Tra bellicismo di maniera e trattativismo sepolcrale

È normale che quando ci si sente sotto attacco si finisca con l’auto-gratificarsi delle proprie debolezze. Temo sia l’atteggiamento di chi giustifica la logica di guerra perseguita dall’Europa in merito alla crisi Ucraina. Il fatto che Donald Trump stia perseguendo una perfida logica di finta pace non assolve l’Ue dal suo peccato, vale a dire dall’aver lasciato marcire per anni la situazione del conflitto russo-ucraino nascondendo la propria incapacità diplomatica e la subdola intenzione di nascondere l’Occidente dietro l’Ucraina almeno in parte chiamata a difendere oltre che se stessa anche la Nato.

Non si è vista nessuna proposta di pace da parte della Ue, si è andati avanti alla cieca fornendo armi senza minimamente ragionare sulle possibilità di aprire una qualsivoglia trattativa con la Russia. Anche la proposta della Cina, che non era da cestinare sbrigativamente, non ha scosso tatticamente la volontà europea.

Con un imperialista come Putin non si tratta: questo è stato l’imperativo categorico su cui ci si è più impantanati che appiattiti, senza dimenticare che in passato, più o meno sottobanco, si era trattato, eccome, con la Russia. Ho sempre avuto l’impressione che i Paesi europei avessero timore che Putin potesse aprire certi cassetti piuttosto imbarazzanti.

E allora, tratta tu che non tratto io, siamo arrivati a Trump, ad un imperialista che tratta con un altro imperialista, tagliando fuori sgarbatamente l’Ucraina, chiamata persino a restituire seppure indirettamente gli aiuti ricevuti dagli Usa, e l’Unione europea considerata un ingombro ed un intralcio alla strategia trumpiana.

O la pace la faceva l’Europa o la fa Trump dopo che gli si è lasciata un’autostrada da percorrere verso la pace dei sepolcri. Adesso che il vaso si è rotto si corre ai ripari, cercando goffamente di mettere insieme i pezzi con la colla del riarmo senza nemmeno parlare seriamente di esercito comune: della serie “siccome i percorsi di pace sono molto problematici al limite dell’impossibile, meglio rimanere in una logica di guerra, poi si vedrà…”.

Ho la netta sensazione che si stia continuando ad agire in modo schizofrenico, difendendo nominalmente l’Ucraina, ma in realtà difendendo sconclusionatamente quel simulacro di Europa che rimane in essere.  I Paesi europei hanno paura di Trump e della sua aggressiva strategia e non tanto di Putin, pensano a difendersi ben più che a difendere l’Ucraina (come peraltro è sostanzialmente successo dal giorno dopo dell’aggressione russa).

Il paradosso è che il rilancio dell’Europa rischia di avvenire sulle ali di un pazzesco riarmo indotto unicamente dai ricatti statunitensi. Credo che Zelensky si senta tradito e infatti comincia a piegarsi ai voleri statunitensi: non gli resta altro da fare.

Sia chiaro che l’Europa ha commesso enormi errori, trincerandosi dietro la pur sacrosanta difesa ucraina dall’aggressore russo senza mettere in campo alcun tentativo di pace, andando persino a scomodare gli errori storici di tolleranza verso il nazifascismo.

Adesso è tardi per stracciarsi le vesti davanti allo scempio trumpiano, i rigurgiti di vitalità strategica fanno (quasi) sorridere. Si è aperta una fase drammatica non solo per l’Ucraina, ma per il mondo intero. L’Europa, che è una potenza a condizione di essere unita, deve ritornare alla sua vocazione di pace e di progresso economico-sociale, convincendo prima di tutto i suoi popoli, che nel frattempo si sono a dir poco disamorati (vedi i successi dell’ultra destra antieuropea).

Ogni simile ama il suo simile

“Amo l’Italia, è un Paese molto importante. C’è una donna meravigliosa come leader e oggi era nelle discussioni del G7, penso che l’Italia stia facendo molto bene e abbia una leadership molto forte con Giorgia”. Il presidente americano, Donald Trump, accanto al presidente francese Emmanuel Macron nello Studio Ovale prima del bilaterale, elogia la premier italiana Giorgia Meloni.

(…)

“Grazie a Donald Trump per le sue parole. Italia, Stati Uniti ed Europa condividono valori e responsabilità comuni. Lavoreremo insieme per affrontare le sfide globali con determinazione e visione”, scrive intanto sui social Giorgia Meloni dopo le parole del leader Usa. (da adnkronos)

Posso fare un commento lapidario? Me la cavo con un proverbio: “Ogni simile ama il suo simile”.

 

Lunedì gli Stati Uniti si sono schierati per due volte con la Russia in due votazioni all’ONU sulla guerra in Ucraina: prima nel voto di una risoluzione non vincolante all’Assemblea generale, che è stata respinta, e poi nel voto di un’altra risoluzione al Consiglio di sicurezza, che invece è stata approvata. Soprattutto il primo voto ha fatto molto discutere perché nella risoluzione, presentata dagli Stati Uniti stessi, si chiedeva la fine della guerra in Ucraina, ma senza mai menzionare l’invasione russa cominciata il 24 febbraio del 2022.

Il voto è avvenuto peraltro in una data dal valore simbolico estremamente importante, dato che lunedì era il terzo anniversario dall’inizio della guerra in Ucraina. Dal suo insediamento, lo scorso 20 gennaio, il presidente statunitense Donald Trump ha segnalato in vari modi l’avvicinamento della sua amministrazione alle posizioni del presidente russo Vladimir Putin: aprendo alla possibilità di negoziati senza includere l’Ucraina e gli alleati europei, chiedendo la rimozione dei termini «paese aggressore» da altri importanti documenti e dicendo cose false e in linea con la propaganda russa sulla guerra.

Alla fine l’Assemblea generale ha respinto il tentativo degli Stati Uniti di far passare la risoluzione. Prima di procedere al voto, i 193 membri dell’Assemblea avevano approvato delle modifiche sostanziali alla bozza statunitense, per chiarire il ruolo della Russia come paese aggressore e la violazione delle norme internazionali; poi la risoluzione emendata è stata approvata con 93 voti favorevoli, 8 contrari e 73 astenuti. Gli Stati Uniti si sono astenuti, mentre la Russia ha votato contro (l’Italia ha votato a favore).

Dopo aver fallito nel tentativo di far passare la propria risoluzione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti ne hanno presentata un’altra al Consiglio di sicurezza in cui avevano chiesto una pace immediata in Ucraina, senza menzionare l’invasione russa o attribuire alcuna colpa. In questo caso la risoluzione è stata approvata con 10 voti favorevoli su 15, tra cui Stati Uniti e Russia: si sono astenuti invece Francia e Regno Unito, i principali paesi europei membri del Consiglio. A differenza delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU, quelle adottate dal Consiglio di Sicurezza sono teoricamente vincolanti, ma comunque possono non essere rispettate dai paesi coinvolti.

Sempre lunedì l’Assemblea ha votato a favore di una risoluzione sostenuta dai paesi dell’Unione Europea, con cui si chiedeva più chiaramente il ritiro immediato delle truppe russe dal suolo ucraino. Questa è stata approvata da 93 paesi, con 18 contrari e 65 astenuti. Anche se alla fine entrambi i voti sono andati a favore dell’Ucraina, in passato le risoluzioni di condanna dell’invasione russa erano passate con un consenso più ampio. (ilpost.it)

Questa volta ci sono di mezzo i rapporti fra Trump e Putin, ma la morale della favola è sempre la stessa: “Ogni simile ama il suo simile”. E l’Onu conta come il due di coppe quando è briscola bastoni.

 

 

 

 

Estremi mali nazifascisti ed estreme ammucchiate democratiche

Fino a poche settimane prima delle elezioni in Germania, l’obiettivo del partito di sinistra Linke era riuscire a restare in parlamento. Non era sicuro di superare la soglia di sbarramento del 5 per cento. La Linke ha ottenuto l’8,8 per cento dei voti, un risultato inaspettato e sorprendente, vista la situazione in cui il partito aveva iniziato la campagna elettorale.

Nei sondaggi di novembre, quando i partiti si erano accordati sulla data del voto anticipato, la Linke (che in tedesco vuol dire “La sinistra”) era ai minimi storici: al 3,4 per cento. Per questo il quotidiano Süddeutsche Zeitung ha scritto che è «la storia di una resurrezione politica». C’è più di una ragione.

La Linke ha rinnovato la sua leadership e ha ritrovato unità dopo la scissione guidata da Sahra Wagenknecht, ai tempi la sua più nota esponente, che se ne andò per fondare un nuovo partito (rimasto fuori dal parlamento). Ha condotto una campagna elettorale efficace e ha beneficiato del suo posizionamento politico: è l’unico partito che non ha proposto misure più restrittive sull’immigrazione – lo hanno fatto anche quelli progressisti – e che ha escluso a priori un’alleanza con Friedrich Merz, il leader della CDU (centrodestra) che sarà il prossimo cancelliere se riuscirà ad allearsi con i Socialdemocratici.

La Linke è da sempre un partito antifascista, ma questo posizionamento ha funzionato soprattutto dopo che, a fine gennaio, la CDU ha votato per due volte insieme al partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) in parlamento. Lo ha fatto tanto più perché Socialdemocratici (SPD) e Verdi, i due principali partiti progressisti, non potevano escludere di coalizzarsi con la CDU dopo le elezioni: dalle intenzioni di voto, infatti, era già chiaro che senza almeno uno di loro non ci sarebbero state maggioranze, e quindi un governo, senza AfD.

Dopo l’intesa tra Merz e AfD in parlamento, in Germania ci sono state grandi manifestazioni a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. La Linke ha avuto un ruolo visibile in questa mobilitazione e la cosa ha contribuito a ridarle centralità in un pezzo dell’elettorato di sinistra.

Solo nell’ultima settimana prima delle elezioni ha registrato 10mila nuovi iscritte e iscritti: da metà gennaio i nuovi tesserati sono stati in tutto 31 mila, soprattutto giovani donne. La Linke è stata abile a investire su questo entusiasmo, con una comunicazione originale e una campagna elettorale basata sui suoi temi forti, sociali, come il caro affitti, il costo della vita e la redistribuzione del reddito.

La Linke è stato il partito più votato dagli elettori più giovani: da quasi un quarto delle persone della fascia anagrafica 18-29 anni (il 24 per cento), secondo gli exit poll.

C’è anche una questione di genere. La Linke è stata votata soprattutto dalle donne: è andata meglio tra le elettrici che tra gli elettori, come gli altri partiti progressisti ma in misura maggiore a loro. Come era avvenuto nel 2021, l’elettorato maschile ha votato in prevalenza partiti conservatori (la CDU-CSU) e l’estrema destra, mentre in quello femminile i partiti progressisti hanno ottenuto percentuali più alte. AfD ha comunque raddoppiato i suoi consensi tra le elettrici rispetto alla tornata precedente.

Una novità rispetto al passato è che la Linke ha aumentato i suoi consensi un po’ in tutto il paese, anche fuori dalle grandi città, dove tradizionalmente andava meglio (soprattutto a Berlino). (ilpost.it)

Fa certamente notizia il risultato elettorale in Germania dell’estrema destra con venature neo-naziste (AfD), ma induce a serie riflessioni anche quello della Link (La sinistra). Evidentemente, innanzitutto l’elettorato tedesco, che ha partecipato in massa alle elezioni (84%), desidera proposte politiche forti e identitarie. Vale soprattutto a sinistra (SPD) dove i partiti non colgono e non rappresentano più la spinta ideale e valoriale e tendono a rincorrere l’elettorato su temi reazionari (immigrazione, equilibri internazionali, ordine e sicurezza).

Probabilmente anche l’europeismo si è troppo annacquato e finanziarizzato al punto da trovare contrarietà e scetticismo sia a destra che a sinistra. A livello di governo poi la sinistra non si distingue e porta avanti politiche di routine in una sorta di grossa melassa: un forte centro forse più reazionario che moderato (CDU-CSU) condiziona la socialdemocrazia (SPD) sempre meno sociale e più moderata.

Purtroppo i socialisti devono governare a tutti i costi per arginare la pericolosissima valanga nera e sono costretti a patti piuttosto equivoci con i cristiani democratici e sociali, tentati da alleanze avventuristiche. Persino i vescovi tedeschi si sono sentiti in dovere di affermare che «Afd è incompatibile con democrazia e valori cristiani».

A questo punto mi chiedo da osservatore superficialone e schematico: dal momento che il fronte della sinistra, costituito da Link, BSW (gli scissionisti della Link), Verdi e SPD, assomma a circa il 42% dei voti, non potrebbe rappresentare una forte massa critica da contrapporre al fronte di centro-destra costituito da CDU/CSU e AfD che conta su un quasi 50% dei voti? Le sinistre unite potrebbero mettere alla punta il centro cristiano costringendolo a stare dalla parte della democrazia contro l’estremismo di destra?

Non vivo in Germania e non conosco gli umori politici di questo Paese anche se mi sembra che abbia fatto i conti con l’eredità nazista e quindi dovrebbe recepire questa sorta di conventio ad excludendum. La politica europea è alla frutta e non si può scherzare col fuoco su cui sta soffiando Trump a pieni polmoni.

In Italia si chiamò patto costituzionale e per un certo delicato periodo funzionò. Recentemente l’Italia ha portato la destra neofascista, più o meno camuffata, al potere. Attenzione a non fare un disastroso bis in Germania e magari anche in Francia: probabilmente è quanto si augurano Trump e la sua ghenga. Tutto in Europa diventerebbe ancor più difficile. A estremi mali nazifascisti estremi rimedi democratici.

 

Saluti bannoniani, baci muskiani e abbracci trumpiani

Non mi stanco di ricordare un significativo episodio che la dice lunga sugli attuali rapporti fra Ue e Usa. Nei giorni del referendum sulla Brexit, l’allora aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump, dichiarò in Scozia: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva a suo tempo Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump apparve in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, cominciarono tutti assieme a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo era senz’altro pig, porco. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere…

Oggi Trump, oltre che con stupide e insolenti provocazioni dirette, attacca l’Europa e il suo futuro con l’aiuto delle eminenze grige, Bannon e Musk, a suon di saluti nazi-fascisti. Non ho capito se questi gesti plateali vogliano sputtanare il passato dell’Europa o condizionarne il futuro: propendo per la seconda ipotesi.

Non ho parole per esprimere la mia incredula indignazione su quanto sta avvenendo negli Usa e conseguentemente negli equilibri internazionali con l’Europa messa in grave isolamento.

Che mi rende ancor più indignato è il possibilismo del governo italiano a fronte di questa perversa ondata politica proveniente da oltreoceano. Il trumpismo fa premio su quel poco di europeismo ancora presente nei nostri assurdi governanti.

Il discorso di Giorgia Meloni alla convention dei conservatori americani è un autentico capolavoro di cerchiobottismo per dire tutto e il suo contrario (dice en passant di rappresentare il popolo italiano: per quanto mi riguarda escludo categoricamente ogni e qualsiasi mandato con o senza rappresentanza).

«I nostri avversari sperano che Trump si allontani da noi» europei, ma, continua, «io lo conosco, è forte e efficace, scommetto che dimostreremo che si sbagliano. Qualcuno può vedere l’Europa come distante, lontana, persa, io vi dico che non è così». E qui il lavoro di tessitura. «Io – incalza la premier – sono orgogliosa di essere europea: se chi si è arrabbiato» per le critiche del vicepresidente Vance «avesse mostrato lo stesso orgoglio quando l’Ue ha perso autonomia strategica legandosi a regimi autocratici o con l’immigrazione massiccia adesso vivremmo in una Europa più forte». (dal quotidiano “Avvenire”)

La premier fa il pesce in barile, si barcamena in modo penoso, oltre che per opportunismo internazionale, per convenienza di stabilità governativa: Matteo Salvini, dal suo bar leghista, non manca l’occasione per sparare cazzate trumpiane ed antieuropeiste.

In un governo possono esservi diverse sfumature politico-programmatiche, ma non radicali divergenze di politica estera e di collocazione internazionale del Paese. Non è possibile consegnare l’Italia nelle mani di un governo che ci sta facendo danzare sull’orlo del precipizio filo-trumpiano ed anti-europeo. Quando l’Europa sarà, anche per colpa nostra, irrimediabilmente indebolita oppure quando ci saremo messi di fatto nelle condizioni di essere fuori dall’Europa, a quale santo ci rivolgeremo? A Trump che magari dirà, come Jago ad Otello, che lui stava scherzando col sovranismo più o meno nazi-fascista e noi ci abbiamo creduto. Giorgia Meloni andrà alla Casa Bianca a chiedere aiuto e riceverà pernacchie di scherno dopo i traditi bacetti di Biden.

Cosa deve ancora succedere perché gli italiani si rendano conto di essere governati da una manica di imbecilli a cui, poco o tanto, hanno consegnato il Paese. Non avremo sicuramente il coraggio europeista degli scozzesi e magari nei bar italiani si applaudirà inizialmente alle porcate di Donald Trump.

Tutto il mal non vien per nuocere. Vuoi vedere che col tempo (speriamo breve) le porcherie trumpiane ci faranno bene nel senso che ci sveglieranno dal torpore in cui siamo sprofondati?

È nota la teoria che vuole insegnare a nuotare buttando in acqua chi non sa farlo e sperando che si dia una mossa. Credo che ci siano molte probabilità che il soggetto muoia affogato. Trump ci sta buttando nella sua acqua gelata e noi come stiamo reagendo: ci dibattiamo in attesa di essere salvati. Non da lui, per amor di Dio! Prima comunque ci vorrà qualcuno che ci tramortisca e poi si vedrà. Forse non ci resta che votarci a san De Gasperi…

 

 

 

 

La sobrietà contro la ragion di papa

Premetto che mi sento umanamente e cristianamente molto coinvolto dalla malattia del Papa, come se fosse uno di famiglia ed in effetti lo è come padre/fratello nella fede e nella Chiesa. Proprio per questo sono dispiaciuto che la sua sofferenza rischi di diventare segno di contraddizione per i sofferenti. Cerco di spiegarmi con il massimo della delicatezza.

La storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video ed ero convinto che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Quella volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo.

Pur tra qualche inevitabile tentennamento le premesse sono state ampiamente mantenute a cominciare dallo stile personale: la rinuncia a vivere nelle sacre stanze vaticane e la scelta della sobrietà di vita a partire dall’abbigliamento per arrivare persino ai mezzi di trasporto.

Come non vedere una sorta di suo sacrosanto imbarazzo all’interno delle fastose e interminabili liturgie, la distanza tra le sue parole cariche di ansia pastorale e i riti cinematografici da lui, suo malgrado, presieduti.

Arrivo all’attualità della malattia di papa Francesco col conseguente ricovero al policlinico Gemelli. Non è la prima volta che purtroppo succede. Sarò esagerato ma vedo qualche contraddizione. Un appartamento riservato, un’equipe di medici, una esagerata attenzione mediatica, bollettini medici a ripetizione che lasciano il posto addirittura a esibizionistiche conferenze stampa di supponenti medici: un esagerato complesso di attenzioni che stride con la crisi della sanità riservata ai poveri mortali. Non ho potuto evitare di scandalizzarmi al riguardo: c’è chi è costretto a rinunciare a curarsi e chi è curato in modo sfacciatamente privilegiato.

Sono sicuro che papa Francesco sarebbe d’accordo con me. E allora perché non rimanere fedeli a quello stile sobrio che è stato il filo conduttore del pontificato di Francesco? Non pretendo che il papa, come Gesù, non abbia dove posare il capo, ma auspico che abbia un trattamento come una qualsiasi persona bisognosa di cure ospedaliere.

Capisco le esigenze diplomatiche e procedurali della Chiesa-istituzione, le preoccupazioni in difesa della incolumità del papa, ma come sarebbe significativo che Francesco fosse ricoverato non dico su una barella al pronto soccorso in attesa di essere curato (come succede a troppi), ma come un qualsiasi ammalato più o meno grave, senza privilegi e senza corsie preferenziali. La semplicità nell’accompagnamento del suo precario stato di salute potrebbe giovargli anche sul piano della guarigione.

Santo Padre, perdoni la mia intransigenza, accolga tutto il bene che le voglio, le giunga la mia partecipazione alla sua sofferenza, le garantisco la mia indegna preghiera, gradisca i miei figliali auguri di pronta guarigione assieme a quelli di un ritorno alla meravigliosa sobrietà di vita. Sono sicuro che lei in cuor suo lo desidererà ardentemente alla faccia della “ragion di papa”, cercando di sentirsi vicino ai fratelli ammalati come ha sempre fatto.

 

L’anti-Costituzione è la mia legge

Più i tempi politici passano e più emerge la lucidità e la lungimiranza dei nostri padri costituenti. All’articolo 54 hanno scritto: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Andrea Delmastro Delle Vedove è un cittadino italiano a cui è stata affidata la funzione pubblica di sottosegretario di Stato alla Giustizia ed ha giurato “di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le sue funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.

Il Tribunale di Roma ha condannato a otto mesi il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Nei suoi confronti l’accusa era di rivelazione di segreto d’ufficio in relazione alla vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito. I giudici della ottava sezione penale del tribunale di Roma hanno riconosciuto a Delmastro le attenuanti generiche, la sospensione della pena e applicato l’interdizione di un anno dai pubblici uffici.

Tutto il resto è chiacchiera pseudo-giuridica. I fatti sono arcinoti. Non mi interessano in quanto superate le richieste del Pubblico Ministero così come non mi interessano le tesi difensive dell’imputato: sono state vagliate dai giudici che hanno emesso la sentenza di condanna.

Non sono un giustizialista anche se non ho ben capito in cosa consista esserlo, sono un garantista anche se le garanzie personali devono trovare un limite in quelle dello Stato costituzionale, sono portato per mio carattere ad essere innocentista e a non affrettare giudizi di colpevolezza. E allora non voglio che Delmastro vada in galera, né che venga messo alla gogna, né che gli si tolga il sacrosanto diritto di difendersi nelle sedi e nei tempi previsti dalla legge.

C’è però quel succitato benedetto articolo della Costituzione italiana che impone disciplina ed onore. A questo punto dell’iter giudiziario il sottosegretario Delmastro ritiene oggettivamente che il suo comportamento corrisponda agli obblighi costituzionali? I cittadini, in nome dei quali sta governando, non hanno diritto di chiedergli di farsi da parte, di ripristinare la “legalità costituzionale”, di sgombrare il campo da assurde polemiche verso i magistrati, da un vittimismo fuori luogo, dal considerare la politica come un modo per aggirare gli ostacoli dei governanti e non per affrontare i bisogni dei governati?

Si rende conto della gravità non tanto degli atti per cui è stato condannato, ma del comportamento che ha tenuto e sta tenendo nei confronti delle istituzioni dello Stato e dei cittadini?

Resto letteralmente sconcertato di fronte alle inammissibili giustificazioni che Delmastro accampa per non dimettersi: “Una sentenza politica! Le sentenze non si commentano – ha scritto in un post su Facebook -, ma quelle politiche si commentano da sole! E questa sentenza si commenta da sola! Dopo che l’accusa ha chiesto per tre volte l’assoluzione, arriva una sentenza di condanna fondata sul nulla! Vogliono dire che le riforme si devono fermare? Hanno sbagliato indirizzo! Vogliono dire che il Pd non si tocca? Hanno sbagliato indirizzo. Io non ho tradito i miei ideali: ho difeso il carcere duro verso terroristi e mafiosi. Io non ho tradito! E gli italiani lo sanno! Attendo trepidante le motivazioni per fare appello e cercare un giudice a Berlino. E da domani avanti con le riforme per consegnare ai nostri figli una giustizia diversa”.

Tutto bene (si fa per dire…), posso prendere atto di quanto sostiene, ma solo a condizione che si dimetta, tolga, seppur provvisoriamente, l’incomodo. Non gli chiedo di rinunciare alle sue idee politiche, ma di considerare, oltre che l’assoluta inopportunità di restare in carica violando apertamente e sostanzialmente il dettato costituzionale, l’incompatibilità del suo giudizio sulla magistratura con la funzione che riveste, la confusione che fa tra riforma della giustizia e il suo caso personale nei rapporti con i giudici che l’hanno giudicato e lo giudicheranno.

Aggravano ancor più la sua situazione le vergognose dichiarazioni del presidente del Consiglio, del ministro della Giustizia, dei suoi colleghi di partito e di maggioranza parlamentare. Siamo completamente fuori dalla Costituzione italiana: questi signori si stanno assumendo enormi responsabilità, di cui forse non si rendono conto. Sono peraltro in linea con l’andazzo trumpian- putinian-muskian-netanyahuano: loro se ne fregano dell’Onu, del diritto internazionale, della democrazia, del mondo intero; i governanti italiani (per tutti Delmastro e Santanché) se ne fregano altamente della Costituzione e giù-giù fino a… Molti si chiedono cosa pensi Giorgia Meloni degli indirizzi politici trumpiani. A parole c’è un imbarazzato silenzio, nei fatti c’è una perfetta e spaventosa sintonia di stile e di contenuti.

Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ha sintetizzato il tutto con una azzeccata e sarcastica battuta: «Un sottosegretario alla Giustizia che attacca i magistrati che lo condannano. E la Meloni sta con lui. Dalla Repubblica delle Banane è tutto».

Chi tace acconsente, ragion di bacio o kisspolitik.

Donald Trump attacca anche l’Europa sulla guerra in Ucraina: “Ha fallito, non è riuscita ad ottenere la pace”. In un post su Truth il presidente americano ha ribadito anche che il Vecchio Continente ha speso meno degli Stati Uniti per una guerra che li tocca da vicino.

Donald Trump attacca Volodymyr Zelensky definendolo un “dittatore senza elezioni” e un “comico mediocre” che è riuscito ad ottenere centinaia di miliardi dagli Stati Uniti per “una guerra che non avrebbe mai vinto. Zelensky ammette che metà dei soldi che gli abbiamo inviato sono ‘mancanti’. Si rifiuta di indire elezioni, è molto basso nei sondaggi ucraini e l’unica cosa in cui è stato bravo è stato suonare Biden come un violino”.

L’iperbole è una figura retorica che consiste nell’esagerare la descrizione della realtà tramite espressioni che l’amplifichino, per eccesso o per difetto. Questo è il linguaggio di Trump! Tale linguaggio, per essere credibile e non suscitare ilarità, deve essere accompagnato da una credibile testimonianza di vita. Non è certamente il caso di Trump! Quanto a comicità direi che sia la sua specialità, basta guardarlo: sembra un burattino. Quanto a democraticità cosa può dire un personaggio che ha mandato i suoi fans all’assalto di Capitol Hill coprendoli dai reati loro ascrivibili con un colpo di spugna. Quanto alle sviolinate, è tutta questione di gusti: Zelensky le faceva all’Europa e a Biden, mentre Trump preferisce farle a Putin. Se poi andiamo sul difficile, vale a dire sulle elezioni, Zelensky le teme, se non altro per il clima di guerra in cui si svolgerebbero, Trump le ha affrontate con inganni miliardari e trappole mediatiche in cui gli americani sono caduti alla grande.

Che dire degli attacchi all’Europa? Tutti hanno fallito. Se ci mettiamo su questo piano non ne usciamo vivi. Tutti siamo vittime di una impostazione bellicista da cui non potrà mai sortire la pace. Crede Trump di costruire la pace dandola su a Putin? Crede Trump di delineare un quadro mondiale pacifico minacciando e ricattando tutti? Pensa che la Cina sarà costretta a stare al suo gioco? Ma ci faccia il piacere…

Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. al pär vón äd coj che all’ostaria con un pcon äd gèss in sima la tävla i mètton a pòst tutt; po’ s’ät ve a veddor a ca’ sòvva i n’en gnan bón äd fär un o con un bicér…”.

E i governanti europei cosa dicono? I francesi reagiscono duramente forse perché hanno nel cassetto la bomba atomica e un conseguente passato storico di relativa autonomia rispetto agli Usa; i tedeschi dicono tutto e niente forse perché hanno qualche scheletro filorusso nell’armadio; la Ue si limita a rivendicare un ruolo essenziale forse perché non potrebbe fare diversamente. Tutto molto scontato!

A Palazzo Chigi per il momento tutto tace, nonostante la premier Meloni si sia sempre ufficialmente spesa per il sostegno a Kiev. Viene da chiedersi dove siano finiti i baci e gli abbracci con Zelensky, per non parlare delle carinerie scambiate con Biden. Umanamente parlando si chiama opportunismo della peggior specie, politicamente parlando chiamiamola “ragion di bacio o kisspolitik”.

In conclusione, per sopravvivere bisogna buttarla in ridicolo: ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere… E allora proviamo a giocarci e riderci sopra con un emblematico episodio, raccontato da mio padre, inerente all’accanimento al gioco dei patiti della scopa, che ben si potrebbe adattare al gioco delle trattative in corso sull’Ucraina. I riferimenti ai personaggi e ai loro comportamenti attuali sono molto facili da immaginare.

All’osteria si stava giocando una partita a carte e tra i giocatori sedeva una persona abbastanza distinta, non uno dei soliti frequentatori del locale. Mio padre assisteva dall’esterno e vedeva che questa persona giocava decisamente male. Ad un certo punto in concomitanza con una giocata fuori dagli schemi (forse costò la perdita del settebello o roba del genere) il suo socio reagì in modo sguaiato e pieno d’ira arrivò a dire: “Sal co’ l’à da fär lu inveci ad calär il cärti?”. Corse un attimo di gelo e di spasmodica attesa.  Poi aggiunse: “Al s’ fa su la manga e ‘l va a spomär di cesso”. Brusio di sorpresa, il giocatore sul banco degli imputati ebbe una reazione piena di dignità e rispose: “Sono venuto qua per giocare in tutta serenità, se la mettiamo su questo piano, io rinuncio e vi saluto cordialmente”. E abbandonò la partita ed il locale e mio padre disse che non si fece più vedere da quelle parti.

Non c’è niente da aggiungere se non che la vera offesa, a ben pensarci, non era consistita tanto nell’invito a “spomare” i cessi, ma nella precauzione del farsi su la manica.

Qual è la parte della similitudine che non funziona? La dignità del giocatore balordo. Nel caso del tavolo allestito per il “gioco” russo-ucraino, quel giocatore assurdo non si allontanerà, ma addirittura pretenderà di cambiare le regole. Trump dovrebbe sì andare a “spomare” i cessi, anche senza farsi su la manica, ma è purtroppo dotato di spurgo muskiano e quindi…

 

Due rondini che fanno un po’ di primavera

Posso essere stanco del cinismo straparlante dell’attuale geopolitica? Lo sono e me ne vanto. La politica ha raggiunto nei rapporti internazionali un livello infimo: buio fitto a qualsiasi parte ci si volga. Si va dalla schizofrenica ricerca su più tavoli della finta pace alla folle ma lucida ricerca di equilibrismi di vera guerra. Siamo arrivati persino agli insulti personali.

Gli Usa di Trump stanno impostando un regime a prescindere dai valori democratici; il mondo è in mano a una cricca di delinquenti che si sostengono a vicenda; l’Europa, vaso di coccio, rischia l’isolamento e l’irrilevanza, schiacciata com’è fra vasi di ferro; l’Italia nei suoi attuali governanti non ha nemmeno il coraggio di ammettere questa rovinosa realtà e cerca di galleggiare giochicchiando col più forte.

Durante le animate ed approfondite discussioni con alcuni carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta, si constatava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti.

Gli americani hanno scelto Trump quale miglior prodotto della loro squallida bottega. Gli europei si limitano a gestire le loro botteghe separate, dove si affastellano surrogati dei genuini prodotti di un tempo.

Gli osservatori si rendono conto del menefreghismo suicida dell’Unione europea, i protagonisti sembrano accontentarsi di gestire il loro particolare e confuso interesse, i popoli, storditi e fuorviati dai problemi contingenti e dalle illusorie ricette, faticano a vedere prospettive di medio e lungo periodo.

Per fortuna l’Italia, se da una parte esprime un governo che non si riesce a capire dove voglia parare, dall’altra parte mette in evidenza due personaggi che lanciano precisi appelli e segnali di rilancio europeo e di ritorno ad un clima di rispetto per il diritto internazionale: Sergio Mattarella e Mario Draghi.

Il Presidente della Repubblica ha dichiarato: “Da tre anni a questa parte la posizione dell’Italia, e in questo ambito quello che io personalmente ho sempre espresso ai numerosi interlocutori internazionali con cui mi sono incontrato, è nitida, limpida, chiarissima: quella dell’invito del ristabilimento del diritto internazionale e della sovranità di ogni Stato e della sua indipendenza e dignità, qualunque sia la sua dimensione, piccolo o grande che esso sia. Questa ferma, vigorosa affermazione sui principi della Carta dell’Onu, del diritto internazionale, dell’eguaglianza della dignità di ogni Stato è stata la base del sostegno che l’Italia, con l’Unione europea e con gli Stati Uniti, ha assicurato all’Ucraina: resistere alla violenza delle armi”. “Questa posizione è sempre stata accompagnata dall’auspicio che la Russia torni a svolgere il proprio ruolo di grande rilievo e importanza nella comunità internazionale, nel rispetto di quei principi, del diritto internazionale e della dignità e sovranità di ogni Stato. Questo auspicio ho sempre fatto negli incontri che ho avuto: è un auspicio di rispetto del diritto internazionale, rispetto della Carta delle Nazioni Unite, della sovranità di ogni Stato e degli impegni bilaterali”.

L’Italia – ha detto ancora il presidente della Repubblica – ha sempre auspicato il rispetto degli “impegni bilaterali. A questo riguardo forse è utile ricordare che quando l’Ucraina, con il consenso della Russia, divenne indipendente all’inizio degli anni Novanta, disponeva nel suo territorio di una grande quantità di armi nucleari: circa un terzo dell’arsenale nucleare che era di quella che era stata l’Unione sovietica era in possesso dell’Ucraina sul suo territorio. Su sollecitazione degli Stati Uniti e della Russia l’Ucraina ha trasferito, ha consegnato alla Russia alcune migliaia di testate nucleari di cui disponeva e di cui era in possesso, che l’avrebbero certamente messa al sicuro da ogni aggressione e invasione. A fronte di quello, nel trattato sottoscritto con Russia, Stati Uniti, Regno Unito, l’Ucraina registrava l’impegno di quei Paesi, la Russia anzi tutto, a rispettarne e garantirne l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale”, ha ricordato il capo dello Stato.

“Questo – ha aggiunto – è il mondo che noi vorremmo che si ripristinasse, quello in cui si rispettano gli impegni assunti, in cui si rispetta il diritto internazionale”. Il presidente ha ribadito l’auspicio che “si raggiunga una pace giusta e che non sia fittizia, fragile, superabile o accantonabile nell’arco di poco tempo”. (adnkronos)

Un uomo di Stato che ha il coraggio di esprimere apertamente e coraggiosamente queste idee, nell’attuale clima sbruffonescamente maligno e presuntuosamente vocato alla rovina, non può che creare fastidio e imbarazzo, anche perché probabilmente lo si teme come possibile rifacitore di un’Europa unita e impegnata.  Le stizzite, reiterate e scomposte reazioni russo-putiniane dimostrano ulteriormente, se ce ne fossa bisogno, la giustezza dei richiami mattarelliani.

Un’Europa vulnerabile, incapace di essere competitiva in una fase in cui è proprio su questo aspetto che si gioca la sfida a livello internazionale. Una vulnerabilità che nasce anche dalla frammentazione della Difesa. L’ex premier Mario Draghi è tornato a spronare l’Unione europea a suo avviso bloccata da eccesso di burocrazia ed eccesso di regole. A cinque mesi dalla pubblicazione del famoso rapporto sul futuro della competitività europea, che porta il suo nome e che Draghi aveva elaborato su incarico della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in occasione della Settimana parlamentare europea 2025 del Parlamento europeo a Bruxelles l’ex presidente della Commissione europea ha ribadito l’Unione europea deve attrezzarsi a far fronte a novità nei cambiamenti economici e politici globali. Ed «è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre di più come se fossimo un unico stato – ha affermato -. La complessità della risposta politica che coinvolge ricerca, industria, commercio e finanza richiederà un livello di coordinamento senza precedenti tra tutti gli attori: governi e parlamenti nazionali, Commissione e Parlamento europeo».

Insomma, l’Ue «è il principale nemico di se stessa». Oggi non può più esserlo. Il mondo “confortevole” di qualche tempo fa è finito, le dichiarazioni che arrivano oltreoceano portano a prevedere che l’Ue, presto «dovrà garantire da sola la sicurezza dell’Ucraina e della stessa Europa». Il tempo delle attese e dei veti è terminato. «Non si può dire no a tutto, altrimenti bisogna ammettere che non siamo in grado di mantenere i valori fondamentali dell’Ue. Quindi quando mi chiedete “cosa è meglio fare ora” dico che non ne ho idea, ma fate qualcosa!», sono le parole, nettissime, con cui Draghi ha accompagnato la sua relazione in sede di replica. Parole che hanno ripercorso, di fatto, l’incipit dell’intervento dell’ex presidente della Bce. «Dobbiamo abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sull’equity. La risposta dell’Ue deve essere rapida, intensa, su vasta scala», ha scandito Draghi prendendo la parola in Aula all’Eurocamera. (ilsole24ore.com)

Mario Draghi ha la personalità, l’esperienza, la professionalità, la competenza e l’autorevolezza per farsi ascoltare e per prendere in mano la patata bollente europea.

Queste due rondini nel cielo europeo e mondiale potranno fare un po’ di primavera? Non vedo altro di veramente interessante all’orizzonte, che possa rilanciare la politica sulla base di valori e principi determinanti.

Quanto ai valori è utile fare riferimento a quanto segue. Al termine di una interessante intervista pubblicata sul quotidiano “Avvenire” è stato chiesto a Massimo Cacciari: “Non vede valori da cui l’Europa può ripartire?”. Il filosofo ha risposto: «Ci sono radici difficili da estirpare completamente, che contrastano radicalmente con l’opinione comune corrente. Da un punto di vista laico e non credente, penso che una di queste possa essere l’Europa della cristianità. Bisognerà vedere se questa radice è ancora in grado di dare frutti sul piano della convivenza civile, dei valori, se potrà ancora essere “sale della terra” sul piano delle ragioni politiche e sociali».

 

 

La zuppa dei rifugiandi e il pan bagnato dei rimpatriandi

Putost che cédor…limón. Così recita un noto adagio dialettale parmigiano.

Dal palco di Atreju, circa due mesi fa, Giorgia Meloni ha gridato: «Abbiate fiducia, i centri in Albania funzioneranno, fun-zio-ne-ran-no, dovessi passarci ogni notte fino alla fine del governo. Fun-zio-ne-ran-no! Perché io voglio combattere la mafia e chiedo a tutto lo Stato italiano e a tutte le persone perbene di aiutarmi a combattere la mafia».

Non ho sinceramente capito cosa c’entri la mafia, forse alludeva agli scafisti e loro mandanti. Il problema però è un altro: i reiterati stop dei magistrati hanno costituito un’impasse per il governo e allora, per bypassare il pronunciamento della Corte di Giustizia europea, che potrebbe avere tempi lunghi, è allo studio una riconversione nella destinazione di questi centri, inizialmente destinati ad ospitare i richiedenti asilo in attesa delle procedure, che verrebbero invece utilizzati per gli immigrati irregolari già presenti in Italia e su cui pende un decreto di espulsione.

L’operazione, secondo Palazzo Chigi, avrebbe il nulla osta dell’Europa; non ho idea se anche questa destinazione troverà un vaglio negativo da parte dei magistrati.

“Siamo determinati – ha sottolineato la premier – a trovare una soluzione ad ogni ostacolo che appare, non solo perché crediamo nel protocollo ma anche perché rivendichiamo il diritto della politica di governare secondo le indicazioni dei cittadini”.

L’ipotesi che si sta percorrendo è quella di trasferire in Albania non più i richiedenti asilo, ma gli irregolari che hanno ricevuto un decreto di espulsione e sono trattenuti nei Cpr. Ed è proprio sui rimpatri che l’esecutivo è intenzionato a spingere. (ANSA.it)

Tutto considerato, anche e soprattutto gli alti costi dell’operazione, sarebbe stato meglio chiudere la partita, ammettendo gli errori commessi a tutti i livelli. Invece, i centri albanesi fatti uscire dalla porta dalla magistratura, rischiano di spuntare dalla finestra. I tecnici sarebbero al lavoro per superare la situazione incresciosa venutasi a creare.

La vicenda è significativa dell’improvvisazione con cui il governo affronta il tema dell’immigrazione ed è diventata emblematica per il velleitario duro approccio al problema. Il governo ne sta facendo una questione identitaria sulla pelle dei disgraziati, richiedenti asilo o in odore di espulsione.

La testardaggine meloniana sta diventando un dato politico (quasi) ridicolo. La premier intende metterci la faccia, in realtà la faccia la sta perdendo (anzi l’ha già persa).

Putost che cédor…limón. Così recita un noto adagio dialettale parmigiano. Azzardo al riguardo un’interpretazione plausibile: “Piuttosto che ammettere un torto e rimangiarsi la parola… è meglio cavarsela con furbizia”.

Di parole la Meloni se ne sta rimangiando parecchie: un tempo era giustizialista, ora è garantista; un tempo esigeva dimissioni per un nonnulla ora non le chiede se non al povero Sangiuliano; un tempo era euroscettica, ora è europeista convinta (?); un tempo era all’opposizione, ora è al governo. C’è poco da fare le opinioni cambiano…

“L’uomo che non cambia mai la sua opinione è come l’acqua stagnante, e nutre i rettili della mente” (William Blake). Giorgia Meloni prende la scorciatoia, preferisce pestare l’acqua nel mortaio e pensa così di cavarsela nutrendo il camaleonte della sua mente politica. I camaleonti infatti sono dei rettili arboricoli, per la forma, il corpo ricoperto di squame e la cresta che a volte presentano sul dorso sono stati spesso accostati ai dinosauri. Hanno una coda prensile e arti, con dita dei piedi opponibili a coppie, conformati per garantire meglio la presa sui rami.

Sbagliare è umano. Ammettere i propri errori è da grandi. Mettersi in discussione è da persone con cervello (Simona Illiano).  “Putost che cédor…limón” (noto adagio dialettale parmigiano convintamente adottato da Giorgia Meloni).

 

Scaramucce giudiziarie e guerra pseudo-riformatrice

La crisi della democrazia è ormai evidente anche nel suo principale baluardo degli ultimi decenni, gli Stati Uniti. Come accade anche altrove, infatti, viene qui oggi messo in discussione un principale fondamento: il diritto del popolo a scrivere le leggi con cui vuole essere governato. I numerosi executive orders emanati in pochi giorni dal presidente Trump hanno incrinato profondamente l’equilibrio tra i poteri esecutivo, legislativo, giudiziario. Quando un governo esonda dai suoi limiti, il primo che può reagire è il potere giudiziario, cui compete di far rispettare le leggi. (dal quotidiano Avvenire – Agostino Giovagnoli)

Parto da questa acuta osservazione per affrontare la tesa situazione dei rapporti in Italia fra governo e magistratura. Le analogie con la situazione americana si sprecano e anche nel nostro Paese i giudici sono spesso costretti ad intervenire in difesa della Costituzione sotto attacco da parte delle esondazioni legislative del governo Meloni.

Non passa giorno in cui i magistrati a qualche livello non facciano le pulci ai provvedimenti e ai comportamenti del governo: si pensi alla questione del vergognoso tira e molla del trasferimento in Albania degli immigrati su cui il governo ha imbastito un penoso braccio di ferro; lasciamo perdere per il momento l’affaire libico per il quale stiamo ad aspettare gli sviluppi a livello del tribunale dei ministri; ultimo per chi batte la inefficacia,  sentenziata dalla Corte di Cassazione, dei test rapidi anti droga previsti dal nuovo codice della strada (un fiore all’occhiello del governo che viene messo parzialmente in discussione).

Non è questione di censura alle logiche politiche dell’attuale governo, ma di errata impostazione giuridica dei suoi provvedimenti. Possibile che un governo, in cui il ministro della Giustizia è un autorevole ex magistrato, in cui il sotto-segretario alla presidenza del consiglio (ben più di un semplice sottosegretario, ma l’eminenza grigia del governo) è esso pure un ex-magistrato, si faccia continuamente prendere in castagna dalla magistratura.

E non si tratta di piccoli formali incidenti di percorso, ma di svarioni sostanziali, che rischiano di annullare gli effetti di importanti ed emblematici provvedimenti di cui il governo si riempie la bocca.

Il governo, anziché fare saggi mea culpa e stare più attento nell’adottare delicate decisioni e nell’elaborare testi legislativi, la butta in guerra politica con la magistratura. Il procuratore Lo Voi ha notificato ad alcuni componenti del governo l’esistenza di un esposto che prefigura reati a loro carico relativamente alla nota vicenda Almasri e allora ecco pronto il dispetto: i consiglieri laici in quota centrodestra Isabella Bertolini, Claudia Eccher, Daniela Bianchini, Felice Giuffrè ed Enrico Aimi hanno chiesto al Csm di aprire una pratica in Prima commissione per l’avvio di una procedura di trasferimento dello stesso Lo Voi per incompatibilità ambientale-funzionale e di trasmettere gli atti alla Procura generale per la valutazione di eventuali illeciti disciplinari. Un affondo innescato dal caso di un documento con informazioni sul capo di Gabinetto della premier, trasmesso dagli 007 dell’Aisi alla Procura di Roma, ma poi incluso dalla stessa Procura in un insieme di atti inviati ai legali del quotidiano Domani, che l’ha pubblicato. Per i consiglieri, l’accaduto ha «seriamente compromesso i rapporti istituzionali tra la Procura di Roma e le Agenzie dell’intelligence». A loro dire, «risulta essere stato compromesso l’affidamento, da parte delle Agenzie, circa l’effettiva tutela del segreto degli atti trasmessi in Procura». Gli stessi consiglieri nei giorni scorsi avevano chiesto l’apertura di un’altra pratica su Lo Voi in relazione al caso Almasri. Mentre venerdì un consigliere indipendente, Andrea Mirenda, ha chiesto l’apertura di una pratica a tutela di Lo Voi, perché «irriso» dalla premier per il fascicolo aperto sulla liberazione del generale libico. (dal quotidiano “Avvenire”)

Stiamo sprofondando in una farsa tragica inerente i rapporti tra istituzioni dello Stato. Sullo sfondo si gioca però la vera partita della battaglia identitaria della riforma della giustizia, in particolare sulla separazione delle carriere. Le scaramucce servono al governo per drammatizzare i rapporti in modo da rendere inevitabili i contenuti di una riforma molto discutibile nel merito e nelle intenzioni.

Qui, a mio giudizio, la magistratura compie un grave errore, vale a dire quello di farsi trascinare nella polemica sulla riforma della giustizia, lasciando il dubbio di volere più difendere le proprie posizioni di potere piuttosto che l’autonomia della magistratura. Non nego che la politica intenda riportare impropriamente la giustizia sotto il controllo del potere esecutivo (è uno dei punti della deriva populista in atto in parecchi Stati), ma impuntarsi aprioristicamente ed in modo barricadiero non giova a nessuno. La magistratura ha tutto il diritto di esprimere nelle sedi competenti il proprio parere sulla riforma in questione, ma non può svolgere un ruolo di autentica opposizione politica che spetta alle minoranze parlamentari, né arrogarsi preventivamente il diritto di vagliare le norme dal punto di vista costituzionale invadendo il ruolo del Parlamento stesso e del presidente della Repubblica.

Sergio Mattarella ha spesso invitato tutti a rimanere nei limiti delle proprie funzioni e competenze e a dialogare seriamente: non viene ascoltato, tutti assentono salvo continuare nelle loro misere strumentali diatribe.

Per il governo la riforma della giustizia è diventata una guerra di sopravvivenza identitaria, visto che gli altri due provvedimenti costituzionali, vale a dire le autonomie regionali differenziate e rafforzate nonché il premierato, stanno implodendo sotto i colpi ante-referendari della Corte Costituzionale il primo, il secondo per effetto della corretta e leale forza dissuasiva impersonificata da Sergio Mattarella e dal suo consenso popolare.

E allora via con la guerra ai magistrati! Sarò ingenuo, ma mi sembra un azzardo pazzesco già peraltro tentato da Silvio Berlusconi che, dopo tanto rumore, finì ai servizi sociali. Quando Giorgia Meloni afferma di non essere ricattabile, probabilmente si vuole distinguere dal berlusconismo e dalle sue code di paglia: posso concederle di essere assai meno impastoiata in conflitti d’interesse e in comportamenti personali sui generis, ma “qualcosina” da nascondere ce l’ha (famigliari e amici un po’ troppo collocati nelle stanze del potere) e ha intorno personaggi come Daniela Santanché e Ignazio La Russa che non le fanno onore.

Quanto alla separazione delle carriere dei magistrati i casi sono due: o si tratta di uno specchietto per le allodole, vale a dire un falso problema soltanto allusivo a quelli veri dell’autonomia e della funzionalità del sistema giudiziario, oppure è effettivamente il preludio ad un’opera inquietante di subdolo attacco al sistema istituzionale.

Nel primo caso non capisco e, se capisco, non condivido la lumacosa reazione dei magistrati, che dovrebbero aprire la porta, contro cui spinge violentemente il governo, per scoprirne le  vere intenzioni e si dovrebbero semmai risparmiare per il secondo caso, vale a dire per combattere la vera guerra, quella della difesa dell’autonomia del potere giudiziario e dell’ordinamento democratico,  nei modi e nei tempi previsti dalla Costituzione e dalla legislazione nel suo complesso, continuando a svolgere i loro compiti senza farsi trascinare in stucchevoli polemiche.