioni allarmistiche, i dati vengono buttati come dadi, si è scatenato un vero e proprio totovirus. Zona gialla=vittoria interna=1; zona arancione=pareggio=x; zona rossa=vittoria esterna=2.

E tutti giocano la macabra e drammatica schedina. C’è l’arbitro delle partite che dovrebbe essere il ministro della Salute; il quarto uomo che dovrebbe essere l’Istituto Superiore di Sanità; il var interpretato dalla conferenza Stato-Regioni o roba del genere; c’è tutto il covid minuto per minuto con i media che aggiornano continuamente la situazione sul campo; c’è il pubblico spazientito e disorientato, che fischia comunque, protestando contro l’andamento del match, contro l’arbitro, gli allenatori, i giocatori, i massaggiatori e chi più ne ha più ne metta.

Dove finirà il Veneto? Dipende dal rigore del governatore, dalla solidità della difesa, vale a dire dal rispetto delle regole per il contenimento del contagio e per la cura dei contagiati, dalle folli ripartenze dei cittadini in cerca di evasione e di trasgressione. E tutti ad esercitarsi nelle previsioni che cambiano di giorno in giorno o addirittura di ora in ora.

Mi era parso di capire dalle parole del premier Conte che si giocassero queste tragiche partite ogni quattordici giorni in un campionato molto combattuto e assai poco spettacolare, invece si è sempre in campo e tutto può cambiare da un momento all’altro. Vista in positivo abbiamo la volontà di tenere aggiornata e graduata la situazione dello scontro con un avversario subdolo che colpisce di rimessa non appena ti rilassi o ti distrai; vista in negativo abbiamo la solita confusione di ruoli e di schemi tattici col rischio di subire una valanga di goal.

Non ho ancora capito se il tira e molla delle scelte a tavolino dipenda dalla incapacità a decidere e/o dalla paura di scegliere oppure se sia una strategia calcolata per operare un (dis)onorevole compromesso tra salute ed economia evitando le proteste sociali delle scatenate tifoserie oppure se sia, molto più semplicemente, un procedimento a tentoni, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e sperando in Dio.

Fatto sta che il balletto prosegue e non si capisce dove si vada a parare. O meglio credo di avere capito: si vuole arrivare al lockdown totale e generale dopo avere sperimentato tutte le alternative, allargando le braccia nel senso di una resa alle cause di forza maggiore, preparandosi all’inevitabile peggio con il male dei passi intermedi. Prima le pillole, poi le dolorose e inevitabili iniezioni, per arrivare alle invasive operazioni chirurgiche. Col rischio che nel frattempo l’ammalato muoia: il medico pietoso (nel caso forse più incapace che compassionevole) fa la piaga puzzolente.

Una volta Renato, un caro amico di mio padre, la fece grossa. Volle architettare una presa per i fondelli per tutti gli ospiti del palco da lui gestito, in particolare per le eleganti signore snob presenti ad una importante serata di gala. Comprò una pattona e la fece guarnire da un pasticciere in modo tale che sembrasse una perfetta e invitante torta inzuppata con tanto di crema e panna. Durante l’intervallo la scartò e la offrì ai presenti che l’accolsero con esclamazioni di gradimento. La fece tagliare a fette dal solito chirurgo senza camice e cominciò a distribuirla su eleganti piattini con i relativi cucchiaini. Passarono pochi istanti, il tempo di assaggiare e si cominciò a sentire qualche signora che diceva all’amica: «Ma questa è pattona…». «Fammi assaggiare…, sì, questa è pattona…». Molti fecero finta di niente e mangiarono la pattona, altri la lasciarono nel piatto, chi conosceva bene Renato capì l’antifona e nel corridoio della quarta fila dei palchi si rise (o forse si pianse) per tutta la serata…e anche per quelle successive.

 

Anche il cuore degli sfigati batte a sinistra

Per Donald Trump la pandemia da covid 19 sarebbe stata la buccia di banana su cui è scivolato goffamente o comunque la goccia che ha fatto traboccare il suo vaso dell’antipolitica. Può essere vero anche se è pur vero che “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Governare a prescindere dai problemi, o meglio affrontando i problemi di pancia, ad un certo punto, quando anche la pancia è piena di problemi, non resta altro da fare che cancellare i problemi. Trump con il coronavirus dilagante ha fatto così: ha provato ad ignorarlo, ma la gente se ne è accorta sulla propria pelle e quindi si è svegliata dal sonno dell’anestesia populista.

Interessante è l’approfondimento fatto al riguardo da Massimo D’Alema: il covid ha riportato la politica ai valori di fondo, vale a dire la difesa della vita, la sanità garantita dallo Stato, il senso comunitario e solidale, la necessità che l’economia venga guidata e non abbandonata a se stessa. Sotto i colpi della pandemia sono crollati i presupposti del trumpismo. Dopo aver negato l’esistenza del virus, a Trump non resta che provare paradossalmente a negare l’evidente sconfitta elettorale.

Si profilano due tendenze culturali: una ritiene che il populismo in tutto il mondo, Italia compresa, stia prendendo una bella botta politica dalla insistente e invadente pandemia; un’altra che pensa ad un lockdown politico, una pausa pandemica al di là della quale rispunteranno puntualmente certe idee e certe visioni basate sull’egoismo individuale e collettivo. Gli uni insistono ingenuamente col “niente sarà come prima”; gli altri sdrammatizzano l’evento considerandolo un mero “mortus” imposto al gioco, che tuttavia col tempo riprenderà come se niente “fudesse”, o meglio riuscirà a metabolizzare anche il coronavirus riportandolo a tragico incidente di percorso.

Continuo a rifarmi all’acuta analisi di Massimo D’Alema (c’è poco da fare, la classe non è acqua), che legge le elezioni americane con gli occhiali del partito democratico statunitense, ma anche con la lente delle prospettive strategiche della sinistra in generale. Il ritorno obbligato della gente ai valori mette in crisi anche la sinistra, scoprendo gli altarini della sua attuale incapacità di saldare gli “istinti” popolari alle teorizzazioni elitarie: i grandi partiti popolari avevano questo ruolo, mentre oggi non riescono più a svolgerlo e quindi rischiano di “regalare” le difficoltà del popolo alla reazione della destra estrema ammantata di populismo.

È successo negli Usa con Trump che è riuscito a conquistare il voto degli “sfigati”: dei senza lavoro a cui ha promesso una facile occupazione difendendoli dalle intromissioni degli immigrati, degli angosciati dalla paura a cui ha consentito di difendersi con la violenza delle armi, dei poveri bianchi a cui accarezzare la pancia razzista ancestralmente ostile ai poveri afroamericani, dei cattolici alla ricerca di identità poco evangelica e molto politica,  agli insicuri ed ai precari proponendo loro una sicurezza fatta di muri, di dazi e di polizia. È successo in Italia con Matteo Salvini che è riuscito a conquistare il voto di certe fasce di classe operaia frustrata dalle difficoltà economiche di una crisi pressoché permanente, persino di certe fasce di gente meridionale stanca delle promesse della politica e propensa a provare le chimere dell’antipolitica. Nel nostro Paese però la Lega di Salvini ha trovato un duro ostacolo in questa strategia populista nel movimento cinque stelle, al punto da provare con esso un patto di non belligeranza, che è miseramente e sveltamente fallito.

È successo a livello geopolitico all’Europa intera, tendente a chiudersi nelle sue stanze tecnocratiche e burocratiche, mentre la gente non vede e non sente più il richiamo della foresta democratica, abbagliata dagli interpreti nostrani del populismo di Putin e di Trump (i ladri di Pisa), condizionata dall’invadenza economica cinese con cui fare i conti tramite nuove e imbarazzanti “vie della seta”.

Se è vero che le elezioni americane le abbia vinte non tanto Joe Biden, ma il partito democratico, novello interprete dei valori riscoperti dalla pandemia, l’Europa riuscirà a trovare la giusta sponda statunitense per rimettere insieme i cocci degli squilibri internazionali procurati dal trumpismo? I partiti della sinistra riusciranno a imparare che i voti non si prendono nel centro moderato e liberista ad oltranza, ma coniugando i valori con la necessità di rivedere i meccanismi di un sistema capitalistico fondato sugli egoismi, sulle ineguaglianze e sulle ingiustizie? La politica riuscirà a ritrovare il suo spazio vitale uscendo dalla prigione dei leaderismi e dei personalismi per tornare dalla pancia alla mente della gente passando dal cuore?  E Trump, ammesso e non concesso che se ne vada al diavolo, finirà e porterà nella discarica dei rifiuti anche il trumpismo o riuscirà a riciclarsi direttamente o indirettamente? Domande provenienti da lontano, ma che ci sono molto vicine!