Lilly fa la vagabonda

La scaramuccia televisiva a Otto e mezzo fra la conduttrice Lilly Gruber e l’ospite Maria Elena Boschi non dovrebbe avere la dignità di fatto del giorno e come tale non avrebbe per il sottoscritto importanza tale da comportare un commento (non sono solito infatti perdermi dietro i pettegolezzi di qualsiasi tipo).

Dietro questo piccolo episodio, per la verità poso gustoso, ci sono però alcune, almeno due, grosse realtà etiche. Ma andiamo con ordine. La brava giornalista Lilly Gruber ha mostrato provocatoriamente alla deputata Maria Elena Boschi gli scatti pubblicati sul settimanale Chi che la ritraggono al parco con il fidanzato Giulio Berruti senza mascherina: “Vige l’obbligo di indossarla, perché non lo avete fatto?”, ha chiesto Gruber. La renziana ha replicato subito, a tono: “Ce l’avevamo, l’abbiamo abbassata per fare un selfie un minuto. Eravamo all’aria aperta da soli e siamo congiunti. Noi non abbiamo preso la multa e altre coppie sì? Noi rispettiamo sempre le regole, abbiamo abbassato la mascherina un attimo in quell’occasione. La ringrazio per la possibilità di far questa precisazione, però credo che con centinaia di morti ogni giorno mi piacerebbe parlare dei soldi del Recovery Fund piuttosto che di quelle foto”. La Gruber ha insistito sulla sua tesi del cattivo esempio reso dalla parlamentare in un momento e in un campo delicatissimi.

Non mi interessa la inevitabile polemica che si è scatenata contro la Gruber per essersi persa in un qualunquistico bicchiere d’acqua, contro la Boschi per essersi cimentata in un episodio di esibizionismo alquanto inopportuno. Vado quindi al sodo dei temi visibili in filigrana.

Una mia carissima amica, tutt’altro che antifemminista, confessava di augurarsi di non dipendere mai da una donna: pur riconoscendo agli uomini tutti i difetti di questo mondo, temeva la perfidia e l’invidia femminile. Le donne purtroppo non hanno fiducia nelle donne e non mancano l’occasione per dimostrarlo. Gli uomini fanno il femminicidio con la forza brutale, le donne spesso e volentieri lo fanno con la sottigliezza dei loro atteggiamenti polemici.  Da quanto so le donne fanno fatica a votare le loro colleghe di genere, hanno una sorta di pregiudizio negativo verso la politica in versione femminile: tanti discorsi sulla parità e poi, quando si arriva al dunque, ecco spuntare sotto-sotto i vecchi schemi antifemministi. Mi dispiace molto, perché si tratta di un brutto autogol. I motivi sono più di carattere istintivo che razionale: ed ecco quindi immediatamente una seconda falla nella considerazione verso le donne, che sarebbero tutto utero e poco cervello. Rifiuto categoricamente questi discorsi da osteria, ma mi dispiace che siano proprio le donne a portare gli uomini, seppure involontariamente e indirettamente, su questo terreno fasullo.

Il secondo discorso in cui mi sento tirato per i capelli è quello della cattiveria nei rapporti e nei discorsi politici. La rifiuto sempre e comunque, non accetto la critica quando scantona nell’attacco personale, nel colpo basso, nell’attacco pesante. Ormai purtroppo è diventata la regola, non per questo è accettabile. Mi sembra che lo scherzetto giocato alla Boschi vada in questo senso. Non credo che per essersi abbassata la mascherina abbia dato cattivo esempio: ci sono donne e uomini che in politica e nella vita abbassano ben altro…

Quanto a Lilly Gruber, che continuo ad apprezzare per lo stile serenamente professionale con cui conduce la sua trasmissione, ammetto che ultimamente sia presa da una smania di protagonismo e stia scivolando sul terreno della polemichetta spicciola che non giova a nessuno. Penso sia in tempo per ravvedersi e tornare a più miti ed usuali consigli.

Infine voglio precisare: non sono un renziano anche se ho nutrito qualche illusione su un personaggio che dava qualche interessante segnale di novità, acqua passata che non macina più. Non ho una grande considerazione politica per Maria Elena Boschi, la ritengo una buona replicante ed una pessima protestante. Critichiamola pure sul piano politico senza pietà, ma in modo corretto. Soprattutto non facciamogli pagare il prezzo di essere una bella donna e quindi di farsi strada politicamente con le armi della seduzione. Le donne belle mi fanno spesso tenerezza, perché penso all’invidia che suscitano e da cui si devono difendere. Però, che sia un’altra bella donna, Lilly Gruber, a presentare questo insulso conto alla Boschi, sinceramente mi sorprende e mi irrita. Forse mi piacciono troppo le donne e forse le stimo troppo.

 

Le suocere di Conte

È noto e piuttosto criticabile l’atteggiamento accentratore ed esibizionista del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: interpreta tutto in chiave personale, rischiando di snobbare le istituzioni e di inflazionare i media. In parte questo comportamento può essere giustificato dalla costante emergenza che costringe chi governa a semplificare le procedure per accorciare i tempi, ma spesso va a finire che la semplificazione si traduce in scavalcamento senza alcun beneficio sui tempi decisionali.

Capisco possa irritare il fatto che Conte, sul discorso importantissimo del Recovery fund e del Recovery plan, metta Governo e Parlamento di fronte al fatto compiuto (linee programmatiche illustrate in anteprima a livello mediatico), che il premier tenda ad assegnare al riguardo competenze gestionali ad organismi più o meno manageriali (cabina di regìa), che le istituzioni competenti rischino di assumere un ruolo di mera ratifica sulle decisioni già adottate.

Al di là di tutto ciò vedo una certa qual irrequietezza politica strumentale tra gli alleati di governo. I pentastellati fremono sul discorso Mes al limite della rottura, Matteo Renzi tiene viva la sua Italia promuovendo scaramucce sul Recovery plan. I fremiti e le scaramucce prescindono dai contenuti (il miglior utilizzo possibile dei fondi europei) e si concentrano su questioni ideologiche (l’anti europeismo sempre in agguato) e su calcoli di accaparramento del consenso (fare presto e fare bene).

Si diceva che un mio illustre collega piuttosto combattivo, quando doveva affrontare riunioni tese e calde, facesse preventivamente il pieno di vis polemica andando a far visita alla suocera, la quale non mancava di fornirgli l’occasione per un efficace pre-riscaldamento: in poche parole si recava a casa della suocera, sapendo che non sarebbe mancata la tensione sufficiente a prepararsi al clima della immediatamente successiva riunione di lavoro. Le suocere, categoria tanto bistrattata e vilipesa, oltre che a custodire e financo a mantenere i nipoti, servono ad allenare le nuore e i generi in vista delle loro performance professionali più impegnative sul piano dialettico. Teniamone conto. Perché il discorso può valere anche in sede politica.

I cinque stelle e i renziani muoiono dalla voglia di fare casino e in parte riescono anche a farlo: a loro le suocere sparring partner non mancano e non mancano nemmeno le occasioni di scontro con un premier destinato a durare nonostante tutte le difficoltà della situazione. Se Conte dovrebbe darsi una regolata a livello di metodo governativo, le serpi in seno al governo dovrebbero smetterla di sputare veleno.

Sì, perché mentre le opposizioni parlamentari si esercitano in assurde pantomime aventiniane, quelle interne alla maggioranza sono una paradossale spina nel fianco già comunque sufficientemente squarciato del governo. Anche se il presidente della Repubblica richiama tutti allo spirito collaborativo e lancia avvertimenti molto chiari e negativi sugli eventuali futuri equilibri governativi e politici, gli scontri tendono ad aumentare scandalizzando e fuorviando un’opinione pubblica già in preda al panico.

Alla fine tanto tuonerà, ma non pioverà. Il M5S ha tutto da perdere da una crisi di governo che porterebbe dritto-dritto alle elezioni da cui uscirebbe, nella migliore delle ipotesi, numericamente dimezzato e politicamente squalificato. Matteo Renzi non ha più la forza di sgambettare il premier in carica: è troppo scoperto il giochino e la serenità di Conte non assomiglia a quella di Enrico Letta. Assume beffardamente un rilievo enorme la frase di Alcide De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”. Il problema è che non solo mancano statisti che si preoccupino delle nuove generazioni, ma scarseggiano persino i politici in grado di prepararsi adeguatamente alle future consultazioni elettorali.

È umiliante, di fronte alle cifre tragiche della pandemia che non accenna a calmarsi, ridurre i discorsi politici a “manovrette politicanti”. La politica ha le sue regole, i suoi rituali, le sue commedie: nella peggiore delle ipotesi vanno accettate come un male necessario. Tuttavia sarebbe opportuno, in clima di tragedia, dare un taglio netto alle comiche, alle battagliette estranee alla vera guerra che stiamo combattendo e provare almeno a sembrare persone serie, non per fare un piacere a Giuseppe Conte, ma per rispetto verso chi muore, chi soffre, chi vive in mezzo a gravissime difficoltà.

 

La demagogia in concerto

Ricordo con commozione, nostalgia e imbarazzo l’inaugurazione della stagione lirica del teatro Regio in concomitanza con la contestazione studentesca: da una parte la ritualità operistica che mi coinvolgeva dal punto di vista culturale e dall’altra la protesta giovanile ed operaia che mi coinvolgeva da punto di vista politico. Trovai un compromesso andando in loggione e quindi evitando le uova marce che si accanivano contro la Parma-bene all’ingresso della platea e dei palchi, ma avevo una sorta di “magone” perché era molto difficile trovare un punto di contatto tra le sacrosante rivendicazioni studentesche e operaie e il sacrosanto diritto di entrare in teatro per godere dell’opera lirica.

Qualcuno si sforzava di teorizzare come l’opera lirica fosse sostanzialmente a favore dei poveri nei contenuti, ma strumentalizzata dai ricchi nella sua proposizione e fruizione teatrale. Tentativo maldestro di confondere arte e politica. Questa dicotomia rischia di ripresentarsi, riveduta e forzata, per l’inaugurazione dei teatri d’opera senza pubblico e soprattutto senza opere: in primis l’emblematica inaugurazione della stagione scaligera. Il teatro fine a se stesso, alla sua sopravvivenza economica ed agli interessi dei suoi protagonisti, il pubblico messo ai margini a “sgolosare” la passerella dei vip del palcoscenico. Il teatro è finzione, ma la finzione della finzione è forse troppo. È meglio tenere calato il sipario piuttosto che far finta di alzarlo. Probabilmente rischio di ricadere nella mia solita radicalità del tutto o niente.

Nel 1983 venne il terremoto ed il Regio subì danni tali da comprometterne l’agibilità. A livello della commissione teatrale l’assessore pose il problema se interrompere l’attività teatrale per almeno due anni o se pensare a qualche soluzione di ripiego: si trattava di utilizzare nel frattempo il teatro Ducale con tutti i suoi limiti strutturali e logistici. Si aprì ovviamente il dibattito. Pur comprendendo i rischi conseguenti ad una drastica interruzione, guidato dalla mia solita radicalità di proposta, mi schierai dalla parte dell’Assessore, a favore di una chiusura totale per lavori in corso. Il caro amico Gian Piero Rubiconi, autorevole componente della commissione teatrale, al contrario era convintamente per il ripiegamento sul teatro Ducale: valutava troppo importante garantire una continuità produttiva, probabilmente ricordava i gloriosi trascorsi di un teatrino che aveva ospitato in passato stagioni liriche vere e proprie, seppure in tono minore, forse addirittura gli tornava alla mente che il debutto assoluto sulle scene di Renata Tebaldi, sua illustre compaesana di adozione, era avvenuto con Bohème proprio al Ducale. Vinse Gian Piero con la sua saggezza e il suo attaccamento al teatro, tutti si fecero su le maniche e furono stagioni liriche molto interessanti quelle ospitate dal Ducale negli anni successivi. Basta scorrere gli annali degli spettacoli per accorgersene.

Il discorso però nel 2020 è assai diverso. C’è ben più di un terremoto, non esiste un teatro di riserva, non si possono trovare scappatoie se non quella della finzione concertistica, che non purifica l’aria teatrale dalle interferenze esibizionistiche del pubblico, ma la impoverisce e la mortifica.

Torno di nuovo all’indimenticabile Rubiconi, protagonista della storia del teatro Regio per diversi anni. Più volte abbiamo affrontato il discorso del rapporto tra politica e cultura. Non sopportava le intromissioni della ignoranza e della presunzione dei politici: furono proprio il motivo principale della sua prematura emarginazione teatrale. Senza avere intenti megalomani e spendaccioni, riteneva che la cultura, la musica in particolare, fosse una opportunità imprescindibile anche e soprattutto nei periodi di crisi. «Proprio quando l’economia va male è il momento di investire nella cultura, per fare argine alla crisi che trascina in basso i valori e per stimolare i consumi di prodotti che non si logorano nel tempo». Non era quindi un pauperista teatrale, ma nemmeno uno sprecone. Quante volte gli ho sentito dire: «Prendiamo questa iniziativa, è valida sul piano culturale e oltre tutto costa poco…». Ragionamenti saggi, troppo saggi per essere vincenti.

Il discorso però oggi è molto diverso. Certo, la cultura ci potrebbe e dovrebbe aiutare, ma viene bloccata nella sua spettacolarizzazione dalle inevitabili ristrettezze logistiche imposte dalla lotta al coronavirus. E allora? Bisogna far finta che? Non ne sono convinto e quindi ripiego, col mio perpetuo magone, su “il più bel tacer non fu mai cantato”.

 

 

 

L’osteria dei porte-coton

Beppe Grillo dichiara: “Non starò qui ad elencare le mille ragioni che fanno del Mes uno strumento non solo inadatto ma anche del tutto inutile per far fronte alle esigenze del nostro Paese in un momento così delicato. A farlo, ogni qualvolta gli viene messo un microfono sotto al naso, ci ha già pensato il nostro Presidente del Consiglio Conte dicendo più e più volte che ‘disponiamo già di tantissime risorse (fondi strutturali, scostamenti di bilancio, Recovery Fund ecc..) e dobbiamo saperle spendere’. Dunque non è una questione di soldi, che sembrano esserci, ma come e dove usarli”.

Molti anni fa ero componente di una commissione d’esame per l’assegnazione di borse lavoro al termine di un corso teorico-pratico di avviamento professionale. Un esaminando alla domanda in materia di redazione del bilancio societario rispose così: “Capirà se non lo so…”. E allora, se lo sa, lo dica. In realtà sbruffoneggiava per protesta, qualcosa sapeva ma non un granché.

Grillo, in fatto di Mes, come si dirà più avanti, dimostra una certa equivoca ignoranza, ma poi sbruffoneggia lanciando due proposte alternative al Mes. “La prima è di imporre “una patrimoniale ai super ricchi”: invece che sovraccaricare di tasse la classe media che sta lentamente scomparendo, procedere a tassare soltanto i patrimoni degli italiani più ricchi. Nel nostro Paese, secondo l’ultimo rapporto sulla ricchezza globale del Credit Suisse, ci sono 2.774 cittadini con un patrimonio personale superiore a 50 milioni di euro; se sommati, i loro patrimoni, ammonterebbero addirittura a circa 280 miliardi”.

Grillo si chiede: “Non sarebbe più equo, dunque, rivolgersi a loro piuttosto che al resto della popolazione già stremata da un anno tragico dal punto di vista finanziario, oltre che sanitario? Un contributo del 2% per i patrimoni che vanno dai 50 milioni di euro al miliardo genererebbe un’entrata per le casse dello Stato poco superiore ai 6 miliardi. Uno del 3% dato dai multimiliardari potrebbe fruttare circa 4 miliardi ulteriori. Una patrimoniale così concepita – conclude – significherebbe per le casse dello Stato un’entrata garantita di almeno 10 miliardi di euro per il primo anno, e di ulteriori 10 se la misura venisse confermata anche per il 2022”.

La seconda proposta è di far pagare l’Imu e l’Ici non versata sui beni immobili alla Chiesa. Si tratta per Grillo di “due proposte assolutamente praticabili, sacrosante e soprattutto non vincolanti (che non prevedono alcun tipo di indebitamento per l’Italia) che porterebbero un sacco di miliardi nelle casse dello Stato in poco tempo, semmai ce ne fosse bisogno. Se sommate, le due proposte, porterebbero nel biennio 2021/2022 all’incirca 25 miliardi di euro subito spendibili e liberi da vincoli di rientro”.

Mio padre non sopportava i faciloni, coloro che sono maestri nel fare i conti in casa degli altri, quelli del due più due uguale a cinque, e li bollava così: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”. Sono sicuro che in questa categoria di economisti dal tramlòn inserirebbe di diritto anche Beppe Grillo con le sue roboanti sparate.

Innanzitutto Grillo mette a confronto le capre del Mes con i cavoli delle imposte patrimoniali. I fondi del Mes sono prestiti che dovrebbero aiutare gli Stati europei a far fronte ad esigenze straordinarie di liquidità. Le imposte patrimoniali sono soldi a fondo perduto che lo Stato incassa e che dovrebbero andare a quadrare il suo bilancio. L’accostare questi due discorsi ha un chiaro ed evidente intento populistico, vale a dire mettere insieme l’allergia verso l’Europa, discorso che tira sempre e comunque, alla solleticante smania di togliere ai ricchi per dare ai poveri facendo il verso a Robin Hood.

Il discorso di Grillo è teoricamente improponibile (non si possono confondere mele e pere), populisticamente ideologico (tartassare i ricchi: e chi sono i ricchi?), concretamente pressapochistico (si sparano cifre alla “abbasso il parroco”).

Non penso sia così facile individuare l’entità e la dislocazione dei super-patrimoni, molto spesso collocati nei paradisi fiscali, molto spesso annidati in un inestricabile ginepraio societario, molto spesso spalmati su soggetti fittizi o di comodo. I conti spannometrici improvvisati da Grillo assomigliano a quelli riconducibili alla fantasia della famosa ingenua contadinella in vena di progetti economici.

La povera Rosalina viveva nella più assoluta miseria in un paesino di campagna. Un giorno gli diedero in dono una bella ricottina: Rosalina la mise in un cestello e se ne andò al mercato. Lungo il cammino cominciò a fantasticare, facendo i suoi progetti: andrò al mercato, venderò la ricotta, con quei soldini comprerò delle uova che metterò sotto le chiocce e nasceranno i pulcini che diventeranno polli; venderò i polli e comprerò delle caprette che mi daranno i caprettini: io li venderò e comprerò una vitellina che diventerà mucca e mi darà il latte per fare tante ricottine. Diventerò ricca e la gente passando davanti alla mia bella casetta mi dirà: “Riverita signore Rosalina, riverita!”. Nel dir così la svampitella fece un profondo inchino e la ricotta andò a finire in mezzo alla strada.

Due parole infine sulle imposte da applicare al patrimonio della Chiesa cattolica. Sarebbe giustissimo, non solo giusto, che anche la Chiesa pagasse sui beni patrimoniali destinati ad attività commerciali. Ma anche qui viene il bello: molto spesso sono beni promiscuamente utilizzati per attività assistenziali e mercantili, molto spesso il legislatore non se la sente di “andare a rubare in chiesa”. D’altra parte se a Grillo interessa accarezzare la pancia al cittadino che fa politica al bar, a certi governanti piace dare una certa soddisfazione alle gerarchie vaticane ed ai cattolici che fanno politica in chiesa.

Vincenzo Cerami, alcuni anni or sono, in un gustosissimo pezzo su l’Unità, ha scritto: “Ai tempi di Luigi XIV c’era una classe di persone privilegiate che venivano chiamate “porte-coton”. Di chi si trattava? Di nobili che avevano il privilegio di pulire il culo del re con un batuffolo di bambagia dopo che questi aveva fatto la cacca”. È un privilegio che molti anche oggi si attribuiscono, con la variante costituita dal fatto che il re può essere anche il popolo stesso, in un gioco delle parti scombussolante avente come scopo l’accaparramento di voti.  Lo chiamano populismo. Però sempre di porte-coton si tratta.

 

 

 

 

 

 

 

Cardinale sì, ma solo un pochettino

“Eminenza” è un titolo d’onore spettante ai cardinali, decretato nel 1630 dal papa Urbano VIII. Papa Ratzinger si rivolgeva ad essi con un “signori cardinali”, quasi  volesse evitare di esagerare ed enfatizzare la loro dignità.  Il trattamento di “eccellenza” invece è di antica origine, adottato dalle consuetudini e convenzioni protocollari in campo amministrativo, giudiziario, politico-militare, religioso e nobiliare di numerosi paesi. Se non erro i vescovi sono da approcciare col titolo di eccellenza, sono cioè un gradino sotto nella scala gerarchica rispetto ai cardinali, che però possono anche non essere vescovi. Ammetto di voler “fare il furbino”, di voler menare il can per l’aia vaticana, ma comunque c’è da perdere la tramontana in questo saliscendi gerarchico, che di evangelico ha meno di niente.

E allora provo a buttarla sul ridere ricordando una gustosa barzelletta. Tra l’altro dicono piacesse molto a papa Giovanni Paolo ll. “Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”.

Siccome le barzellette sono un po’ come le ciliegie, una tira l’altra, riporto anche quella, ancor più provocatoria e profonda, raccontata da don Andrea Gallo. «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”.  Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

Questi ricordi mi servono a sfrondare di significato e portata il collegio cardinalizio recentemente implementato, una sorta di corte intorno al papa-re: Francesco si sta sforzando di dargli un senso ecclesiale e non burocratico, di riportarlo ad una riserva spirituale a cui attingere nel governo della Chiesa togliendolo dall’olimpo gerarchico e dal coacervo apicale di eminenze rosso-grigie, ma tutto resta in un anacronistico clima clerico-nobiliare che mi scatena un prurito allergico.

Quando il mio parroco don Domenico Magri fu trasferito in quel di Langhirano con i soliti metodi inaccettabili, quasi i sacerdoti fossero dei pacchi postali da mandare a destra e manca, mia sorella Lucia non seppe resistere alla tentazione di reagire in modo nettamente polemico rispetto al solito inaccettabile andazzo. Agli attacchi verso la Curia si sentì rispondere dall’allora potente vicario generale della diocesi: «Nella Chiesa non ci devono essere problemi di carriera…». «Sì certo, ma il caso vuole che lei abbia fatto carriera, mentre don Domenico lo avete spedito in fretta e furia a Langhirano a farsi il mazzo…». Rimanendo in tema riferisco come un’anziana donna ricordasse una frase che Lucia avrebbe detto in una riunione di sezione democristiana a Langhirano, subito dopo l’ingresso di don Magri quale parroco del paese: «Voglio tanto bene a don Domenico, che non riesco a trovargli neanche un difetto». Era il suo confidente sulle questioni più delicate della Chiesa di Parma, le forniva sempre uno spaccato positivamente critico delle vicende diocesane. Quando me ne riferiva, era solita concludere: «Meritava di fare il vescovo, e che vescovo sarebbe stato!». Purtroppo le nomine a vescovo (che hanno un senso pastorale) e ancor più a cardinale (che a mio giudizio non hanno alcun senso) sono calate dall’alto e subite pedissequamente dal popolo di Dio, che, come si suole dire, la deve bere da botte. Nella mia vita di cristiano non me la sono sentita di piegare il capo di fronte all’autorità gerarchica.

Padre Raniero Cantalamessa – non c’è bisogno di spiegare chi sia e quali siano i suoi meriti – è stato nominato cardinale. Mi risulta che in passato avesse educatamente rifiutato la nomina. Questa volta ha ceduto, a condizione di non essere vescovo e di restare cappuccino. Infatti da papa Francesco ha ottenuto la dispensa dall’ordinazione episcopale e così il predicatore della Casa pontificia potrà continuare a fare parte del suo Ordine religioso.

“Considero la mia nomina come un riconoscimento dell’importanza della Parola di Dio, più che della mia persona, dal momento che il mio servizio alla Chiesa è stato – e, per volere espresso di papa Francesco, continuerà ad essere ancora – quasi solo quello di proclamare la Parola, a partire dalla Casa pontificia. Vivo questa designazione a cardinale come un riconoscimento per il mio servizio alla Chiesa che è consistito unicamente nell’annuncio del Vangelo. La mia nomina simboleggia, in un certo senso, un attestato di quanto papa Bergoglio vuol dare dell’importanza di tenere alta la Parola di Dio nella Chiesa”.

Un modo intelligentissimo di smarcarsi dalla casta pur facendone parte. Padre Cantalamessa mi perdonerà anche perché ho di lui una stima ed un’ammirazione grandissime, ho letto tutti i suoi libri, ho seguito la sua attività di omileta, ho apprezzato ed apprezzo la sua capacità di coniugare Bibbia e mondo contemporaneo, di calare la tradizione nelle esigenze della modernità evangelica, di snocciolare la cultura in insegnamenti semplici ed accessibili a tutti, di collegare le più dotte citazioni alle più semplici testimonianze.  È un autentico fuoriclasse della predicazione! Mi chiedo però e gli chiedo: che senso ha accettare la nomina a cardinale e non quella a vescovo? che senso ha accogliere il “titolo nobiliare” di cardinale e prendere le distanze dal servizio pastorale di vescovo? che senso ha “oggettivizzare” la carica conferitagli per fare finta di rimanere un semplice frate? Il tutto sa tanto di excusatio non petita, di ammissione di colpa lieve facilmente perdonabile. Io sarò un inguaribile radicale, ma anche voler salvare capra e cavoli o, se volete, quadrare il cerchio del cardinalato col saio francescano… Con tutto il rispetto, mi sembra un po’ come quella ragazza che era sì incinta, ma solo un pochettino…

 

 

Donne, donne eterni aiuti

La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese ha riferito in Parlamento, al question time, sulla vicenda che ha visto coinvolta Olivia Paladino, la compagna del premier Giuseppe Conte e la sua scorta. La titolare del Viminale parlando in Aula ha spiegato che «Olivia Paladino appariva turbata e – dopo essere uscita dal supermercato in seguito alla segnalazione dello stesso titolare che ha chiesto l’intervento di un operatore della scorta – è stata riaccompagnata da quest’ultimo a poche decine di metri verso la sua abitazione, dove in quel momento c’era il premier e, per questo, la scorta era all’esterno». È quanto ha precisato la titolare dell’Interno sulla vicenda accaduta lo scorso 26 ottobre in presenza di una troupe de Le Iene e che vede indagato proprio il presidente del Consiglio. La ministra Luciana Lamorgese ha anche aggiunto che «la persona alla quale la signora Paladino prima di lasciare il negozio ha consegnato una borsa non era un operatore del servizio di tutela del presidente Conte bensì uno dei titolari dell’esercizio commerciale».

Eugenio Gaudio, nominato dal governo Conte il giorno prima commissario alla sanità in Calabria si è dimesso il giorno dopo con una giustificazione che ai più (non al sottoscritto) è sembrata surreale: “Mia moglie – ha spiegato a “la Repubblica” – non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro. Un lavoro del genere va affrontato con il massimo impegno e non ho intenzione di aprire una crisi familiare”.

Innanzitutto non vedo nulla di strano se una moglie, una compagna, una fidanzata, condivide le scelte politiche del suo uomo, soffrendone le conseguenze. Chi assume incarichi politici non deve essere un robot insensibile e impenetrabile, ma una persona totale che vive tutte le realtà a cominciare da quella famigliare.

Non c’è niente da speculare sul fatto che la fidanzata di Giuseppe Conte possa essere turbata da qualche situazione strana e possa essere soccorsa da un uomo della scorta del presidente del consiglio. Se le cose sono andate così, la signora Olivia Paladino ha tutta la mia comprensione e la mia solidarietà. Chi ha posto la questione in Parlamento voleva solo vomitevolmente strumentalizzare una normalissima vicenda, che non ha niente di legalmente scorretto e tutto di umanamente comprensibile.

Diversa, ma per certi versi simile, è il fatto della moglie pentita del neo-commissario alla sanità calabrese. Certo, il professor Gaudio poteva pensarci meglio prima di accettare l’incarico e soprattutto poteva parlarne prima e diffusamente con la moglie, dal momento che quella scelta, poco o tanto, avrebbe scombussolato la sua vita famigliare. Meglio tardi che mai. È ammissibile un ripensamento: quante volte mi è capitato di assumere una decisione per poi ritornarvi sopra nel giro di poche ore… È persino apprezzabile che la moglie gli abbia fatto presente tutte le conseguenze che avrebbe comportato questa delicata e impegnativa funzione pubblica: le donne hanno un senso pratico che non significa viltà, ma convinta e ragionata partecipazione.

Arrivo persino ad ammettere che la signora Gaudio possa avere valutato in coscienza un “certo tipo” di rischi facilmente immaginabile in una società come quella calabrese: non tutti possono avere il coraggio del generale Dalla Chiesa e soprattutto di sua moglie Emanuela Setti Carraro. Anche perché noi tutti siamo molto bravi a pretendere coraggio da chi è investito di autorità, ma poi siamo sempre pronti a lavarci le mani da ogni e qualsiasi situazione difficile. Dalla Chiesa fu lasciato solo. Mio padre quando sentiva parlare della sua coraggiosa azione contro la mafia, capiva la sua solitudine e non lesinava funeste profezie: «Col Chiesa (céza in dialetto) lì…al va a fnir mäl…». E quando successe il fattaccio, mormorò fra sé: «Al sèva c’la sarìss andäda a fnir acsì…». Forse ho lavorato di fantasia facendo arbitrariamente un parallelismo, ma non mi stupirei se sul repentino ripensamento di Gaudio avesse influito anche una coniugale riflessione su “certi” rischi e certi colpevoli isolamenti.

Durante il rapimento di Aldo Moro, la moglie tenne un comportamento drammaticamente partecipe: qualcuno ebbe il cattivo gusto di giudicarlo eccessivo. Nossignori, era la giusta espressione del dolore di una donna che assiste impotente al martirio di suo marito e ai tentennamenti dei colleghi del marito stesso, tristemente sballottati fra la ragion di stato e le ragioni umanitarie. Quanta sofferenza!

In una straziante lettera alla moglie Noretta, Aldo Moro, dopo avere sconsolatamente e desolatamente passato in rassegna l’inerzia degli uomini politici di fronte al suo dramma, scrive: «Ma non è di questo che voglio parlare; ma di voi che amo ed amerò sempre, della gratitudine che vi debbo, della gioia indicibile che mi avete dato nella vita, del piccolo che amavo guardare e cercherò di guardare fino all’ultimo. Avessi almeno le vostre mani, le vostre foto, i vostri baci. I democristiani mi tolgono anche questo. Che male può venire da tutto questo male?».

Non facciamo quindi i furbi, non scherziamo sui legami sentimentali e famigliari degli uomini investiti di pubbliche autorità, non consideriamo le loro donne delle intruse, delle invadenti e fastidiose compagne. Cerchiamo di capire le loro difficoltà e le loro tensioni, sapendo che dipende anche da esse il migliore svolgimento delle funzioni pubbliche. Discrezione sì, irrisione o derisione no, nel modo più assoluto. Esibizionismo no, partecipazione privata sì.

 

Le patate bollenti in mano ai prefetti

Stando alle (troppe) indiscrezioni mediatiche, si starebbe profilando la riapertura delle scuole: il Governo vorrebbe riaprirle il 7 gennaio 2021. Non sarebbe ancora stata presa una decisione definitiva, ma fonti dei diversi partiti di maggioranza confermano che i ragazzi delle superiori dovrebbero tornare in classe solo all’inizio del nuovo anno, mentre a dicembre proseguirebbe per loro la didattica a distanza anche nelle zone gialle.

In questi giorni ho letto la lettera di una studentessa parmigiana al quotidiano locale: “Indubbiamente le scuole andavano chiuse a causa della crescita della curva dei contagi, ma magari non andavano proprio riaperte. Perché riaprire le scuole se non c’erano i trasporti, per poi richiuderci in casa? Ma qualcuno ha pensato alle conseguenze psicologiche che ci sono per i giovani? Era inutile riaprire le scuole se non si avevano i trasporti, io sono stata testimone di continui assembramenti a causa del trasporto per un lungo periodo”.

Sembra l’uovo di Colombo, ma non lo è affatto. Si fa infatti un gran parlare di seconda riapertura e non mi risulta che la situazione dei trasporti sia significativamente cambiata. A parte il solito bailamme regionale sul dilemma apertura/chiusura, credo che le Regioni abbiano fatto ben poco per potenziare e organizzare i trasporti in modo decente, mentre il ministero competente (?) si nasconde dietro il dito dell’importanza prioritaria della scuola rispetto a tante altre questioni sul o sotto il tavolo.

Come ho più volte scritto si tratta di una delle principali carenze dell’azione governativa in tempo di Covid: certo non è facile rendere compatibile col clima anti-virus un settore già pieno di problemi e di contraddizioni. Forse stiamo scoprendo l’importanza della scuola nel momento in cui è difficile aprirla: succede per tante cose e per le persone, se ne coglie la portata solo quando vengono a mancare.

Fatto sta che il più grosso flop si è consumato nelle scuole: era così semplice prevedere che il punto critico sarebbe stato quello dei trasporti, invece giù a discutere in modo surreale sui banchi a rotelle, giù a polemizzare se la prova della temperatura dovese avvenire a casa o a scuola, giù a preoccuparsi di distanziare i banchi.

Per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto. Per frequentare la scuola in sicurezza prima occorre arrivarci in sicurezza. Lapalissiano! Forse è tipico di quando si affrontano problemi molto complessi partire dagli aspetti più nascosti e perdersi nel bicchiere d’acqua dei più evidenti.

Il rientro sui banchi passerà dai prefetti. Per far tornare a scuola in presenza i ragazzi dei licei e delle scuole superiori di tutt’Italia il governo, a quanto apprende l’Adnkronos da autorevoli fonti dell’esecutivo, pensa a presidi sul territorio, una sorta di cabina di regia che verrà affidata, appunto, ai prefetti. A loro il compito di mettere attorno al tavolo i soggetti coinvolti dal ritorno alla didattica in presenza, bandita alle superiori anche nelle regioni a minor rischio.

Intesa di massima che vedrebbe d’accordo la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, la responsabile dell’Interno Luciana Lamorgese e la titolare dei Trasporti Paola De Micheli. Dietro ci sarebbe la ‘regia’ di Palazzo Chigi, concorde nel dare ai prefetti il ruolo di coordinatori, ‘oliando’ il meccanismo che è dietro la riapertura dei cancelli. Saranno infatti loro a dover mettere d’accordo le aziende di trasporto locali, dirigenti scolastici e sindaci, affinché i rientri a scuola siano gestiti evitando assembramenti al suono della campanella sì, ma anche sui mezzi di trasporto pubblici, dunque bus, tram e metropolitane. E non è escluso, viene inoltre spiegato, che al tavolo vengano chiamate anche le Asl per mettere assieme tutti i tasselli ed evitare fughe in avanti, con chiusure delle scuole a macchia di leopardo.

Nel nuovo dpcm il governo delegherà ai prefetti il compito di coordinare le conferenze permanenti dei servizi per organizzare la ripartenza delle scuole superiori e quindi anche il trasporto pubblico locale e il trasporto scolastico. In sede di conferenza dei servizi il prefetto in accordo con il provveditore scolastico, il sindaco e le aziende di Tpl decideranno in ogni provincia anche lo scaglionamento di orari di entrata e di uscita dalle scuole.

Volete una mia impressione? Mi sembra che le istituzioni da mettere d’accordo siano un po’ troppe, sufficienti per poi scaricare le colpe addosso all’una o all’altra. Quanto ai prefetti, tempo fa c’era chi li voleva eliminare di brutto, considerandoli arnesi arrugginiti da rottamare. Ora affidiamo loro la partita degli assembramenti pre-natalizi e la riapertura delle scuole post-natalizia. È l’ammissione di un fallimento di regionalismo, municipalismo etc. etc. e il ritorno obtorto collo ai rappresentanti locali del governo centrale. Mi auguro succeda come quando si scopre l’improvvisa utilità di qualcosa che volevamo buttare via, che invece si dimostra risolutiva.

 

Il contro mes…sale grillo-leghista

Il Meccanismo Europeo di Stabilità (noto anche come MES) è un’organizzazione intergovernativa dei Paesi che condividono l’euro come moneta, e ha il compito di aiutare i Paesi che si trovano in difficoltà economica. È una componente molto importante dell’unione monetaria: serve a mettere in comune il denaro di tutti e a utilizzarlo nel caso in cui uno stato membro si trovi in difficoltà, visto che – condividendo la stessa moneta – le difficoltà di un paese possono avere conseguenze anche sugli altri. L’assistenza è però sottoposta a strette condizioni, trattandosi di uno strumento a disposizione dell’Unione economica e monetaria affinché gli Stati si facciano garanti, cioè adottino le misure necessarie per la stabilità economica, avendo come punto fermo il principio della responsabilità delle finanze pubbliche.

Il discorso meriterebbe di essere studiato e approfondito. Io non l’ho fatto e non intendo farlo, ma ho l’impressione che nella mia situazione di ignoranza (quasi) totale ci siano molti di coloro che discutono a vanvera sparando posizioni pregiudizialmente contrarie a questo strumento.

Innanzitutto è inutile scandalizzarsi del fatto che per poter attingere ai fondi del Mes sia necessario osservare determinate condizioni che garantiscano la serietà dell’utilizzo e la ragionevole certezza della restituzione. Chiunque concede un prestito, anche nell’ambito della propria cerchia famigliare, vuole capire a cosa servono i soldi che sborsa e intravedere la possibilità che vengano restituiti.

È altrettanto inevitabile che attingere a questi fondi tolga un po’ di autonomia finanziaria: non si può pretendere di ottenere prestiti senza dovere rendere conto o essere controllati al riguardo. Anche il più generoso dei finanziatori vuole almeno vedere dove vanno a finire i soldi ed avere serie garanzie del loro buon utilizzo, vale a dire che contribuiscano al risanamento delle finanze precarie del debitore.

Certo l’importante è che il rapporto non diventi una sorta di strozzinaggio controproducente per tutti. Della diatriba sui conti pubblici degli Stati membri in difficoltà e del conseguente continuo tormentone nei rapporti con l’Unione Europea voglio cogliere l’essenza, ponendomi un quesito: ha ragione la Ue a pretendere grande senso di responsabilità sul debito e sul deficit da parte degli Stati che chiedono aiuto richiamandoli rigorosamente agli impegni assunti o hanno ragione l’Italia e gli altri partner europei in bilico a chiedere maggiore flessibilità al fine di far fronte alle emergenze e crescere e così migliorare i propri conti.

Per rispondere a questa domanda vado a prestito da un episodio accadutomi durante la mia lunga esperienza professionale. Era stato fatto un pignoramento a carico di un artigiano-collaboratore di una cooperativa: era pieno di debiti e faticava a pagarli al punto che un creditore partì in quarta intendendo sequestrargli il compenso che percepiva. La cooperativa da me assistita si recò all’udienza davanti al pretore per sapere come si sarebbe dovuta comportare, esprimendo nell’occasione seria preoccupazione per il rapporto che rischiava di essere compromesso. Il giudice, dopo avere attentamente ascoltato le parti, si rivolse al legale che difendeva gli interessi dei creditori insoddisfatti e disse loro con molta franchezza: «Se questo artigiano, sequestrandogli tutto il compenso, non lo fate mangiare e non gli consentite di continuare la sua attività, sarà ben difficile che possa pagare i debiti. Quindi riformulatemi le vostre richieste nei limiti di una ragionevole parte degli emolumenti».

Occorre trovare un equilibrio senza sfiduciare pregiudizialmente il potenziale finanziatore, ma anche senza affidarsi ciecamente al suo buon cuore. Nel caso in questione poi il finanziatore non è un estraneo, ma un parente prossimo. Dobbiamo smetterla di considerare l’Unione Europea come una mera controparte con cui bisticciare a prescindere. Soprattutto dobbiamo smettere di ideologizzare i rapporti con la Ue riducendoli allo scontro fra i buoni/poveri e i cattivi/ricchi oppure pensando alla Ue come ad un coacervo di burocrati affamatori dei popoli. Non è un caso se i due populismi nostrani, quello grillino e quello leghista si trovino concordi nell’osteggiare pregiudizialmente il discorso Mes: il miglior metodo demagogico per distogliere l’attenzione dai problemi interni è sempre stato quello di aizzare il popolo contro fantomatici nemici esterni. L’Italia ha bisogno della Ue, pur riconoscendone i limiti politici, istituzionali e culturali: occorre l’umiltà di sedersi ai tavoli europei con senso di responsabilità e spirito costruttivo.

Non invidio i governanti italiani delegati a trattare con i partner europei, che si chiederanno: ma cosa pretendono questi signori? Non pagano le tasse, rubano persino il bastone a san Rocco, hanno una burocrazia che li paralizza, soffrono l’invadenza e la prepotenza delle mafie e poi vengono a battere cassa? Non hanno tutti i torti, anche se vale pure per loro il discorso di “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. In Europa ci siamo e ci dobbiamo restare. Non facciamo gli schizzinosi, non è il caso. Non pensiamo di cavarcela da soli, non ne siamo capaci. Discutiamo, trattiamo e partecipiamo con dignità e serietà.

 

 

 

 

L’anniversario del mio divorzio dalla gerarchia cattolica

Ieri, 1° dicembre 2020, ricorreva il cinquantesimo anniversario dell’introduzione in Italia della Legge sul Divorzio, la Legge Fortuna-Baslini, ovvero la n. 898 – “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, elaborata da Loris Fortuna e da Antonio Baslini. La strada per giungere a questo risultato è stata davvero molto lunga e ancora oggi la Legge sul Divorzio è oggetto di critiche e soprattutto di riforme.

Fu un grande risultato e forse segnò l’inizio di una trasformazione sociale del Paese, ma ovviamente la strada da percorrere rimaneva ancora lunga, perché l’Italia cattolica, quella antidivorzista, non si volle rassegnare; chiese il referendum, affinché fossero direttamente i cittadini ad esprimere le loro volontà. Ci vollero più di tre anni per andare a votare, ma dopo aver depositato alla Corte di Cassazione, 1 milione e 300 mila firme, il 12 maggio 1974 l’Italia si recò alle urne per votare per il Referendum sul Divorzio: si doveva decidere se abrogare o meno la Legge Fortuna-Baslini. Al Referendum partecipò l’87,7 percento degli italiani aventi diritto di voto.

La Legge, grazie a quasi il 60 percento dei no, resta in vigore. Il divorzio prevede lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando i coniugi dimostrano di non avere più alcun motivo, spirituale e materiale, per continuare a condividere la propria vita. Lo scioglimento è previsto per il matrimonio civile, si parla di cessazione degli effetti civili del matrimonio per quello concordatario (o religioso). Prima di giungere al divorzio, i coniugi devono registrare la loro separazione legale durante cui dimostrano di non coabitare. La Legge sul Divorzio del 1970 è stata modificata dalle leggi 436/1978 e 74/1987, quest’ultima ha ridotto il periodo di separazione da 5 a 3 anni.

Voglio celebrare questo anniversario ricordando una piccola vicenda personale, vissuta direttamente, pagata sulla pelle di cattolico impegnato e più o meno adulto. Non è la prima volta che la propongo, ma penso che serva a rendere l’idea della mia mentalità e della mia partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale (come mi ha insegnato mia sorella Lucia).

Nel 1974, anno in cui si tenne il suddetto referendum, collaboravo con il settimanale cattolico parmense Vita Nuova, testata prestigiosa, ricca di storia, diretta da un caro ed indimenticabile amico, gestita da una cooperativa, costituita tra i lettori del giornale; eravamo in pieno clima post-conciliare, con qualche timido ma significativo segnale di apertura al laicato, al dialogo con il mondo contemporaneo, all’attenzione ai problemi sociali e politici.

Il discorso si fece molto serio perché il direttore lavorò alla costituzione di un vero e proprio gruppo redazionale, che assemblava sensibilità e preparazioni diverse, che combinava sacerdoti e laici, che voleva interpretare la società parmense senza alcun intento integralista ma portando la voce dei cattolici nella vita cittadina: la redazione muoveva i primi passi, tenuta abilmente e premurosamente per mano dall’esperto direttore, acquisiva, strada facendo, una sua dignitosa funzione, si stava imponendo come stile nuovo ed esperienza concreta di dialogo all’interno della comunità diocesana.

Sui passi ancora incerti della redazione cadde il macigno del referendum sul divorzio, che la gerarchia cattolica aveva indirettamente promosso, che la Democrazia Cristiana aveva inopinatamente subito, che stava dividendo assurdamente i cittadini italiani in guelfi e ghibellini, laici e cattolici, che apriva il solito artificioso dibattito tra favorevoli e contrari, che ributtava indietro la vita politica italiana creando confusione e contrapposizione.

Il direttore Egisto Rinaldi nella sua limpida coscienza ritenne di schierarsi apertamente per il sì all’abrogazione, in linea con gli indirizzi della gerarchia anche a livello parmense. Niente da obiettare, ma durante una vivace e seria discussione la redazione chiese di poter aprire un dibattito al proprio interno riportandone gli esiti ai lettori.  La direzione del giornale accolse la proposta, il dibattito si svolse e fu magistralmente riportato su due paginoni del settimanale con tutte le precauzioni e precisazioni che la delicatezza del caso meritava. Emerse una posizione diversificata e venne evidenziata anche la posizione di chi (io fra di essi) faceva la distinzione tra la questione religiosa (indissolubilità del sacramento) e la questione politica (inopportunità di imporre per legge un principio religioso), dando una interpretazione avanzata della laicità della politica, basata sulla distinzione dei piani, collegati solo dalla coscienza della persona e non da imposizioni dall’alto.

Fin qui il nostro compito di redattori ed il nostro pensiero di cattolici impegnati: tutto nella chiarezza, nella diversità delle opinioni, nella garanzia del permanere nel campo dell’ortodossia, fornita dalla posizione del direttore e ben precisata ripetutamente sul settimanale. Non bastò a scongiurare il temporale, che francamente non immaginavo: il percorso era stato così lineare da prevenire polemiche e strumentalizzazioni. Invece mi sbagliavo perché il vescovo intervenne pesantemente, sentendosi in dovere di censurare nel merito e nel metodo la nostra iniziativa.

La reazione fu immediata, proporzionata e responsabile: dimissioni. Restò in carica solo il direttore in quanto lo ritenemmo fuori da ogni discussione. Ma non finì così perché chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo.

A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando che ritenevo di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e che non tutta la gerarchia era schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Dissi precisamente al Vescovo: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!” La riposta fu: “Non è vero!” Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato quel feeling che, nonostante tutto, deve esistere, tra padre e figli. Non c’era dialogo. Ne discutemmo ancora a livello di assemblea dei soci della cooperativa: si tentò di recuperare la situazione guardando avanti e sperando che, passato il ciclone divorzio, si sarebbe potuto ripristinare il collegamento. Fummo irremovibili e tutto finì. Fine della redazione di un settimanale cattolico. Da allora non misi più piede in strutture aventi un filo diretto con la gerarchia e…rottura insanabile con essa!

 

Burattini alla base e marionette al vertice

“Quello che ho visto ieri in alcune vie a Torino è qualcosa che mi riporta con la mente in estate e non possiamo permettercelo”. Il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, commenta così le immagini della folla che ieri hanno accompagnato la riapertura dei negozi. “Quello che è successo ieri a Torino è qualcosa di inaccettabile”, sottolinea ai microfoni di Radio Veronica One. “Questa mattina parteciperò al Comitato per l’Ordine pubblico e chiederò al prefetto interventi rigorosissimi – aggiunge – So che le forze dell’ordine hanno fatto tanto ma evidentemente non basta. I piemontesi si stanno comportando in modo serio, ma laddove ci sono situazioni che scappano di mano bisogna intervenire subito in maniera netta”. A Torino è bastato che i negozi rialzassero le serrande per vedere le vie del centro cittadino piene di gente, con lunghe code ma ordinate sui marciapiedi in attesa di entrare.

Non ci capisco più niente: non erano i governatori di Piemonte, Lombardia e Liguria a spingere sul governo per il passaggio da zona rossa a zona arancione? E non lo facevano per andare incontro alle esigenze dei commercianti costretti alla chiusura di negozi, bar, ristoranti, etc. etc.? E non potevano immaginare che la riapertura avrebbe comportato un immediato contraccolpo a livello di assembramenti? E come pensavano di affrontare queste assurde situazioni? Scaricando il barile sui prefetti? Sulle forze dell’ordine dopo aver creato i presupposti del disordine? Ma fatemi il piacere…

Mio padre scherzava con i modi di dire e li aggiustava a suo uso e consumo. “Chi è causa del suo mal pianga me stesso” sogghignava. Ed è proprio così: il male derivante dallo scriteriato comportamento della gente e dei loro governanti non procura lutti e pianti solo a chi trasgredisce in modo vergognoso, ma anche a chi cerca di fare il proprio dovere ed è costretto a subire le conseguenze delle enormi cazzate altrui.

Governatori de ché? Dei miei stivali! Sanno solo rincorrere gli umori delle categorie che a loro più interessano elettoralmente e se ne fanno condizionare, salvo poi piangere sul latte versato. È successo in estate con le discoteche, sta succedendo e succederà in periodo natalizio per gli impianti sciistici e per negozi e pubblici esercizi.

Tutto per consentire lo sfogo della celebrazione laica dell’ultimo dell’anno. Ebbene vorrà dire che andremo a brindare nei cimiteri, nei reparti ospedalieri, nelle terapie intensive. Al cenone e alle feste di capodanno non si può rinunciare, meglio morire, con l’illusione che muoiano solo gli altri. Questa è la società di merda che abbiamo costruito!

Abbiamo cifre pazzesche di morti e ammalati e non abbiamo il buongusto di chinare il capo: vogliamo fare shopping, vogliamo festeggiare, vogliamo brindare, vogliamo consumare. E chi governa balbetta, non ha il coraggio di chiedere e, se del caso, imporre regole rigidissime a salvaguardia della vita e della salute dei cittadini. Quando ho visto in televisione le immagini delle città uscita dalle zone rosse piene di gente scatenata che dava l’assalto ai negozi, ho pensato che fosse la vittoria di Pirro dei loro sedicenti governatori e dei governanti centrali del tira e molla.

Chiudere la stalla quando i buoi sono scappati è uno sport sempre di moda. A proposito di stalle, mia nonna raccontava spesso la gag del “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”: due ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati di prevedere l’uscio nella porcilaia. I governi regionali e periferici se la danno l’uno con l’altro, scaricano le colpe, sono maestri di incoerenza e contraddizione. In questa gara devo ammettere che i governatori regionali, con i loro apparati burocratici tali da fare invidia ai tanto bistrattati ministeri romani, vincono la medaglia d’oro dell’inadeguatezza. Non bisognerebbe generalizzare, io invece sono talmente stanco che mi sento di generalizzare e di mandare tutti al diavolo. Le Regioni stanno perdendo quel briciolo di credibilità che rimaneva loro. Stanno dando pessima prova dell’(in)capacità di gestire la cosa pubblica: e pensare che hanno poteri enormi e ne vorrebbero ancora di più. In dialetto parmigiano si dice “avérgh un bècch äd fér”. Gilberto Govi, in dialetto genovese, li chiamava “marionéti”.