Il bigottismo dietro l’angolo

La cosiddetta pillola del giorno dopo sarebbe inammissibile in quanto cronometricamente considerabile a valenza abortiva e quindi in contrasto con i diritti del feto. Se intendiamo dire che l’uso di un tale mezzo anticoncezionale non è sicuramente finalizzato ad un’impostazione responsabile della propria sessualità a fini riproduttivi, posso anche convenire: è indubbiamente funzionale ad un concetto “usa e getta” dei rapporti sessuali. Di qui a sostenere che ci troveremmo di fronte a vere e proprie pratiche abortive passa molta differenza. Ma lasciamo perdere quelle che Indro Montanelli definiva “beghe di frati”.

Purtroppo in ordine di tempo l’ultima bega di frati (con tutto il rispetto possibile e immaginabile per i frati) sta uscendo, a margine del vaccino anti-covid, da un’assurda polemica montata tra fake news, rigurgiti oscurantisti dei rapporti tra fede e scienza e falsi moralismi di maniera.

Il discorso riguarda feti abortiti non spontaneamente utilizzati nella preparazione dei vaccini, questione peraltro marginale se non addirittura destituita di fondamento: si è aperto pretestuosamente e forzosamente un dibattito fra tradizionalisti e progressisti (categorie che uso grossolanamente solo per rendere meglio l’idea), dal quale appare in filigrana la volontà di mettere continuamente e strumentalmente sotto battuta il papato di Francesco nella sua impostazione dottrinale e pastorale.

La Congregazione per la dottrina della fede si sarebbe infatti pronunciata in modo non sufficientemente chiaro e netto, lasciando troppo spazio alle più ardite posizioni possibiliste. Non basta più neanche l’anacronistico Sant’uffizio a placare le ire dei rigoristi bigotti e retrogradi.

Non entro nel merito per due motivi. Non ho la competenza scientifica e teologica per addentrarmi in simili disquisizioni, ma soprattutto giudico fuorviante un moralismo che parte dai precetti e non dall’essenza del messaggio evangelico. È la solita farisaica disputa in cui, a suo tempo, tentarono di irretire lo stesso Gesù, il quale se ne cavò fuori alla grande, partendo sempre e comunque dall’amore, per non giudicare, ma per salvare gli uomini e le donne.

Di fronte al dramma della pandemia andarsi a impelagare in vuote dispute dottrinali è operazione che grida vendetta al cospetto di Dio. Preoccupiamoci di salvare la gente in tutto il mondo e lasciamo perdere le disquisizioni moralistiche. Se posso azzardare un parallelismo, la storia è simile a quella di chi sottilizza sull’uso del preservativo in situazioni di aids dilagante: ma fatemi il piacere…Se Dio stesse a guardare queste bagatelle di stampo “bigottistico”, non esiterei a ritenermi ateo a tutti gli effetti.

Ho comunque una mia idea: dietro queste dispute di facciata si nasconde un attacco alla religione dei poveri di cui papa Francesco è portatore. Un papa che osa dichiararsi anticlericale e antidogmatico. È questo che infastidisce i benpensanti del cavolo, ai quali dei feti, degli aborti e dei vaccini non interessa un bel niente: l’importante è non rompere i coglioni con le aspirazioni dei poveri. Guai a mischiare la Croce di Cristo con quelle delle persone crocifisse sparse in tutta la terra, meglio magari fare come il cardinal Lambertini nella omonima commedia, il quale vedendo una croce sul seno fiorente di una bella dama, faceva salaci osservazioni sulla dolcezza di quel calvario.

Papa Francesco è sotto i riflettori e i suoi avversari palesi ed occulti non perdono occasione per trovarlo in castagna. Facevano così anche i farisei con Gesù. Il papa attuale, che giustamente si richiama al Vangelo tout court, ne sarà più gratificato che infastidito. Resta però una Chiesa (o almeno parte di essa), che continua imperterrita a scagliare pietre, guardando le pagliuzze bioetiche, trascurando le travi delle “inequità” sociali e sorvolando sui propri tremendi peccati.

 

 

Il Draghi dal volto umano

Due piccoli (?) incidenti hanno caratterizzato la conferenza stampa del presidente del Consiglio Mario Draghi all’indomani del “conclamato casino” su AstraZenaca conseguente ai pronunciamenti delle autorità sanitarie europee ed italiane e del governo stesso. Il premier, sentendosi probabilmente in qualche difficoltà, ha aggirato l’ostacolo delle clamorose incertezze sull’utilizzo del vaccino assai chiacchierato ed è partito all’attacco: “Alle Regioni dico: smettetela di vaccinare i giovani, queste platee di operatori sanitari che si allargano, gli psicologi di 35 anni. Con che coscienza un giovane si fa vaccinare e salta la lista sapendo che lascia esposto una persona che ha più di 65 anni o una persona fragile?”. Va detto che l’inserimento degli psicologi tra le categorie che hanno diritto al vaccino è previsto dal decreto legge 44 dell’01 aprile, varato proprio dal governo Draghi, che prevede dosi per tutti “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, farmacie, parafarmacie e studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita”. Categorie che sono obbligate dunque, visto che lo stesso decreto spiega che “la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.

Non è stata proprio una falsa partenza, ma quasi. In un certo senso ha risposto con un sacrosanto ma contraddittorio “pero” accusatorio ad un ondeggiante e preoccupante “pomo” sul vaccino della discordia. Il problema era ed è la frenante paura degli effetti collaterali di AstraZeneca, che purtroppo non viene controllata e tanto meno dissipata dai comportamenti schizofrenici delle autorità sanitarie e del governo preso in mezzo dalle stesse. Draghi ha fatto la mossa del cavallo e ha riportato la questione vaccini alla responsabilità nei comportamenti individuali sottolineandone il masochismo sociale. Un mio bravissimo e indimenticabile insegnante, quando a una sua precisa domanda si rispondeva in modo evasivo, aggiungeva: sì, la pubblicità è l’anima del commercio, la zia ha la scarlattina, Milano è a nord di Roma, etc. etc.

Devo ammettere di avere riscontrato in Draghi una certa qual tendenza al “piacionismo”, che francamente non mi attendevo: molto stile, molto savoir faire, molto tatto, molta furbizia, ma poco realismo governativo in un momento in cui siamo tutti alla disperata ricerca di qualche certezza. Nessuna ammissione di colpa, nessuna indicazione precisa al di là di qualche generica e toccante rassicurazione sul futuro. Mi aspettavo di più! Ricordo il comportamento insegnatomi dai maestri di comunicazione in campo cooperativistico: quando dalla situazione emergono inconfutabili dati su errori compiuti, bisogna partire col piede giusto ammettendo onestamente ed apertamente gli errori, solo così si può costruire qualcosa di positivo.

Non ho sentito da Draghi parole forti sui gravissimi errori compiuti a livello europeo e sull’intenzione di cambiare passo. Non ho colto la consapevolezza del senso di smarrimento esistente nella gente di fronte ai tira e molla degli scienziati e dei governanti e la conseguente volontà di rimediare con precise e realizzabili idee rassicuranti. Intendiamoci bene, non sto chiedendo a Draghi di fare il demagogo, ma nemmeno il pesce di lusso in un barile melmoso. Se l’idea rassicurante è quella delle cinquecentomila vaccinazioni giornaliere promesse dal generale Figliuolo, siamo completamente fuori strada. “Cala Tèlo” si dice dalle mie parti.

Poi ad un certo punto siamo arrivati all’involontario innesco di uno scontro diplomatico tra l’Italia e la Turchia. L’antefatto sta nello sgarbo protocollare perpetrato da Erdogan ai danni di Ursula von der Leyen, lasciata ripetutamente senza seggiola durante gli incontri diplomatici con i massimi rappresentanti della Unione Europea. Charles Michel seduto a fianco di Erdogan, von der Leyien in piedi ad attendere uno sgabello qualsiasi. Si trattava di scegliere tra la solidarietà con la presidente della Commissione europea e la difesa di lavori di distensione con un Paese di cui l’Europa ha un disperato bisogno. «Probabilmente è stato un errore, ma non mi sono alzato dalla sedia per paura di creare un incidente ancor più grave compromettendo mesi di attività diplomatica per una stabilità nelle nostre relazioni», così ha affermato Michel, presidente del Consiglio Europeo.

Queste le parole di Draghi in conferenza stampa: «Non condivido assolutamente Erdogan, credo che non sia stato un comportamento appropriato. Mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dovuto subire», ha premesso il presidente del Consiglio, per poi aggiungere: «Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono», ha sottolineato Draghi, «di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società; e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio». Queste parole hanno fatto incazzare i turchi.

Due brevi considerazioni. C’è una contraddizione nelle parole di Draghi: non si può coniugare franchezza e realpolitik fino al punto di definire l’interlocutore un dittatore per poi sedersi con lui al tavolo di una trattativa. Non ha senso né umano, né diplomatico. Sul piano etico faccio molta fatica ad ammettere che si debba cooperare con certi personaggi pur di salvaguardare gli interessi italiani ed europei. Sul piano politico non mi sembra il miglior viatico per un dialogo insolentire l’interlocutore con una verità che offende.

In conclusione, un veniale (?) peccato di evasione sulla vaccinazione ed una comprensibile (?) gaffe sui rapporti internazionali, che riportano il personaggio Draghi in una dimensione terrena rispetto alle aspettative paradisiache in cui anche il sottoscritto si era lasciato trasportare. Il premier non esce molto bene dalla suddetta conferenza stampa: simpaticamente più umano, ma politicamente meno credibile.

Urge un vaccino per la democrazia

L’uso del vaccino AstraZeneca è raccomandato sopra i 60 anni, ma non vietato negli under 60. L’Italia raccomanda il siero del vaccino anglo-svedese solo per chi ha più di 60 anni, sebbene non ci siano elementi per scoraggiare la somministrazione della seconda dose per quanti avessero già avuto la prima. A chiarire la posizione dell’Italia è stato Franco Locatelli durante la conferenza stampa al termine del vertice in serata tra governo e Regioni. La decisione è arrivata dopo il responso dell’Ema che ha parlato di un “possibile nesso tra questo vaccino e rare forme di trombosi”.

In serata si è svolta la riunione tra il governo e le Regioni, Comuni e Province, con il commissario all’emergenza Francesco Figliuolo per fare il punto sul piano vaccinale anti-Covid, in particolare sul caso AstraZeneca, specificando che “non ci sono casi di trombosi dopo la seconda dose” e che “da domani potrà essere somministrato anche nella fascia che va dai 60 ai 79 anni”. Alla riunione hanno partecipato anche la ministra agli Affari regionali Maria Stella Gelmini e il ministro della Salute Roberto Speranza. Che ha annunciato: per il cambio di indirizzo su AstraZeneca ci sarà “un provvedimento, con tutte le indicazioni. A breve faremo una circolare molto chiara sulla somministrazione del vaccino per gli over 60”. L’obiettivo del governo restano le 500mila dosi al giorno entro fine aprile. Il piano vaccinale andrà rimodulato, ma lo sarà in modo da non subire rallentamenti, è il messaggio di fiducia.

Questa la scarna cronaca dei fatti (?) tratta dal quotidiano La Repubblica. Tento di andare con ordine nell’esprimere un istintivo e sofferto moto di protesta verso una paradossale situazione, che sta creando un vero e proprio disastro vaccinale.

Innanzitutto Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità e coordinatore del Comitato tecnico scientifico, quindi il massimo esponente ufficiale della scienza di fronte alla pandemia, non può e non deve assumere un atteggiamento a metà strada fra l’azzeccagarbugli e il ponzio pilato, snocciolando analisi in punta di forchetta, che sembrano fatte apposta per non lasciar capire niente ai “poveri mortali”, e finendo col mollare la patata bollente, peraltro proveniente dall’Ema, nelle mani del governo. Il tutto è riconducibile al gioco del “va’ avanti ti ch’am scapa da riddor”. Se questo è il contributo decisivo della scienza alla soluzione dei problemi, meglio essere ignoranti e usare un po’ di buon senso. A chi gli ha contestato un cambio di indirizzo fra l’invito iniziale a usare il vaccino AstraZeneca per le persone più giovani e l’attuale proposta di usarlo per i più anziani la risposta è stato un arrampicamento dialettico su per gli specchi con le mani sporche di grasso.

Ema, agenzia europea per i medicinali, in un vergognoso tiramolla dettato unicamente da ragioni di sopravvivenza politica, ha firmato la debacle totale dell’Europa, peraltro già avviata con la scriteriata ed irresponsabile fase dei contratti di fornitura stipulati al buio con le aziende farmaceutiche e ulteriormente segnata dall’agire in ordine sparso in un assurdo clima del “si salvi chi può”. L’Unione europea esce politicamente distrutta dalla vicenda covid, con le ossa rotte e con la credibilità tendente a zero. D’ora in poi parlare di Europa sarà quasi impossibile. Fanno sorridere i tentativi di trovare in extremis un indirizzo comune sull’utilizzo del vaccino AstraZeneca dopo che ogni Paese ha già abbondantemente assunto le sue posizioni in assoluta autonomia, anticipando addirittura i pronunciamenti dell’Ema stessa.

Mi chiedo se d’ora in poi la preannunciata circolare ministeriale sulla somministrazione del vaccino per gli over 60 non suonerà come una grida manzoniana, se l’obiettivo della somministrazione di 500mila dosi giornaliere non andrà a implementare il libro dei sogni, se la collaborazione tanto auspicata con le Regioni non diventerà sempre più una irresponsabile corsa allo scaricabarile peraltro già in essere fin da inizio pandemia.

Ma il punto cruciale è come reagirà la gente di fronte a questo scandaloso balletto. Cosa penseranno le donne under 60 già vaccinate con AstraZeneca e quelle che dovrebbero avere la dose di richiamo con questo vaccino? Le persone over 60 accetteranno un vaccino così chiacchierato, alle prese con i dubbi sulla sua efficacia e sui rischi collaterali? Se e come si potrà sostituire AstraZeneca con altro vaccino più sicuro e più efficace? E poi, succederà che il vaccino cattivo scacci quello buono, screditando tutto in un vortice di sfiducia e incertezza?

Tutti gli errori possibili e immaginabili sono stati commessi, domina la confusione e la disorganizzazione, la scienza fa politica e la politica si affida alla scienza, le multinazionali del farmaco dettano legge, la geopolitica sovrasta gli interessi della gente, l’egoismo nazionale compromette ogni e qualsiasi discorso di imprescindibile solidarietà a livello mondiale. In conclusione sta andando a puttane la democrazia, che etimologicamente parlando significa “governo del popolo”, ovvero sistema di governo in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo, ma che, ragionando dal punto di vista sostanziale, comporta l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni elette e di tutte le componenti operanti nella società. Purtroppo nessuno si sta assumendo seriamente le proprie responsabilità, ragion per cui la democrazia rischia grosso e si potrebbe persino rischiare di pensare a qualcuno che le riassuma tutte in se stesso ed eserciti il potere in modo autoritario o dittatoriale.

Purtroppo gli effetti devastanti della pandemia non si fermano alla salute dei cittadini, ma si allargano all’Europa, alla politica, alla democrazia, al vivere civile. Siamo veramente messi molto male. Se andiamo avanti così le proteste di piazza diventeranno il pane quotidiano. Chi si sente infatti, in mezzo a questo casino, di rimproverare ristoratori e commercianti che ritengono di essere beffati dalle autorità? Cosa potrà mai fare Mario Draghi per recuperare e incollare i cocci di un sistema che fa acqua da tutte le parti? Il presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale, ha fatto benissimo a sottoporsi in modo disciplinato alla vaccinazione. Ora ci faccia un piacere molto grande: intervenga per salvare il salvabile, metta in campo tutta la sua credibilità, ci dia una mano. Chiedo molto, forse troppo, ma non so a quale altro santo votarmi.

 

 

 

La vera scienza ammette i propri limiti

Sono perfettamente consapevole di ripetermi, ma lo faccio a ragion veduta e perché sono stanco di ascoltare sentenze sputate alla viva il parroco, non da parrocchiani qualsiasi, ma da sacerdoti e sacerdotesse quotate nel borsino scientifico.

Parto da lontano. Se posso dire la mia opinione fuori dai denti, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti (preferisco usare questo termine anziché quello di scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno, perché si tratta di paradossi, ho avuto ed ho stimatissimi parenti, amici e conoscenti tra gli appartenenti alle suddette categorie  e oltre tutto, nella terza penso di rientrare dal momento che sono in possesso di uno straccio di laurea in economia, quindi in un certo senso sputo coraggiosamente (?) nel piatto in cui mangio.

Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. A una mia amica, che mi chiedeva spiegazioni al riguardo, ho scodellato un esempio su due piedi, piuttosto brutale ma significativo. Di fronte ad un episodio di inaudita violenza di un giovane contro i propri famigliari lo psicologo potrebbe così trovare l’origine di questo comportamento: quand l’era un ragas, ‘na volta l’ha ciapè ’na psäda in-t-al cul  da so pädor…

I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Volete un esempio? Fiumi di parole sulla crisi della famiglia. Questo fenomeno lo conosciamo tutti e ne sappiamo bene anche le cause.

Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai. Ci hanno tormentato con il contenimento della spesa pubblica per non creare inflazione e così ci hanno portato alla crisi economica con tutte le conseguenze del caso.

Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”

Forse sono stato poco “complimentoso”, ma un po’ di verità in quel che ho detto c’è, eccome, e mi sento di allargare il discorso ad una categoria professionale che va per la maggiore, vale a dire i virologi, coloro che operano nel ramo delle scienze biologiche e mediche che si occupa dello studio dei virus e della loro patogenicità.

La moglie di Matteo Renzi, dopo essere stata vaccinata come insegnante, si è beccata il covid. Lasciamo stare il fatto che se un simile caso fosse successo alla moglie di un tizio qualsiasi non ne avrebbe parlato nessuno, ma questo è un altro discorso rispetto a quello che voglio fare. Una illustre virologa, interrogata al riguardo, ha messo in scala gli scontati motivi: aveva avuto solo la prima dose, forse era passato poco tempo dalla vaccinazione, occorre anche la seconda dose per avere una protezione consistente, poi, comunque, si dovrebbe avere la protezione contro la morte e, dulcis in fundo, l’infezione è una cosa, la malattia un’altra.

Quindi, mettiamoci il cuore in pace, dopo essere stati vaccinati ci possiamo ancora infettare, dobbiamo solo sperare di non ammalarci e incrociare le dita al fine di non morire. Parola di virologa! Non era meglio se questa illustre studiosa avesse candidamente ammesso: di questo virus e dei vaccini che lo dovrebbero combattere non abbiamo capito quasi niente, non facciamoci illusioni e speriamo bene.

Ricordo con stima e simpatia il medico che aveva curato mio padre in un reparto ospedaliero dove era stato ricoverato per un presunto ictus cerebrale. Quando fu dimesso, fortunatamente senza conseguenze fisiche e mentali, mi confidò più amichevolmente che professionalmente: “Nella lettera di dimissioni abbiamo scritto qualcosa, ma devo ammettere che, dopo tutti gli esami e gli accertamenti eseguiti, non abbiamo capito niente…”. Questa, a mio parere, si chiama onestà intellettuale, che parte umilmente dai limiti che soprattutto certe scienze hanno e relativizza i discorsi scientifici, evitando di dare pericolose illusioni e fuorvianti prospettive. Spero di essermi spiegato.

 

 

I ristori non bastano ai ristoratori

Era quasi inevitabile che le piazze cominciassero a ribollire a causa delle difficoltà inerenti alle chiusure di alcune attività economiche particolarmente tartassate quali la ristorazione. Che ci scappi qualche violenza è purtroppo altrettanto inevitabile, non mi scandalizzo. Capisco le lamentele ma capisco anche le cautele. Probabilmente i ristoratori vedranno incongruenze nelle scelte fra chi deve chiudere e chi può rimanere aperto: effettivamente qualcosa non ha funzionato nei tempi e nei modi. Gli apri-chiudi hanno fatto più danni, psicologicamente ed economicamente, delle chiusure continuative; si è data, in una prima fase, l’illusione che, adottando certe misure cautelari, si potesse proseguire l’attività e così si sono fatte spese che hanno ulteriormente e beffardamente peggiorato la situazione dei conti. I consumi sono diminuiti causa l’andamento generale assai precario, ma hanno preso botte forse irrimediabili dalle chiusure, mentre i cosiddetti ristori stanno facendo cilecca dal punto di vista quantitativo, organizzativo e della tempistica, ingenerando un senso di scoramento e di abbandono in questi operatori economici.

Effettivamente passando davanti ai ristoranti chiusi mi assale un senso di grande tristezza: sono il segnale eclatante di una vita bloccata, niente però in confronto all’angoscia indotta dalla visione televisiva dei reparti di terapia intensiva dove si combatte fra la vita e la morte. Non mi sento di colpevolizzare per le proteste chi è costretto ad abbassare la saracinesca sulla propria azienda, sul proprio lavoro, sul frutto dei propri sacrifici. Forse lo Stato potrebbe fare qualcosa di più? Non so esprimermi al riguardo: da una parte vedo la necessità di sostenere momentaneamente certe attività particolarmente colpite, dall’altra mi rendo conto che la finanza pubblica non è un pozzo senza fine anche perché sconta, volenti o nolenti, le ristrettezze storiche provenienti da un passato spendaccione e inconcludente. Qualcuno sostiene che sia addirittura inutile e controproducente continuare a spargere denaro a pioggia, meglio mirare e indirizzare gli aiuti su investimenti che abbiano un futuro economico e sociale. E lasciamo morire chi agonizza? E assistiamo ad una decimazione di fatto rispondendo con un “si salvi chi può” al grido di chi chiede un aiuto?

Personalmente, senza timore di essere smentito dagli scienziati, che una ne inventano, una ne dicono e una ne sparano a vanvera, avrei portato avanti, come ho già avuto modo di scrivere, una politica severa di concertazione con le categorie economiche, basata su patti molto stringenti, controllati con estrema intransigenza nella loro applicazione.  In effetti i comportamenti molto spesso non sono stati incoraggianti in tal senso, ci si è illusi di affrontare i problemi all’italiana, sostituendo gli apericena con gli aperipranzo, lisciando il pelo ai consumatori più irresponsabili e trasgressivi anziché puntare sulla clientela più seria ed affidabile.

Non avrei fatto ricorso alle chiusure a macchia di leopardo, che sembrano fatte apposta per creare confusione: perché chi ha la sfortuna di operare in zone più sensibili e attaccate dalla pandemia deve essere penalizzato rispetto a chi lavora in territori meno toccati dal virus? Mi si dirà che bisogna essere pragmatici ed è vero, ma un minimo di omogeneità non può mancare.

Speravo che il governo di unità nazionale potesse disinnescare certe bombe ad orologeria. Mi sembra che la protesta stia montando al di là della credibilità teorica dei governanti. Un maggiore senso di responsabilità da parte dei politici tuttavia non guasterebbe, anche se forse la situazione sta comunque scappando di mano. E pensiamo a quando, prima o poi, scadrà la cassa integrazione. Pensiamo a quando verrà il momento di fare dei sacrifici da parte di coloro che si sono salvati in corner. C’è da tremare! Che ciascuno cerchi di fare tutto il possibile senza scatenare violenza e senza accendere fuochi devastanti. E facciamo giorno e notte questa benedetta campagna vaccinale, usando i vaccini più sicuri, senza creare fasce sociali di seria a e b, senza dimenticare che il mondo dovrà comunque cambiare. In peggio per i contemporanei abituati al meglio (?), in meglio per i posteri ai quali non possiamo e dobbiamo rinviare il nostro peggio.

Piangere come una rai tagliata

Stando alle indiscrezioni, il governo Draghi starebbe preparando un ribaltone in casa Rai. Al dossier, secondo quanto riportato dalla Stampa, stanno lavorando Antonio Garofoli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Funiciello, capo di gabinetto del Premier, Alessandro Rivera, direttore generale del Tesoro e uomo di fiducia di Daniele Franco, e Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico.

Era ora che qualcuno si accorgesse degli assurdi andamenti di questo ingombrante carrozzone. Troppi costi, pochi introiti, scarsa audience. Prima di decidere sui nuovi amministratori è più che opportuno che il governo e il parlamento indaghino sulla situazione. Non ci vuole molto a capire che dove basterebbe un giornalista ne vengono impiegati tre, che certi programmi non hanno né capo né coda, che la qualità molto spesso lascia alquanto a desiderare, che gli introiti, spesso portati a giustificazione di spese pazze, sono in calo.

I “programma di intrattenimento”, vale a dire tutte quelle trasmissioni che non rientrano né nei programmi di informazione né in quelli di comunicazione politica, fanno venire il latte alle ginocchia. L’informazione è drogata e poco obiettiva, la politica è invadente e spesso prevaricante. In mezzo a uno sconfortante piattume, ogni tanto si alza qualche acuto, che però non è sufficiente a riscattare il livello decisamente basso della proposta Rai, che ha tutti i difetti delle emittenti private (rincorsa affannosa e penosa dell’audience a tutti i costi) senza averne i pregi (una certa qual indipendenza dai pubblici poteri).

Si nota ad occhio nudo lo sperpero di risorse umane con paradossali sovrapposizioni: si pensi ai quirinalisti (uno per ogni tg), si pensi ai giornalisti che si occupano di Parlamento (capaci soprattutto di disturbare con scolastiche rimasticature le dirette dalle aule del Senato e della Camera), si pensi alla pletora di commentatori politici interni ed esterni (si divertono ad offrire la più becera delle fiere di ovvietà), si pensi ai cronisti della politica  (flotte di ragazzotti e ragazzotte a cui viene messo in mano un microfono per pedalare), si pensi ai cronisti in genere (capaci di rincorrere le stupidaggini, lasciando perdere le cose importanti), si pensi ai conduttori ed alle conduttrici (i primi tesi a sgomitare per difendere il loro pezzetto di palinsesto, le seconde preoccupate di mostrare cosce e sfoggiare piccanti toilette).

E dare un’occhiata a stipendi e cachet potrebbe riservare interessanti riscontri etico-professionali. Mi piacerebbe tanto conoscere questi dati, perché sono più che sicuro che nascondano un vero e proprio attentato all’equità e alla serietà, una provocazione sbattuta in faccia a chi soffre e geme nelle doglie del parto di una società più giusta e democratica.

Con lo stile ed il garbo che lo contraddistinguono spero comunque che Mario Draghi abbia tempo e voglia di intervenire a gamba tesa in questo campo. Farebbe cosa buone e giusta, equa e salutare. Se non ci prova lui, chi mai ci potrà riuscire. Non è solo un problema di indipendenza dai partiti politici e dai loro interessi di bottega, è una questione culturale a tutto tondo. Non si accontenti di cambiare qualche dirigente al vertice, abbia la forza di “andare giù una mano di vanga” senza pietà nell’interesse dell’opinione pubblica e dei cittadini spettatori incolpevoli. Qualcuno parla di un vero e proprio modello Draghi per la Rai: mi piace già immaginarlo, figuriamoci se diventasse realtà.

Se pretendiamo giustamente da Mario Draghi esempi di discontinuità politico-programmatica nell’affrontare l’emergenza, a maggior ragione ci dovremmo aspettare un cambio di passo nella gestione di questo circo mediatico che si chiama Rai. Vuoi vedere che sia la volta buona per mandare a casa qualche mangiapane a tradimento e qualche saltimbanco di professione? Me lo auguro di vero cuore.

 

C’è sempre da imparare…anche da Casaleggio

Mia sorella Lucia, nella sua implacabile schiettezza, come ho già avuto modo di scrivere, non sopportava i grilloparlanteschi atteggiamenti della gerarchia cattolica nelle sue varie espressioni centrali e periferiche, volti ad esprimere forti e generiche critiche ai politici, con cui peraltro non era affatto tenera. Rinviava però al mittente parecchi rilievi: “Sarebbe molto meglio che si guardassero loro, che ne fanno di tutti i colori, anziché scandalizzarsi delle malefatte delle persone impegnate in politica”. Punto e a capo.

A volte esagerava nei toni, ma aveva perfettamente ragione nella sostanza. Ho rispolverato, come spesso mi accade, questo suo atteggiamento critico apprendendo il nuovo, triste capitolo del caso Bose, sul quale torno a scoppio ritardato. Un decreto del delegato pontificio, padre Amedeo Cencini, ha concesso all’ex priore, fratel Enzo Bianchi, una settimana di tempo per lasciare la comunità nel Biellese e trasferirsi a Cellole di San Gimignano, provincia di Siena e diocesi di Volterra, in un’antica canonica trasformata alcuni anni fa nella sede toscana della stessa Bose. Ma, per rispettare il precedente decreto pontificio che imponeva il trasferimento all’esterno della comunità, Cellole perde qualsiasi connotazione monastica, viene ceduta in comodato a Enzo Bianchi che sarà accompagnato da tre o quattro confratelli. Continueranno a essere considerati monaci ma “extra domum”. Senonché Enzo Bianchi avrebbe rifiutato la nuova destinazione e allora…

Forse la telenovela non finirà mai, magari si troverà un finale penoso quanto prevedibile, ma rimane aperto un problema enorme nella vita della Chiesa: non è ammesso il dissenso, non è accettato il pluralismo, il dialogo non può durare che fino a mezzogiorno. Non entro nel merito della controversia, anche perché viene silenziato, ma il metodo non mi piace, anzi mi scandalizza. È possibile che in una comunità monastica si risolvano i contrasti a suon di burocratici decreti pontifici e di drastiche espulsioni? Nemmeno nel peggiore dei partiti politici si arriva a tanto. Il clima, tutto sommato, è quello di una caserma, dove si tace e si obbedisce a prescindere. “Credere, obbedire e combattere” era un motto fascista di cui non si trova traccia nel Vangelo.

“Credo la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica”, così si dichiara durante la messa. Sulla sua natura gerarchica ci sarebbe quindi molto da discutere, ma i metodi sbrigativi sono una degenerazione dell’impostazione gerarchica stessa. Così facendo si impoverisce la comunità, privandola di certi carismi e inquadrandola in un perimetro ristretto dove alberga un pericolosissimo pensiero unico. La Chiesa è specializzata nel perdere il pelo, ma non i vizi e, tra questi, quello del punire ed emarginare chi osa dissentire o esprimere idee non perfettamente in linea con la dottrina e la prassi ufficiali.

Quando con il caro amico don Luciano Scaccaglia si combatteva qualche battaglia “trasgressiva”, mi premuravo di avvertirlo dei rischi che poteva correre a livello disciplinare: “A me, in fin dei conti, non possono dire niente, delle loro reprimende me ne faccio un baffo, ma per te è diverso, rischi provvedimenti gravi con tutto quel che ne segue”. Lui mi guardava, mi ringraziava e mi rispondeva: “Andiamo avanti!”. Il coraggio non gli mancava. Nella Chiesa bisogna fare così, ma non è giusto costringere ed irrigidire i rapporti fino a questo punto.

Sono molto dispiaciuto per don Enzo Bianchi, per la comunità di Bose e per tutta la Chiesa. Un mio amico che non accettava imposizioni, desiderava ardentemente votare in occasione della nomina del vescovo. Aveva perfettamente ragione. Invece arriva in diocesi un personaggio calato dall’alto, non si capisce mai in base a quali criteri sia stato scelto, accolto dal clero con la stessa preoccupazione con cui gli impiegati attendono l’arrivo di un direttore, visto spesso come un unidentified flying person.

Nel movimento cinque stelle è stata introdotta l’espressione on line del voto sulla cosiddetta piattaforma Rousseau da parte degli iscritti, sulle scelte fondamentali da adottare (pare che le cose stiano cambiando…): una forma di partecipazione democratica più formale che sostanziale, una sorta di mini-plebiscito preventivo sull’operato dei dirigenti, una parodia democratica a livello di suffragio assai poco universale. Meglio di niente, si dirà. Sì, infatti, e se provassimo ad adottare una simile procedura all’interno della Chiesa? La gerarchia cattolica è sicuramente critica verso il M5S, le sue sparate ed i suoi metodi. Ebbene, si guardassero in casa loro, come diceva mia sorella, e provassero a fare una piccola flebo di democrazia andando magari a lezione da Beppe Grillo e Davide Casaleggio (accontentiamoci…). Tentare non nuoce, magari con una piattaforma “Spaemann”. Chi era? L’ultimo grande filosofo cattolico. Forse si scaravolterà nella tomba.

 

 

Le cantate (abbastanza) chiare di Cantalamessa

Nel giorno del Venerdì Santo in cui la Chiesa celebra la Passione del Signore e rivolge a Dio la grande Preghiera Universale perché “le conceda unità e pace” e “la protegga su tutta la terra”, il predicatore della Casa Pontificia, il cardinale Raniero Cantalamessa, ha sviluppato una profonda riflessione sulla fraternità, alla quale Cristo, sulla Croce, ha dato un nuovo fondamento. E si è soffermato, poi, sulla fraternità nella Chiesa Cattolica, oggi ferita dalle divisioni a causa dell’opzione politica che “prende il sopravvento su quella religiosa ed ecclesiale e sposa una ideologia, dimenticando completamente il valore e il dovere dell’obbedienza nella Chiesa”. E invece, ha affermato il religioso cappuccino, è l’unità cui si deve puntare.

“Dobbiamo imparare dal Vangelo e dall’esempio di Gesù – ha detto il porporato -. Intorno a lui esisteva una forte polarizzazione politica. Esistevano quattro partiti: i Farisei, i Sadducei, gli Erodiani e gli Zeloti. Gesù non si schierò con nessuno di essi e resistette energicamente al tentativo di trascinarlo da una parte o dall’altra”. Padre Cantalamessa ha aggiunto che “la primitiva comunità cristiana” ha seguito fedelmente Gesù in tale strada e che “questo è un esempio soprattutto per i pastori che devono essere pastori di tutto il gregge, non di una sola parte di esso”. “Sono essi perciò i primi a dover fare un serio esame di coscienza – ha proseguito il predicatore della Casa Pontificia – e chiedersi dove stanno portando il proprio gregge: se dalla propria parte o dalla parte di Gesù”. Quindi il porporato ha ricordato: “Il Concilio Vaticano II affida soprattutto ai laici il compito di tradurre le indicazioni sociali, economiche e politiche del Vangelo – e ci sono nel Vangelo! – in scelte anche diverse, purché sempre rispettose degli altri e pacifiche”.

Ho ripreso integralmente la cronaca dal sito del Vaticano per non essere fuorviato da interpretazioni pelose o faziose di questo accorato appello all’unità all’interno della Chiesa Cattolica. Evidentemente però al predicatore dei predicatori friggeva la lingua di sacro furore e non si è lasciato scappare l’occasione per vuotare il sacco contro le divisioni che emergono dall’insofferenza verso la pastorale impostata e portata avanti da papa Francesco.

Cantalamessa ha rischiato persino lo “strafalcione evangelico” collocando al Venerdì Santo quanto tradizionalmente viene collocato al Giovedì Santo, nel momento in cui Gesù ha invocato il dono straordinario dell’unità durante l’Ultima Cena, prima della sua passione: “Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).

Superato questo piccolo disguido – probabilmente voluto per significare la sofferenza di Gesù in croce di fronte alle divisioni profonde e strumentali all’interno della Chiesa, forse più a livello episcopale che del popolo di Dio – bisogna pure passare da un richiamo biblicamente ben piantato, teologicamente indiscutibile anche se da coniugare con altri principi altrettanto irrinunciabili, ma indubbiamente e concretamente generico, alla individuazione di chi e come sta giocando sporco nella gerarchia cattolica.

Azzardo il pronostico che si tratti soprattutto delle sbandate politiche dell’episcopato statunitense e dei pruriti inquisitori della Curia romana e di chi si diverte a fare le pulci ad un papa scomodo nella misura in cui prende a riferimento il Vangelo, fregandosene altamente degli equilibrismi strutturali e dei contraccolpi politici. In buona sostanza, gira e rigira, nella Chiesa, da sempre, vale a dire da Gesù in avanti, dà fastidio l’opzione a favore dei poveri e degli ultimi.

La morale della favola la fissa plasticamente lo stesso papa Francesco, ben consapevole di essere nell’occhio del ciclone: «Parlare sempre dei poveri non è comunismo, è la bandiera del Vangelo».  Il vescovo brasiliano dom Helder Camara rincarava la dose: «Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista».

Il comunismo fa ancora e sempre paura, se è vero come è vero che si tratti, in fin dei conti, di un cristianesimo politicamente impazzito. E chissà perché la pazzia vale solo per il comunismo e non vale, tanto per stare ai tempi nostri, per il trumpismo. La scelta a favore dei poveri è un prezzo irrinunciabile che la Chiesa deve pagare. Ecco cosa intendevo dire quando sopra ho parlato di coniugazione dei principi: essere uniti non può significare sacrificare sull’altare dell’unità la lotta alla povertà e per la giustizia. Non ci si può infatti fermare a predicare e praticare l’elemosina, bisogna andare alla Carità intesa in senso lato e completo. Non confondiamo l’unità della Chiesa con la ragion di Chiesa, come successe col nazismo ed il fascismo.

Di fronte alla folla stanca ed affamata Gesù ha operato innanzitutto la moltiplicazione dei pani coinvolgendo in essa gli apostoli, solo dopo e in altra sede ha impartito la scomoda lezione del pane di vita. Papa Giovanni sosteneva che ad un affamato non puoi parlare seriamente di Dio, se prima non gli dai da mangiare.

Mio padre, da grande saggio qual era, sosteneva che per giudicare e fare i raggi etici a una persona bizoggnava guardarne e toccarne il portafoglio. È lì che casca l’asino, è lì la prova del nove di certa generosità a parole, di certa disponibilità teorica. «Tochia in-t-al portafój…». Vale anche per la fede cattolica.

In conclusione bisogna partire dal Vangelo, che peraltro non ammette compromessi, il resto è una difficile ma imprescindibile conseguenza. Come dimenticare al riguardo l’episodio raccontato con rara e simpatica verve ironica da don Andrea Gallo, il quale era stato chiamato a rapporto in Vaticano da un importante cardinale per discutere dei comportamenti pastorali border line del più pretaccio dei pretacci. Don Gallo scelse una linea difensiva semplice ed inattaccabile: «Io applico il Vangelo…». Momento di panico. Il cardinale ribatté laconicamente: «Beh, se la metti su questo piano!?». «E su quale piano la dovrei mettere?» chiese provocatoriamente don Gallo.

 

 

                            

 

 

La luce femminile sul fattaccio della Croce

C’è un fatto per antonomasia, che merita di essere commentato, anzi un “fattaccio”, che merita di essere rinnovato nella sua strabiliante e sofferta umanità, ma anche nella sua immanente e misteriosa divinità. Mi riferisco alla crocifissione di Gesù di Nazaret.

Non sono un teologo e quindi faccio molta fatica a trovare il filo della matassa aggrovigliata del dolore di cui questo evento è segno sacramentale. Non sono un biblista per scandagliare la storia della salvezza e collocare in essa la “disastrosa” fine di Colui, che si dichiara Figlio di Dio e che muore a dispetto di (quasi) tutti e risorge a consolazione di pochissimi.

Sono soltanto un povero seguace di quest’Uomo-Dio, che tenta di carpire qualche segreto dall’epilogo drammatico della sua vita finita tragicamente nella morte in Croce. E mi chiedo perciò dove erano e cosa facevano tutti coloro che lo avevano incontrato e conosciuto, direttamente o indirettamente.

Capisco bene chi lo aveva osteggiato, intravedendo in Lui un attacco sconvolgente e proditorio al potere religioso e che ha aspettato un po’ di tempo, ma poi finalmente è uscito allo scoperto e ne ha spaventosamente provocato un vero e proprio massacro. Ma gli altri dove erano? Probabilmente tutti presi in contropiede dal processo sbrigativamente intentato e parodisticamente celebrato. Il tradimento di Giuda, che sembra fattualmente un evento superfluo, ha avuto forse la funzione di far precipitare la situazione spiazzando un po’ tutti.

Dove erano i suoi timorosi apostoli? Lo sappiamo: erano scappati, probabilmente delusi, sicuramente spaventati, certamente dubbiosi riguardo allo sbocco di una vicenda esistenziale, di cui, bene o male, erano stati testimoni. Intendiamoci bene: non si trattava solo di uno sparuto gruppetto di “fifoni”, pronti a darsela a gambe di fronte alla brutta piega degli avvenimenti riguardanti il loro maestro di vita. Erano gli spauriti comprimari di un fatto apparentemente e paradossalmente inspiegabile: un messia che finisce in croce. Vai a pensare che tutto ciò significava l’amore incommensurabile di un Dio riveduto e corretto dal suo figlio fatto uomo… Era dura ed è tuttora dura da bere, anche se è così: prendere o lasciare!

Ma dove erano tutte le persone che Gesù aveva incontrato e beneficato in vario modo? I lebbrosi guariti e riportati nella società, i paralitici rimessi in piedi, i cechi e i sordomuti riconsegnati ad una vita di normali relazioni, gli indemoniati guariti dalla loro follia, i ritornati in vita per il suo intervento, tutti coloro che avevano assistito alla prodigiosa moltiplicazione dei pani e dei pesci, tutti quanti si erano entusiasmati con le sue ficcanti prediche, tutti i peccatori incalliti riscattati dal suo precipitoso e delicato perdono, tutti coloro che ne avevano apprezzato le parole e le opere? Dove erano i seguaci di Giovanni Battista, privi della loro storica guida, ma titubanti verso il cugino così diverso dalle loro aspettative? Dove erano tutti costoro, quando Pilato improvvisò un referendum alle grida per decidere se liberare Gesù o Barabba? É vero che allora non c’erano i social media per informare e mobilitare la gente, è vero che il sinedrio giocò d’anticipo, prevenendo ogni e qualsiasi contestazione popolare ad una squallida manovra di puro potere, fatto sta che quella città, a poche ore di distanza da un trionfo bello e buono, riservava al Figlio di Davide, dopo gli osanna, i crucifige implacabili ed insistenti.

E Pilato dove era? Avrà sicuramente, in precedenza, sentito parlare di questo imprevedibile e stranissimo personaggio. La guarigione del servo del centurione non sarà passata sotto silenzio a livello della truppa romana e probabilmente qualcosa sarà arrivata all’orecchio del governatore. Avrà pur saputo che questo Gesù era capace di mobilitare le masse, ma le ammaestrava con insegnamenti pacifici e non dimostrava alcuna ostilità preconcetta nei confronti dell’invasore romano. Una volta che gli venne consegnato, capì immediatamente il retroscena della vicenda, il complotto che i capi degli ebrei stavano confezionando. Presumibilmente si sarà ulteriormente informato dai suoi più stretti collaboratori, che gli avranno riferito di un personaggio scomodo per il Sinedrio, ma innocuo per i Romani, sempre pronto a schierarsi pacificamente dalla parte dei deboli, ma comunque non ostile e lontanissimo da ogni e qualsiasi trama rivoluzionaria in senso materiale.

Possibile che il Sinedrio, peraltro non perfettamente unito nel giudizio su Gesù (a proposito dove erano i maggiorenti in buona fede che lo stimavano seppure sotto traccia?), sia riuscito a fare un vero e proprio golpe religioso con la pavida complicità di Pilato e nell’indifferenza generale? Possibile, anche se sembra che tutto rispondesse ad una logica predeterminata e inesorabile.

E quale può essere questa logica? Si tratta della più illogica delle vicende umane, ma della più grande e paradossale manifestazione divina. Dio fa una continua provocazione amorosa e poi aspetta: l’innamorato respinto non si rassegna e dà la vita e così avviene nei secoli dei secoli. E noi abbiamo la spudoratezza di chiosare il tutto con un “Amen”. Sentirsi in colpa è poco! Ci riescono il centurione romano ai piedi della Croce, che riconosce Il Figlio di Dio e il ladrone in croce, che osa chiedere perdono. Ciò a significare che noi siamo peggio di questi due estremi personaggi: un kapò, che si diverte a torturare i condannati a morte ed un condannato a morte per un atroce delitto, che si accontenta di una sublime promessa. Siamo in mezzo e non ce ne rendiamo conto!

Nel buio fitto di questo fattaccio si intravede, umanamente (e non solo) parlando, la luce al femminile: si potrebbe dire che il sole si è spento e resta la pallida luce della luna. Le donne! Le uniche che trovano il coraggio di piangere, di gridare allo scandalo, di fare carezze al moribondo, di ungere il corpo del cadavere, di continuare a cercare questo uomo, che le aveva parificate all’uomo, che le aveva riscattate dalla loro condizione di minorità, che le aveva perdonate, oserei dire scusate, nei loro peccati, che le aveva amate fino in fondo. Mi piace pensare che sia così anche oggi… Anzi è stato così tre giorni dopo il fattaccio: le donne vedono e vogliono toccare per prime Gesù. Scene di dolcezza infinita e di fede traboccante. Se non ci fossero state quelle donne, con Maria in testa, tutto sarebbe più difficile da credere e da testimoniare. Gli incalliti clericali, i bigotti di turno, gli uomini di potere, i violenti, i vigliacchi, i paurosi, i tiepidi, ci sono anche oggi in abbondanza. E le donne? Sono, tutto sommato, ancora le uniche ad avere occhi per esprimere guardi di pietà, ond’io guardo a loro come ad angeli e dico: Ecco la bellezza della vita!

 

 

 

 

La qualità della vita parte dall’onestà e dalla sobrietà

La moglie dell’ufficiale accusato di spionaggio a favore dei russi si dice certa che il marito non abbia consegnato ai russi niente di compromettente, spiegando con le difficoltà economiche la sua decisione di vendere documenti militari. La moglie del capitano di fregata arrestato dai Ros in flagranza di reato respinge l’accusa di “traditore della patria”.

“Mio marito non voleva fottere il Paese, scusate la parola forte. E non l’ha fatto neanche questa volta, ve l’assicuro, ai russi ha dato il minimo che poteva dare. Niente di così compromettente. Perché non è uno stupido, un irresponsabile. Solo che era disperato. Disperato per il futuro nostro e dei figli. E così ha fatto questa cosa”, ha dichiarato la donna al Corriere della Sera.

“Era veramente in crisi da tempo, aveva paura di non riuscire più a fronteggiare le tante spese che abbiamo, lo stipendio fisso di 3 mila euro al mese non bastava più per mandare avanti una famiglia con 4 figli, 4 cani, la casa di Pomezia ancora tutta da pagare, 268 mila euro di mutuo, 1.200 al mese. E poi la scuola, l’attività fisica, le palestre dei figli a cui lui non voleva assolutamente che dovessero rinunciare”.

“Ma certo – ha sottolineato la donna – lui per 30 anni c’è sempre stato, ha servito il Paese, dalla Marina alla Difesa, a bordo delle navi come davanti a una scrivania. Si è sempre speso per la patria e lo ribadisco: anche se ha fatto quello che ha fatto sono sicura che avrà pensato bene a non pregiudicare l’interesse nazionale. Non è uno stupido, lo ripeto”.

Ora il maggior timore della moglie è “la gogna mediatica”, perché “chi non lo conosce lo ha già condannato, lo ha già crocifisso”, mentre non merita di essere bollato come traditore della patria, perché “lui la patria l’ha servita”.

Non mi associo per niente alla gogna mediatica, il capitano si giustificherà davanti alle autorità competenti, niente giustizia sommaria e niente crocifissioni. Arrivo a capire, umanamente parlando, anche una grave trasgressione, però non posso accettare la difesa imbastita dalla moglie.

Innanzitutto 3 mila euro al mese non rappresentano uno stipendio da fame, poi i 4 cani, se proprio non si riesce a mantenerli, si possono anche rinunciare ad un canile, soprattutto però è il tenore di vita che va tarato sulle proprie possibilità. Ho vissuto sempre in una famiglia piuttosto povera, ho toccato con mano i sacrifici fatti dai miei genitori, ho visto in essi la difficoltà di quadrare i bilanci spalmando le difficoltà su tutti i componenti della famiglia, l’abitazione in proprietà se la sono potuta permettere in età avanzata, mia madre si è rimboccata le maniche facendo il mestiere di magliaia per tutta la vita, anche il percorso scolastico dei figli, di mia sorella soprattutto, ha sofferto le ristrettezze, a certe attività, quali palestra, danza, etc. etc., non si poteva nemmeno pensare. Poi, piano piano sono arrivati tempi migliori, ma tutto è sempre stato contenuto in un regime di assoluta sobrietà e senza passi più lunghi della gamba.

È estremamente pericoloso considerare le esigenze della vita come una variabile toccabile solo in aumento, da cui far dipendere persino la correttezza della propria vita professionale. So benissimo che la mentalità corrente va in altra direzione, ma ciò non significa che sia la direzione giusta. Questa gentile signora, di cui apprezzo l’istinto di difendere il proprio compagno, lo sta difendendo assai male a posteriori; forse era molto meglio se provava almeno a consigliarlo per tempo, condividendo con lui i sacrifici prima delle pur legittime aspirazioni. Non sono un moralista e non intendo fare prediche a nessuno, chiedo scusa se mi permetto, ma…

Spesso mi chiedo se certi uomini non abbiano fidanzate, mogli, compagne che possano farli ragionare e ridurli a più miti consigli. Un mio carissimo amico, alludendo ai rapporti di coppia, sosteneva che i cuscini parlano. Parlassero pure, ma in senso umano e non in senso affaristico o carrieristico. Temo infatti che a volte la donna, strumentalizzando il proprio indubbio ascendente, possa spingere il suo partner a commettere azioni scorrette sul piano economico e sociale, anche se mi piace di più immaginare un influsso benefico della donna sull’uomo. È un discorso generale, che prescinde dal caso particolare, che non conosco, ma dal quale sto solo ricavando qualche spunto di riflessione.

Cosa non si fa per i figli… Permettetemi di riferirvi quanto detto da uno psicologo ad un mio carissimo amico in merito alla credibilità della testimonianza dei genitori nei riguardi dei figli: “I figli giudicano i genitori da due comportamenti molto precisi: da come si rapportano con il coniuge e da come affrontano il lavoro”. I figli del suddetto capitano come rimarranno apprendendo che certi loro svaghi erano ottenuti ad un così caro prezzo?

Non ho avuto la fortuna di avere figli e quindi non posso fare riferimento alle mie esperienze di padre, ma soltanto a quelle di figlio, a certi ricordi, che qualcuno magari giudicherà sentimentalismi da strapazzo. Rammento con tanta nostalgia le feste di Santa Lucia, con la spasmodica attesa dei regali, che la Santa elargisce in proporzione alla bontà dei bambini. Il mattino della festa era veramente qualcosa di fantastico: mia madre mi prelevava dal letto avvolgendomi in un panno caldo (il riscaldamento nelle camere da letto era, a dir poco, sommario) e mi conduceva in cucina dove sul tavolo erano disposti i doni. Ricordo il tremore per il freddo ma soprattutto per l’emozione: i regali erano tanti, ma veramente tanti e belli. Crescendo di età, sentivo soprattutto all’asilo, gli amici più smaliziati che scoprivano l’arcano di Santa Lucia (è la mamma, sono i genitori, è tutto un inganno). Dentro di me, ragionando un poco, arrivavo a ritenere più che plausibile la tesi dei compagni di asilo, ma questa si scontrava con la povertà della mia famiglia: come potevano i miei genitori, così poveri, coprirmi di regali belli e costosi, doveva esserci sotto comunque qualcosa! E quel qualcosa c’era eccome ed era la solidarietà degli zii e delle zie (uno in particolare) che intervenivano in questa come in altre occasioni.

Voglio precisare: non è che mio padre e mia madre fossero dei pauperisti, si fossero spersonalizzati, avessero rinunciato alle loro peculiarità, ai loro gusti, ai loro modi di pensare: mantenevano i loro spazi di autonomia, le loro iniziative, le loro amicizie personali, i loro divertimenti. Mio padre molte sere frequentava il teatro (che a mia madre interessava poco), alla domenica andava alla partita, non mancava i suoi appuntamenti al bar (cose che abbiamo già visto e vedremo), ma il tutto era riconducibile in seno alla famiglia, a servizio della famiglia e nei limiti consentiti dalla famiglia.

Chiudo con un richiamo evangelico: come ha detto papa Francesco, i soldati a guardia del sepolcro di Gesù avevano capito benissimo che era avvenuto qualcosa di straordinario, ma anziché umilmente ammetterlo, hanno preferito intascare una bustarella dai maggiorenti del popolo ebreo e dire che il cadavere era stato trafugato dagli apostoli. Dio e mammona: e mammona è molto furbo e riesce a far passare per buono ciò che buono non è. Anche quei soldati avranno avuto una moglie e dei figli da mantenere con una paga piuttosto modesta, però il loro comportamento non mi piace…