Un’occasione politica improvvisata e sciupata

Il mesto flop partecipativo verificatosi in occasione dei cinque referendum, che sono andati ben lontani dal raggiungere il previsto quorum del 50% + 1 di votanti, impone alcune serie riflessioni in ordine alle motivazioni di chi li ha promossi e sostenuti e di chi li ha respinti o snobbati.

Ormai purtroppo la disaffezione alle urne da parte dei cittadini sta diventando cronica e tutto sommato questo fatto non disturba la nostra penosa classe politica, che trova il modo di nascondere così le proprie malefatte nonché il modo di prescindere da un vero e proprio giudizio dell’elettorato: siamo tra la rassegnazione e l’opportunismo, mentre per i cittadini siamo fra la, per certi versi comprensibile, protesta silenziosa e l’ingiustificabile menefreghismo egoistico.

Speravo che i referendum rappresentassero comunque una occasione per incanalare nelle urne la generica protesta invece purtroppo hanno vinto l’egoismo sociale e l’indifferenza, che a volte diventa persino ostilità, verso i problemi del mondo del lavoro e dell’integrazione migratoria.

Al di là del merito dei quesiti pensavo potesse essere un’occasione per smuovere le acque stagnanti della politica italiana con la possibilità di invertire la tendenza all’astensionismo e di lanciare un messaggio di cambiamento per quanto concerne la squallida azione di un governo inqualificabile, mettendolo almeno un po’ alla punta e facendogli sentire il fiato degli elettori sul collo.

Nel merito speravo che la coscienza dei cittadini venisse toccata dalla precarietà del lavoro giovanile, dalla insicurezza nei rapporti di lavoro, dalla rischiosità delle condizioni di lavoro e dalla incertezza di vita dei migranti presenti da tempo nella nostra società, invece tutti parlano di sicurezza a senso unico come se tutto potesse dipendere dalla lotta alla delinquenza, come se i lavoratori fossero delle sanguisughe e come se i migranti fossero un corpo estraneo.

Ci sono poi alcuni gatti che si mordono la coda. Mi riferisco alla scarsa rappresentatività e capacità di mobilitazione dei sindacati, che erano i promotori principali di questi referendum. É il caso di ricordare un famoso detto: “piazze piene e urne vuote”. Un conto è infatti promuovere e tenere manifestazioni pubbliche colme di partecipanti, altra cosa è intervenire nella politica e sulle leggi che da essa promanano. Anche la CGIL evidentemente non riesce a influenzare e sensibilizzare i propri iscritti che preferiscono rifugiarsi in uno sterile corporativismo.

La nostra società, pur con tutto il rispetto per la dirigenza sindacale e per Maurizio Landini in particolare, non è più contenibile nel quadro classico del rapporto di lavoro dipendente e quindi risulta una pia illusione quella di sostituire gli inconcludenti e teorici partiti con i vivaci e concreti sindacati, considerato anche il fatto che i sindacati dei lavoratori sono piuttosto trasversali rispetto agli schieramenti politici (mi risulta che ad esempio tanti iscritti alla CGIL siano di estrazione politica leghista…).

Non parliamo dei partiti di sinistra che scontano enormi ritardi nell’analisi  e nella comprensione dell’evoluzione della nostra società e nella presa d’atto dei problemi reali emergenti dalle nuove povertà, preferendo rifugiarsi negli schemi sociali classici non più sufficienti a rispondere alle ansie, alle preoccupazioni e alle problematiche attuali: i referendum di questa tornata erano forse un po’ troppo caratterizzati da sociologismo datato, caricaturalmente contrastabili come rimasugli ideologici e non sufficientemente puntati e spiegati nella loro attenzione ai soggetti deboli.

C’era poi da rimuovere il macigno della incoerenza di una sinistra che tempo fa ha tentato un po’ velleitariamente di rendere flessibili i rapporti di lavoro al fine di creare occupazione (era questa per dirla in breve la logica del jobs act di renziana memoria) per poi arrivare dopo alcuni anni a rimangiarsi queste scelte dopo averne verificato l’impatto molto discutibile o addirittura piuttosto negativo sul lavoro. Sono errori e azzardi ammissibili, ma che storicamente e politicamente si pagano caro.

Sono sicuro che chi scommetteva politicamente sui risultati di questo referendum per trarne una prospettica alternativa popolare rispetto all’ultimo voto politico a livello nazionale si rifugerà nella comunque ragguardevole messe di “sì”, che, volenti o nolenti, suonano come un atto di sfiducia verso gli attuali governati e la loro maggioranza sostanzialmente basata sull’astensionismo. In dialetto parmigiano si dice: “Putost che nient è mej putost”. Un modo come un altro per non ammettere di avere perso e di avere sbagliato nel coltivare i referendum come una scorciatoia politica e una spallata al governo.

Mio padre anche in campo calcistico parmense non si lasciava troppo condizionare dai media dell’epoca. L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”.

Alla fine ingloriosa dei referendum si può sconsolatamente affermare: “un’altra occasione politica sciupata malamente”. Mio padre, ricorderebbe, amaramente e provocatoriamente, un famoso proverbio: “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Tra il serio ed il faceto, dava però una sua versione: “Chi è causa del suo mal pianga me stesso”. Ed infatti c’è molto di cui piangere sugli altri, ma anche su se stessi!

 

 

 

 

 

 

Giustizia tra codice penale, Costituzione e Vangelo

Chi allora era in prima linea, come l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, amico e collega di Falcone, giudice a latere nel primo maxi-processo e poi procuratore nazionale antimafia, oggi non nega di provare, come tutti, «rabbia e indignazione». Ma poi invita a non ragionare “di pancia”, perché – e questa valutazione va tenuta a mente – con Brusca lo Stato ha vinto tre volte: quando lo ha catturato, quando lo ha convinto a collaborare e ora che è un esempio per tutti gli altri mafiosi, mostrando come «l’unica strada per non morire in carcere» (come è accaduto a Totò Riina, Bernardo Provenzano e da ultimo a Matteo Messina Denaro) è quella di confessare e aiutare la macchina della giustizia. Un baratto – notizie, verificabili, su crimini e affiliati in cambio di protezione e sconti di pena – di cui Brusca e altri hanno fruito, non in virtù di un qualche “perdonismo giudiziario”, ma sulla base di una norma dello Stato, forse cinica (sempre che una norma possa esserlo) ma allora come adesso pragmatica e necessaria. (dal quotidiano “Avvenire”)

A margine della liberazione del pentito di mafia Giovanni Brusca, che tanto mediatico scalpore ha suscitato, mi sono imposto alcune scomode riflessioni.

Un primo discorso è quello inerente all’imperfetta umana giustizia, che oscilla tra la vendetta, la deterrenza, il rigore e l’ordine sociale a cui bisognerebbe aggiungere, come imprescindibile premessa, quanto prevede la Costituzione, vale a dire che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, non solo quindi alla punizione, ma anche al recupero e al reinserimento sociale.

Sono tutte necessarie e sacrosante pie illusioni. Ci può stare quindi benissimo che in certi casi prevalga l’opportunismo sociale rispetto al rigorismo giudiziale.

È quindi inutile, sadico e masochistico indagare sulla reazione delle vittime: non si può pretendere che dimentichino il male ricevuto (solo Dio è capace di questo), non si può pretendere o imporre eticamente il perdonismo, mentre il perdono è un cammino lungo e impervio da lasciare alla coscienza individuale. Ci sono due obiettivi da raggiungere: il bene della società e il recupero del condannato. Vanno combinati insieme, non è facile, ma necessario. Il cosiddetto pentitismo ne è un tentativo, che indubbiamente ha portato a risultati positivi nella lotta alla delinquenza organizzata.

Occorre, senza cavalcare le tigri del rigorismo e del giustizialismo conditi in salsa populista, avere l’umiltà di accettare, come detto, l’imperfezione e la relatività delle leggi, rispettare il ricordo delle vittime e l’atteggiamento dei loro famigliari, abbandonare l’idea dell’accanimento punitivo e valutare le migliori scelte per il bene della società.

Se ci spostiamo dal contesto civile a quello religioso, dal codice civile al Vangelo, dal rigorismo/perdonismo sociale al perdono vero e proprio, dobbiamo fare altre valutazioni. Mi rimetto di seguito al pensiero dell’amico e maestro don Luciano Scaccaglia. “Del perdono, come dell’amore, c’è sempre bisogno; invece la legge del taglione, della vendetta, del castigo punitivo e non redentivo continua a dominare nelle mentalità e nelle strutture. Molti dicono che in alcuni casi perdonare è impossibile. Riporto al riguardo la preghiera di un figlio, il cui padre è stato barbaramente assassinato: «Voglio pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre labbra ci sia il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri» (Giovanni Bachelet)”.

Non voglio buttare tutto forzatamente in fede cristiana, ma non vedo altra chiave risolutiva al delicatissimo problema se non una preghiera idealistica e realistica ad un tempo: “Quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti” (dalla parafrasi francescana del Padre Nostro).

 

Il contrappasso geopolitico

Il risultato del ballottaggio presidenziale in Polonia può essere letto come la prima grande vittoria in Europa per le forze vicine a Donald Trump da quando quest’ultimo è tornato alla Casa Bianca. Karol Nawrocki incarna un nazionalismo affine a quello “Maga”, contrapposto al liberalismo pro-europeo del suo rivale Rafał Trzaskowski, battuto con uno scarto minimo in un voto che ha portato alle urne ben il 71% degli elettori.

(…)

L’Europa non è nel suo animo profondo più sovranista di due giorni fa, come non lo sarebbe stata di meno con la vittoria di Trzaskowski, spostando qualche manciata di consensi. Quello che però vedremo sarà l’effetto amplificato di questi minimi cambiamenti nelle urne. L’Ucraina non perderà aiuti, la Ue troverà altri ostacoli al suo funzionamento concorde ed efficiente. Soprattutto, i futuri candidati non sovranisti devono prendere nota che spesso avranno da misurarsi con un ostacolo in più (e non da poco): i nemici di un’Europa libera e non asservita.

Ho citato l’incipit e la conclusione di un interessante articolo di Andrea Lavazza sul quotidiano “Avvenire”, che commenta il quadro politico europeo alla luce della recente affermazione sovranista in Polonia.

L’aria che tira non è delle migliori. La sporca intromissione politica di Donald Trump è solo agli inizi: non so se l’Europa avrà il coraggio politico di resistere. Non voglio esagerare ma l’attuale situazione internazionale si è paradossalmente capovolta rispetto agli schieramenti della seconda guerra mondiale. Gli Usa aiutarono allora l’Europa a riconquistare la democrazia, oggi li stanno aiutando ad andare nel fosso dell’autocrazia. Gli Ebrei furono vittime della più grande catastrofe umanitaria di tutti i tempi, oggi i governanti dello Stato di Israele stanno compiendo un autentico genocidio ai danni della popolazione palestinese. E che dire dei Paesi vittime dell’oppressione comunista che oggi cavalcano politiche di stampo reazionario ai limiti del fascismo.

Siamo in una sorta di contrappasso geopolitico in cui i liberatori si trasformano in oppressori e le vittime diventano persecutori.

Mi corre l’obbligo di tornare con la mente in Scozia ai tempi della Brexit e a un episodio profetico. La propensione scozzese – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferì Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump apparve in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco.

Oggi, nel periodo in cui il subdolo attacco Trumpiano all’Europa si sta facendo sempre più invasivo, i governanti degli Stati europei non hanno il coraggio di urlargli “pig”, ma balbettano qualche giaculatoria europeista o gli prestano molta attenzione se non gli indirizzano addirittura elogi e/o intenti di emulazione.

Stiamo confondendo l’amicizia con la subalternità, il dialogo con la sottomissione, il rispetto con la piaggeria. Stiamo scherzando col fuoco sovranista e dilapidando un patrimonio ideale, culturale e politico storicamente e faticosamente accumulato.

Forse non ci rendiamo conto del disastro politico incombente e assistiamo inerti alla fine del sogno europeista e al tramonto della democrazia di stampo occidentale. Persino la Chiesa Cattolica sembra vacillare di fronte al trumpismo.

Probabilmente non resta che sperare nell’implosione del nuovo “regime” statunitense e nel conseguente misero fallimento dei sovranismi nostrani. Speriamo che non occorrano al riguardo bagni di sangue in senso stretto, ma nemmeno in senso allargato.

Sandrone, nella tradizione del carnevale modenese, è una maschera che rappresenta il contadino, spesso rozzo e ignorante, ma anche scaltro e arguto. “Polonia” è invece la moglie di Sandrone, descritta come donna di casa, legata ai costumi tradizionali, e il cui nome è legato alla figura di Sant’Apollonia. La loro relazione è spesso fonte di divertimento, con Sandrone che cerca di sbarcare il lunario e Polonia che si destreggia con le difficoltà della vita quotidiana.

Come non vedere e temere un’analogia tra queste figure carnevalesche e gli attuali personaggi della scena politica internazionale, con la differenza che mentre a carnevale ogni scherzo vale, in politica ogni scherzo si paga duramente.

 

 

 

La sicurezza neofascista

Al termine di un iter a ostacoli cominciato nel novembre 2023 e dopo essere stato trasformato da Ddl in decreto, diventa legge il provvedimento fortemente voluto dal governo in materia di sicurezza: 39 articoli che introducono 14 nuovi reati e nove aggravanti di delitti già esistenti, oltre a varare un nutrito pacchetto di tutele per le forze dell’ordine, ampliare i poteri dei servizi segreti (seppur in misura nettamente inferiore rispetto alla proposta originale) e vietare la produzione e la commercializzazione della cannabis light.

L’Aula del Senato ha approvato la fiducia chiesta dal Governo sul Dl che detta disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario. I voti a favore sono stati 109, i contrari 69, un astenuto. Il sì alla fiducia sul testo di 39 articoli già approvato dalla Camera costituisce il disco verde parlamentare definitivo sul provvedimento che doveva essere convertito in legge entro il 10 giugno. (ilsole24ore.com)

Non entro nel merito dei singoli reati introdotti o aggravati, mi rifaccio alla sostanziale filosofia di questo provvedimento.

Mio padre, tra il serio e il faceto, ipotizzava di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. La logica è quella di incutere paura pensando di rimuovere così i comportamenti trasgressivi. Sbagliatissimo da tutti i punti di vista.

Ma c’è molto di più nel cosiddetto decreto sicurezza: trasformare subdolamente lo stato di diritto in stato poliziesco. Come scrive MicroMega, non resta spazio per la critica né per il dissenso, il reato diventa politico e la politica diventa reato. “Il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale”, scriveva Goliarda Sapienza in L’università di Rebibbia, in cui racconta il periodo della sua carcerazione (racconto al centro del film “Fuori” di Mario Martone, attualmente nelle sale): “Continuare a ignorarlo può portarci a ripetere il comportamento del buon cittadino tedesco che ebbe l’avventura di esistere nel non lontano regime nazista. Come sapevo, con poca spesa di ‘paura’ ho sentito la grande febbre di centinaia di individui eccezionali – politici e no – che solo perché dissentono nei modi che da sempre sono stati quelli primari di dissentire, vengono segregati”.

È in atto una revisione culturale prima che politica: un tempo si diceva “tutto è politica”, oggi si aggiunge “tutto è reato” e, facendo sintesi, si arriva a “tutti i reati sono politici e tutta la politica è reato”. E la democrazia va a farsi benedire…

Non so se sono servite le forti proteste a livello parlamentare, mediaticamente snobbate e ricondotte ad un ridicolo gioco delle parti. È curioso il dibattito politico: quando l’opposizione tace, ci si lamenta e si stigmatizza questo silenzio; se l’opposizione protesta vivacemente, esagera e sbaglia i toni. Allora come la mettiamo? Il problema è che la gente non capisce la gravità di quanto sta succedendo o forse preferisce cavarsela con un’alzata di spalle. Cade nel tranello “sicurezza”.

Pur ammettendo che mia sorella fosse troppo spietatamente realista nel giudicare gli italiani “ancora fascisti”, la cosa rimane vergognosamente attuale e imbarazzante, anche perché, tutto sommato, aveva ragione. La risposta plausibile a tanti problemi la trovo, pensate un po’, nella impietosa analisi che faceva lei riguardo alle magagne del popolo italiano: siamo rimasti fascisti con tutto quel che segue. Sosteneva che gli italiani sono affascinati dall’ «uomo forte». Lei lo diceva con la sua solita schiettezza e in modo poco aulico ed elegante, ma molto efficace: «Gli italiani sono rimasti fascisti». Se è così, il decreto sicurezza va benissimo e l’attuale governo pure.

Il mio impegno politico è storicamente fatto di sfide coraggiose al limite del paradosso, regolarmente perse in casa: militavo infatti nella Democrazia cristiana aderendo all’ala progressista, per la precisione alla corrente di matrice sindacal-aclista. Una gara dura anche se, per certi versi, affascinante. Ero segretario di sezione e durante un dibattito congressuale mi permisi di sostenere l’idea del disarmo della polizia nei conflitti di lavoro: era un periodo caldo a livello di protesta e contestazione studentesca e operaia. La mia provocatoria proposta, che peraltro faceva riferimento ad un disegno di legge, presentato in Parlamento da un esponente della sinistra D.C. (se non erro l’onorevole Foschi) e mai approvato, fece andare su tutte le furie alcuni iscritti, in particolare uno che gridò: “I canòn a la polisìa”. Fu la mia caporetto, da quel momento ebbi vita dura e in poco tempo mi spodestarono democraticamente (?) da segretario.

È detto tutto sulla mia ingenua ma radicale fede democratica, ma anche sulla storia che si ripete, sulle scorciatoie fascisteggianti che ritornano, sull’assoluta necessità di vigilare a salvaguardia della democrazia.

Non dimentichiamo che il fascismo, come tutti i regimi, rispondeva in modo demagogico e populistico al bisogno di ordine, scambiando il disordine con la protesta e viceversa.

Quando mia madre timidamente osava affermare che Mussolini, nonostante tutto, aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare.

Anche Giorgia Meloni può avere qualche ragione e fare qualcosa di buono, ma anche per lei il male sta nella concezione di fondo e allora c’è poco da sperare e molto da combattere.

Resistenza (nel cuore e  nel cervello) e Costituzione (alla mano), impongono oggi più che mai una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sul fascismo nelle sue nuove sembianze non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione e colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

 

 

 

 

 

La Chiesa soffre mentre il Vaticano s’offre

Nelle stesse ore, Putin ha annunciato di avere avuto la prima telefonata con papa Leone XIV per ringraziarlo «della disponibilità nel risolvere la crisi». Conversazione confermata dalla Santa Sede che ha precisato: «Il Papa ha fatto appello affinché la Russia faccia un gesto che favorisca la pace, ha sottolineato l’importanza del dialogo per la realizzazione di contatti positivi tra le parti e cercare soluzioni al conflitto». Si è parlato, inoltre, «della situazione umanitaria, della necessità di favorire degli aiuti dove necessario, degli sforzi continui per lo scambio dei prigionieri e del valore che in questo senso svolge il cardinale Zuppi». Il Cremlino, da parte sua, ha definito il dialogo «costruttivo, entrambe le parti hanno espresso l’intenzione di proseguire i contatti». Putin si è detto «disponibile a raggiungere la pace attraverso mezzi politici e diplomatici» ma ha accusato Kiev di mancanza di impegno per raggiungere il compromesso. Quanto al dossier degli scambi dei prigionieri, lo zar ha accennato al ritorno dei bambini ucraini con i propri familiari, al centro della missione portata avanti dal cardinale Matteo Zuppi su incarico di papa Francesco. (dal quotidiano “Avvenire” – Lucia Capuzzi)

Durante una campagna elettorale in cui si contrapponevano Berlusconi e Prodi, Roberto Benigni, con la sua impareggiabile verve ironica, disse nel pieno di una trasmissione televisiva della Rai, fregandosene altamente della par-condicio: «Io non sono di parte, ma Berlusconi non mi piace…».  Pur non avendo l’autorevolezza dialettica del grande Benigni, dal momento che, pur ritenendomi un cattolico credente e praticante, me ne frego altamente del religiosamente corretto, provo ad imitarlo: «Seguo l’inizio del pontificato prevostiano con molta attenzione, ma preferisco decisamente Bergoglio…».

Qual è la differenza fra i due papi? Francesco parlava come mangiava anche quando affrontava i problemi più complessi e delicati, Leone parla (ne ho almeno l’impressione) in vaticanese, mettendo la diplomazia prima se non addirittura al di sopra di tutto.

Per entrambi la pace era ed è un’opzione fondamentale, ma si può puntare alla pace dicendo pane al pane e vino al vino oppure limitandosi alle mozioni degli affetti senza affondare i colpi.

Perché in questi anni Putin non ha mai telefonato a papa Francesco? Non credo avesse il timore che gli sbattesse il telefono in faccia, ma probabilmente temeva che lo mettessa a nudo chiedendogli cose e passi concreti. D’altra parte Bergoglio aveva reagito subito all’invasione dell’Ucraina andando, a piedi, all’ambasciata russa, accolto con molta freddezza. Eppure aveva persino ammesso che c’erano state troppo abbaiate occidentali alle porte della Russia. Però aveva esortato il patriarca Kirill a non diventare il “chierichetto” del Cremlino. Aveva lasciato al suo pupillo Zuppi il compito di trattare la questione dei bambini ucraini proprio per non rapportarsi direttamente ad uno dei più grandi macellai di tutti i tempi. Insomma, un modo pragmaticamente evangelico di rapportarsi al “mondo”, badando bene ad essere nel mondo ma non del mondo.

Come mai invece Putin si è scomodato nei confronti di papa Leone? Da grande furbo qual è ha probabilmente capito che l’aria in Vaticano è cambiata, che il Vaticano può stare al gioco trumpiano (un americano a Roma…), che è partita una diplomazia soft che, tutto sommato, può fare a caso suo, che i rapporti della Chiesa cattolica con quella ortodossa a lui asservita possono normalizzarsi.

Forse la mossa putiniana serve a strappare un po’ di benevolenza all’estero e a riconquistare un po’ di consenso all’interno: se il Papa accetta di parlare con me, vuol dire che… senza esagerare però…infatti la Russia si è dichiarata contraria al tavolo vaticano per le trattative di pace… finché si scherza al telefono tutto bene, se si comincia a fare sul serio…

Tornando alle due diplomazie vaticane, apparentemente uguali ma sostanzialmente diverse, premesso che qualsiasi insorgente elemento di novità diplomatica vada comunque salutato con estremo favore, mi permetto di esprimere la mia convinta preferenza verso l’incedere poco diplomatico di papa Francesco rispetto al solito preoccupato e preoccupante perbenismo cattolico che tanti disastri a contribuito a permettere in passato.

Papa Leone XIV, ha introdotto il concetto di “pace disarmata e disarmante” nel suo primo discorso Urbi et Orbi. Questa frase, pronunciata in un contesto di forte corsa agli armamenti, sottolinea un’idea di pace basata sull’umiltà, la perseveranza e la rinuncia alla violenza, sia fisica che verbale. Mi chiedo provocatoriamente: la telefonata scambiata con Putin rientra in questo concetto di pace? Consentire, seppure indirettamente, una sorta di triangolazione tra Usa, Russia e Vaticano non espone la Chiesa al rischio di fare politicamente la parte del vaso di coccio tra i vasi di ferro? Dopo l’improvvisato (?) colloquio in San Pietro di Trump e Zelensky, dopo la frettolosa disponibilità ad ospitare in Vaticano il tavolo delle trattative, dopo la telefonata con Putin, non c’è il pericolo di mondanizzare il ruolo della Chiesa ridotta a pasta frolla politica anziché lievito evangelico?

Mancherebbe soltanto la ciliegina sulla torta vale a dire la partita delle nomine riguardanti la Curia vaticana alla ricerca di nuove sintesi dopo gli anni di scontro tra progressisti e conservatori: una Chiesa politica in tutti i sensi, che cerca il compromesso inevitabilmente anti-evangelico.

In conclusione preferisco una Chiesa che soffre i drammi del mondo da artigiana di pace rispetto ad una Chiesa che s’offre come pasticciera di pace.

 

 

 

 

Un voto poetico di progresso contro l’astensione prosaica di regresso

Usando, a contrariis, il vergognoso anche se legittimo linguaggio di Giorgia Meloni, in occasione dei prossimi referendum andrò al seggio, ritirerò le schede e voterò “sì”.

Gli argomenti a sostegno dell’abrogazione delle leggi in questione – vale a dire normative in materia di lavoro e di cittadinanza – mi sembrano convincenti, inoltre, come sempre inevitabilmente accade, i referendum assumono forti connotazioni politiche e quindi intendo contribuire a dare un messaggio estremamente critico verso l’attuale maggioranza che, manco a dirlo, è schierata per l’astensione.

Questo non significa che voterò “sì” solo per fare un dispetto a La Russa, Meloni, Tajani, Salvini e c., ma per dare un segnale di riscossa politica rispetto ad un andazzo inaccettabile, partendo dalle questioni del lavoro e dell’immigrazione.

Abbiamo celebrato – seppure in modo contraddittorio, in mezzo a parate militari degne di  regimi non democratici, a mega-ricevimenti di dubbio gusto e fanfaronate varie – la festa della Repubblica che è fondata sul lavoro: i costituenti la sapevano lunga e quindi proviamo a tornare al loro senso istituzionale e politico, mettendo il lavoro al centro dell’attenzione, facendone un elemento di crescita e non di precarietà, di certezza e non di rischio, di uguaglianza e non di squilibrio.

Quanto al discorso dell’immigrazione, sforziamoci una buona volta di affrontarlo e impostarlo in modo positivo, offrendo possibilità di piena integrazione anziché brandire ad ogni piè sospinto le armi del respingimento e del rimpatrio.

Le regole sulla flessibilità del lavoro erano state introdotte dal governo Renzi con il rispettabile intento di togliere una serie di lacci e lacciuoli nella legislazione, che si riteneva rappresentassero un freno per lo sviluppo dell’occupazione: obiettivo fallito, perché non si può mercanteggiare, concedendo un lavoro a prezzo di sminuirne la dignità, la certezza e la sicurezza.

Vado quindi abbastanza convintamente alle urne: me lo chiedono le innumerevoli vittime di infortuni sul lavoro, i giovani condannati alla precarietà, i lavoratori a rischio del proprio posto di lavoro, gli stranieri che attendono di inserirsi a pieno titolo nella nostra società. Se questa è demagogia allora accetto la qualifica di demagogo.

Vado a votare per respirare finalmente una boccata di aria democratica in un Paese politicamente alla deriva, in un’Europa sempre più sovranista e inopinatamente collegata agli Usa da un filo nazionalista, in un mondo in guerra dove vige la legge del più forte, dove domina l’egoismo individuale e nazionale, dove si vive male e si muore ancor peggio. Se questa è poetica illusione allora mi sento onorato di ragionare sentimentalmente da poeta e di sfogliare e leggere testardamente il libro dei sogni democratici.

La rifondazione sentimentale

Il sempre più impellente e sconvolgente fenomeno dei femminicidi impone serie riflessioni a tutti, ma soprattutto richiede almeno l’inizio di un’azione di rifondazione culturale sulle macerie di una società che sta divorando le sue figlie.

Nel dibattito, che si apre ad ogni femminicidio sospinto, si scontrano sostanzialmente due tesi apparentemente in contrasto, vale a dire quella della prioritaria, se non addirittura esclusiva, riscoperta del ruolo dell’educazione scolastica orientata sulle relazioni sentimentali e sessuali e quella dell’irrinunciabile e fondamentale recupero del ruolo della famiglia nell’educazione giovanile attorno a cui fare ruotare l’intervento delle altre istituzioni a servizio delle giovani generazioni.

La prima impostazione parte dal presupposto del totale sfasciamento dell’istituto famigliare o quanto meno della sua inadeguatezza ad affrontare quella che ormai si profila come una vera e propria emergenza del nostro tempo; la seconda ritiene che, senza il rigoroso rispetto del ruolo famigliare, si possa finire col trasferire tutto nel freddo laboratorio educativo della scuola a scapito del caldo e problematico vissuto quotidiano.

Non vorrei che questo pur importantissimo dibattito finisse in una disputa simile a quella dei teologi bizantini i quali erano soliti discutere tra di loro sul sesso degli angeli, anche quando i Turchi di Maometto II stavano per espugnare Costantinopoli, ponendo fine all’impero romano d’Oriente.

Anche la politica oscilla fra le due suddette tesi: il governo di destra non crede nell’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole, non ci investe sopra risorse umane e finanziarie, la subordina al consenso genitoriale; a sinistra si punta tutto sulla scolarizzazione del problema e sul taumaturgico potere della scuola per mettere i giovani in una dimensione corretta dei rapporti maschio-femmina con una visione moderna e post-patriarcale della società.

Se devo essere sincero non mi rassegno alla insignificanza dell’istituto famigliare. Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi e tragici fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente? Aveva perfettamente ragione. Capisco che esercitare il “mestiere” di genitori non sia facile ed agevole: di qui a fregarsene altamente e delegare il ruolo educativo totalmente alla scuola…

Nello stesso tempo nutro grande fiducia nella scuola nonostante le sue lacune e i suoi difetti. Mio padre si era imposto una semplice ma non banale regola nei rapporti scuola-famiglia: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”.

Sbaglia quindi l’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito a subordinare l’introduzione dell’educazione sessuale al consenso dei genitori: ci puzza tanto di Dio-Patria-Famiglia, di paura verso una aperta e disincantata impostazione della sessualità e di un ritorno alla mera e rigorosa negazione delle diversità.

Però forse sbaglia anche chi dà per perso il ruolo della famiglia: ci puzza di esagerata laicità e schematicità nell’affrontare problemi educativi molto complessi.

Non voglio banalizzare il discorso, ma penso che gli adolescenti debbano sostanzialmente capire, tramite insegnamenti teorici e testimonianze di vita, che l’amore è una cosa seria. Le ragazze tengano conto che le esperienze sentimentali non sono un semplice flirt “usa e getta”, anche perché nella psicologia maschile esiste la tendenza contraria, vale a dire quella di considerare definitivi e imprescindibili i più precari rapporti e allora si può creare un corto circuito devastante.

I ragazzi imparino che la donna non è una preda, una persona di loro proprietà, che l’amore non è possesso ma dono, non è una conquista ma una ricerca.

I genitori dovrebbero avere questi concetti e valori nel loro Dna e nella loro esperienza esistenziale da trasmettere con l’esempio e la testimonianza; gli insegnanti dovrebbero fornire ai giovani gli elementi di conoscenza culturale e scientifica, una base su cui costruire un comportamento sano nella sua problematicità.

E la religione, siamo sicuri che non abbia niente da insegnare a tutti, giovani, genitori, ministri, uomini di cultura e professori?

Mio padre, non credente o diversamente credente, laico ma non anticlericale, accettava di buon grado che io da ragazzo frequentassi assiduamente la parrocchia. Faceva un ragionamento profondo anche se piuttosto minimalista: riteneva che da quell’ambiente potessi ricevere comunque insegnamenti buoni. Sì, infatti attualmente si sente molto la mancanza di questa sponda nell’educazione dei giovani, pur con tutti i limiti e i difetti che poteva avere.

La famiglia è in crisi profonda, la scuola è dequalificata, la parrocchia è ridotta ai minimi termini: rimangono i social e la discoteca. C’è paradossalmente persino da meravigliarsi che esistano tanti giovani che si dedicano al volontariato, che si battono per un mondo di pace e di solidarietà. Dedicarsi agli altri è un’ottima medicina per prevenire e curare le patologie psico-sociali delle persone, dei giovani in particolare.

Vogliamo provare a fare qualcosa al di là dei pianti dirotti a posteriori, che assomigliano sempre più allo spargimento di lacrime di coccodrillo?

 

 

 

 

 

Il conclave ha cambiato la musica ecclesiale

Le mie ecclesiali perplessità su papa Leone sono purtroppo piuttosto statiche: ci ritorno sopra per fare una sorta di punto della situazione a distanza di un mese circa dalla sua nomina.

Innanzitutto ho il dubbio (atroce?) che la scelta di Prevost risponda ad esigenze politiche, vale a dire andamenti e scenari del mondo (“siate nel mondo, ma non del mondo”, dice Gesù).

Checché se ne dica un papa di origini statunitensi avrà pure un significato! E non è difficile individuarlo nella necessità di calmare i bollenti spiriti dell’elettorato cattolico di Trump: un papa diverso dal tanto ingombrante Bergoglio, che soffriva di parecchie ostilità negli Usa in quanto troppo aperto rispetto ai falsi rigorismi etici degli americani.

Nell’altra faccia della medaglia c’è la volontà/illusione di contrapporre la Chiesa cattolica alla deriva trumpiana, di porre un limite allo sbandamento politico americano, di aggiungere alla magistratura la gerarchia cattolica come potere antagonista rispetto allo strapotere presidenziale.

Due piccioni con una fava: salvaguardare l’unità della Chiesa recuperando il malcontento d’oltre oceano che tanto ha fatto soffrire papa Francesco nonché alzare la bandiera dell’Amore mettendo in atto una deterrenza rispetto alla egoistica deriva socio-culturale.

A prima vista sembrano intenti lodevoli e condivisibili, senonché l’unità della Chiesa non è un valore se viene subordinato ad una inversione pastorale piuttosto evidente, mentre la battaglia politica contro Trump non è mestiere della Chiesa ma dei cattolici impegnati in politica negli Usa e nel mondo.

Esista un secondo fronte di perplessità. Le prime “uscite” concrete di Prevost sono in netta controtendenza rispetto a quelle tanto osannate e ben presto dimenticate di Bergoglio. Mi riferisco all’abbigliamento papale, alla sua dimora invernale ed estiva (i ventilati ritorni al palazzo apostolico e alla residenza di Castelgandolfo), al mezzo di trasporto scelto, all’atteggiamento morbido verso la curia, al precipitoso riavvicinamento all’Opus Dei: sarò prevenuto, ma sono sintomi di un cambiamento di linea pastorale, sembrano quasi un comportamento studiato per tranquillizzare i tradizionalisti. Si dirà che sono fatti puramente formali: non ne sono convinto e sto ad aspettare la sostanza.

Ho il grave timore che non sia tanto all’opera lo Spirito Santo, ma lo spirito di contraddizione. La speranza è – come spesso è accaduto nella storia della Chiesa, con i papi che non hanno rispettato i presupposti programmatici (quasi sempre indietristi) della loro elezione – che papa Leone, dopo il primo contentino ai nostalgici (cardinali, vescovi, preti e laici), faccia di testa sua. Lo Spirito Santo si è tante volte vendicato in questo modo.

Tornando al senso politico dell’elezione di papa Leone, vengo ad un fatto poco evidenziato dai media.

Louis (Lou) Prevost, uno dei fratelli maggiori del nuovo Papa, che vive a Port Charlotte in Florida, ha condiviso di recente meme Maga (Make e insulti contro l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi). Il Daily Beast ha scoperto i post di Lou, peraltro tuttora visibili sulla sua pagina social.

“Questi fottuti liberal che piangono per i dazi sono incredibili. Non sanno che c’è una cosa chiamata video?”, commentava all’inizio di aprile il maggiore dei Prevost alludendo ad accuse mai provate che Paul Pelosi avesse avuto una relazione gay con il suo aggressore David DePape. In un altro post, Lou suggerisce ai suoi amici “sinistrorsi” che “piangono per la vittoria di Trump” di “ibernarsi” per i prossimi quattro anni.

A proposito di Obama e dei democratici, scrive che “fanno schifo. Sono a un passo dal diventare comunisti a tutti gli effetti, desiderosi della distruzione totale del nostro stile di vita e di trasformare questo Paese in una dittatura, per di più razzista”.

Che il Partito Democratico sia invaso dai comunisti è un tema ricorrente: in un post Lou afferma che “Kamala Harris e i democratici distruggeranno gli Stati Uniti e ne saranno fieri”, mentre in un altro sostiene che “ai tempi della fondazione del nostro Paese, prima che i progressisti prendessero il controllo e rovinassero le scuole, tutti questi democratici di sinistra sarebbero stati coperti di catrame e piume e cacciati dalla città su un asino, o peggio ancora, fucilati o impiccati per aver rovinato così tanto la vita delle persone”.

Si passa poi ai contenuti anti-vax e anti-woke. Un video condiviso di un manicomio viene corredato dalla didascalia: “Ecco dove vivevano i woke prima degli anni Settanta”.

Lou non ha fatto trapelare lo spirito Maga in una intervista con il New York Times dopo l’elezione del fratello: “Mi sembra ieri che lo spingevo giù dalle scale e ora è Papa”, ha detto.

Al Times il maggiore dei Prevost, che ha ammesso di non essere pacifista come il fratello, ha suggerito che Leone sarà “un po’ più conservatore del suo predecessore”. (da Blitz quotidiano -Amedeo Vinciguerra) 

Trovo profondamente ingiusto e disgustoso andare alla maliziosa ricerca del pelo nell’uovo prevostiano (gli appunti sopra mossi, almeno nelle mie più buone intenzioni, non sono inquadrabili in questo andazzo), così come trovo inaccettabili i giudizi assurdi espressi dal fratello di Leone XIV sull’attuale politica statunitense.

Evidentemente negli Usa c’è una gran confusione politica, provocata e cavalcata da Donald Trump, che sta infettando il mondo intero, cattolici e gerarchie cattoliche comprese.

Cos’è la cultura woke contro la quale si è scatenata negli Usa una vera e propria intolleranza sostenuta dai Maga (Make America Great Again), uno slogan utilizzato nella politica statunitense, reso popolare da Donald Trump nella sua campagna elettorale presidenziale del 2016 e quella del 2024?

La parola woke viene utilizzata inizialmente nella cultura afroamericana nella declinazione “stay woke” per indicare la consapevolezza delle ingiustizie sociali, l’essere desti ed attenti, non abbassare la guardia e lottare contro tutte le discriminazioni nella società.

Nel tempo il significato si è allargato per includere un ampio range di tematiche sociali. Nella cultura e ideologia woke rientrano: opposizione alla discriminazione razziale e promozione dell’uguaglianza; sostegno ai diritti delle donne e alle pari opportunità di genere; inclusività e sostegno ai diritti delle persone queer e trans; promozione di azioni contro il cambiamento climatico e l’ecologismo; riconoscimento delle diversità dei gruppi sociali.

Un conto è dubitare, come fa il sottoscritto, dell’opportunità in questo momento storico di nominare un papa statunitense, volenti o nolenti costretto a fare i conti con il dilagante trumpismo: non vorrei infatti che finisse in un imbarazzato silenzio neutrale, come è successo storicamente nella Chiesa verso certi movimenti politici a dir poco ideologicamente folli e concretamente delinquenziali.

Altra musica è screditare il neoeletto papa strumentalizzando i gusti politici di un suo fratello: un tempo in Vaticano vigeva il nepotismo, ora verso Leone XIV vige l’esatto contrario. L’onestà intellettuale mi impone di prendere le distanze da questo subdolo farneticante chiacchiericcio.

Il tritacarne mediatico si è gettato su Prevost: una lama lo cattura in modo opportunistico per disgustosi fini di religioso consolidamento del potere; un’altra lama lo riduce a mero occupante dell’anticamera del potere vigente.

Ricordo come a mio zio, grande sacerdote antifascista impegnato nel movimento scoutistico contrario al regime, facesse da paradossale contraltare sua sorella maggiore che non nascondeva simpatie per il Duce, sostenendo che facesse un gran bene alla Chiesa. L’antifascismo di mio zio ne usciva ulteriormente rafforzato.

Papa Prevost saprà sicuramente distinguere tra l’affetto verso suo fratello Louis e le strambe idee politiche di quest’ultimo.

Resta lo sgomento per quanto sta avvenendo a livello culturale, etico e politico negli Usa di Trump e per le simpatie raccolte in Europa e in Italia. Chissà che un papa americano – che viene peraltro impropriamente e volgarmente incensato da certa destra nostrana – in rotta di collisione (?) con gli Usa di Trump non serva almeno a portare a più miti consigli anche tanti italiani ed europei.

 

Dalla provata medicina di Pellegrini alla ipotetica chirurgia di Marotta

«A Paola, con stima e affettuosa scoperta». Queste è la dedica che nel luglio del 2023 mi fece Ernesto Pellegrini sul suo libro Una vita, un’impresa, pubblicato da Mondadori. Quel libro ha un sottotitolo: “Grazie all’Inter ho trovato il senso vero della fede”.

Quella parola – “fede” – che dà un’idea di inclusione che si fa azione concreta, esperienza condivisa e crescita collettiva. Il calcio, in questo contesto, non è solo sport, ma uno strumento di dialogo, partecipazione e inclusione.

(…)

La Fondazione Ernesto Pellegrini Onlus è nata nel 2013 con il proposito di fornire aiuto concreto a chiunque si trovi in situazione di difficoltà. Per questo ha dato vita a Milano a un ristorante speciale, sostenendo parallelamente altri progetti per il sociale.

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Il nome del ristorante è ispirato a una persona che ha vissuto come lavorante nella cascina di Ernesto Pellegrini e che, trovandosi senza più una casa negli anni Sessanta, in seguito all’esproprio dei terreni della Cascina, è morto di freddo nella sua baracca di lamiera. Il fondatore del Gruppo, Ernesto Pellegrini, non lo dimenticò mai e proprio alla sua memoria volle intitolare un luogo pensato per tutte le persone che si trovano in una situazione di difficoltà. Queste le parole che mi disse Ernesto per raccontare la vision e la motivazione che lo guidavano: «Vorrei aiutare qualcuno dei tanti Ruben che, per una ragione o per l’altra, vivono il loro momento di difficoltà e disagio».

(…)

Ernesto Pellegrini ha portato avanti per tutta la sua vita una rivoluzione dei valori che vale in ogni ambito, come mi ha detto qui al Festival Calcio Comunità Educante il presidente dell’Associazione Italiana Allenatori Calcio Renzo Ulivieri, parlando di lui: «È stato un presidente umano, riconosciuto dai suoi calciatori e riconosciuto dagli alti dirigenti. Umano vuol dire anche di grande generosità, che non significa buttare via i soldi, ma impegnarli in ambito sociale; questa è la caratteristica che contraddistingue la vita di quest’uomo di grande generosità. Lui tendeva a una specie di eguaglianza nei rapporti». (da Avvenire.it – Paola Severini Melograni)

Allora è possibile coniugare lo sport sempre più affaristico con l’aiuto a chi è in difficoltà!? Mi sovviene al riguardo la testimonianza di un sacerdote amico, che svolse tempo fa la funzione di cappellano dell’allora glorioso Parma calcio. Mi confidò di avere rivolto insistentemente questo invito ai ricchi giocatori: “Voi guadagnate tanti soldi…lasciamo stare se sia giusto…cercate almeno di guardare ed aiutare chi non ha nulla…”.

Ernesto Pellegrini non fece la rivoluzione all’Inter di cui era presidente, ma ne fece l’occasione per collegare il calcio alla umana solidarietà. Forse è inutile radicalizzarsi in questioni di principio, meglio fare concretamente qualcosa in controtendenza.

Proprio nel giorno della morte di Ernesto Pellegrini la squadra calcistica dell’Inter ha vissuto uno dei momenti peggiori della sua storia agonistica, una umiliante sconfitta.

La finale di Champions League è durata dodici minuti. Tanto è bastato al Paris Saint-Germain per indirizzare la partita con l’Inter all’Allianz Arena di Monaco di Baviera ed aggiudicarsi la prima vittoria nella Coppa più importante. È toccato proprio ad un ex-nerazzurro, Hakimi, aprire le marcature, dando il via allo show del Psg. Alla fine i gol sono stati cinque (oltre ad Hakimi hanno segnato Douè una doppietta, Kvaratskhelia e Mayulu), una manita mai vista all’ultimo atto della Coppa Campioni, in settant’anni. Un risultato (5 a 0) che dice molto della differenza di forze in campo. Da un lato, il Psg di Gigio Donnarumma e di tanti ex del nostro campionato, che arrivava prima su tutti i palloni, non concedendo nemmeno un metro di campo. Dall’altra, un’Inter timida e quasi impacciata che, dopo lo svantaggio iniziale, non ha mai saputo rialzare la testa. Anzi, ogni volta che i transalpini acceleravano, creavano potenziali azioni da gol, dando una vera e propria lezione di calcio agli avversari. Troppo netta, quasi imbarazzante, la differenza, sia fisica che tecnica, tra le due squadre, che parevano di due categorie diverse. E la Coppa dalle grandi orecchie ha preso la via di Parigi. Grande la delusione dei tifosi interisti, che in massa hanno seguito la squadra in Germania, mentre a Milano in 50mila hanno assistito alla partita dal maxischermo di San Siro. Che, alla fine, si è mestamente svuotato. (da Avvenire.it – Paolo Ferrario)

 

Quali conclusioni trarne? Innanzitutto se mi trovassi al posto di Giuseppe Marotta, attuale presidente dell’Inter, dimezzerei immediatamente i compensi di dirigenti, allenatore e giocatori, superpagati rispetto al loro valore nonché, soprattutto, rispetto ad un minimo di equità che dovrebbe esistere nella nostra società, destinando questi risparmi sugli ingaggi alla Fondazione Ernesto Pellegrini. Due piccioni con una fava: ridimensionamento del divismo calcistico e adozione del cosiddetto bilancio sociale.

Secondo la definizione dell’Unione Europea, il bilancio sociale è: «Integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate».

Sarebbe il modo migliore per onorare la memoria di Ernesto Pellegrini andando persino ben oltre le sue scelte, scavalcandolo in senso solidale. Ne sarebbe oltre modo soddisfatto.

Poi, come sarebbe bello che la mia storica squadra del cuore diventasse antesignana di una simile operazione di chirurgia calcistica…

 

 

 

 

Le pentole e i coperchi di Trump

In un clima di incertezza globale, Donald Trump tiene in bilico l’economia globale. Dopo un fine settimana di pressioni diplomatiche, il presidente statunitense ha annunciato che prorogherà fino al 9 luglio il termine per l’Unione Europea prima che vengano applicati dazi del 50%. È il frutto del colloquio telefonico avuto nel weekend con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «Abbiamo avuto una conversazione molto piacevole e ho accettato di posticipare la scadenza», ha detto Trump domenica ai giornalisti all’aeroporto di Morristown, nel New Jersey, mentre era diretto a Washington. (da Milano Finanza)

 

Una corte federale americana blocca temporaneamente i dazi di Donald Trump, definendoli «illegali» e stabilendo che il presidente non ha l’autorità di imporre tariffe globali. Lo riportano i media americani, citando la decisione della Us Court of International Trade. La reazione dell’amministrazione Trump non si è fatta attendere. La Casa Bianca ha fatto sapere che presenterà appello, innescando uno scontro giudiziario che potrebbe finire all’attenzione della Corte Suprema Usa, lasciando ai saggi un caso di alto profilo che potrebbe avere un impatto di migliaia di miliardi sull’economia mondiale. (da Unione Sarda).

 

La Corte d’appello ha deciso di consentire che i dazi restino per ora in vigore. Il presidente Trump ha vinto in appello il primo ricorso contro lo stop alle tariffe. (da televideo) 

 

Elon Musk volta pagina e torna alle sue aziende, Tesla in primis. Dopo mesi di presenza al fianco del presidente Donald Trump, il patron di Tesla e SpaceX ha annunciato il proprio addio all’amministrazione americana, mettendo fine al suo controverso ruolo alla guida del Doge – il dipartimento per l’efficienza governativa creato su misura da Trump per affidargli il compito di ridurre gli sprechi federali. Dietro le righe del congedo si intravede una frattura. In un’intervista rilasciata alla Cbs, Musk ha apertamente criticato la legge di bilancio proposta dall’amministrazione Trump, definendola «una proposta di spesa francamente deludente, che aumenta il deficit federale». Il riferimento è al maxi-disegno di legge attualmente al vaglio del Congresso, fortemente voluto da Trump per finanziare promesse elettorali come l’estensione dei crediti d’imposta, ma che – secondo un’analisi dell’agenzia di bilancio del Congresso – potrebbe far crescere il disavanzo federale di 3.800 miliardi di dollari nel prossimo decennio. L’addio di Musk rappresenta la prima vera crepa pubblica in un’alleanza che fino a poche settimane fa sembrava granitica. Dall’insediamento del secondo mandato Trump a gennaio, il fondatore di Tesla era stato onnipresente: nello Studio Ovale, a bordo dell’Air Force One, in eventi stampa alla Casa Bianca. Sempre in prima fila accanto al presidente, soprattutto quando si trattava di annunciare tagli agli aiuti esteri o riorganizzazioni delle agenzie federali. (da Milano Finanza)

 

Lunedì il presidente statunitense Donald Trump ha detto che il presidente russo Vladimir Putin è «completamente IMPAZZITO», dopo che durante il fine settimana la Russia ha compiuto il più grande attacco aereo sull’Ucraina per numero di armi utilizzate dall’inizio della guerra. In un messaggio sul suo social, Truth, Trump ha scritto che Putin sta «uccidendo inutilmente molte persone», lanciando droni e missili sulle città ucraine «senza alcun motivo», e che il suo tentativo di conquistare tutta l’Ucraina porterà alla fine della Russia. Gli attacchi russi sui civili ucraini avvengono in realtà dall’inizio della guerra e non c’è stato alcun cambiamento nella strategia di Putin. Le parole di Trump mostrano però il suo Progressivo allontanamento dal presidente russo, con cui ha sempre detto di avere un «ottimo rapporto», e una crescente frustrazione da parte dell’amministrazione statunitense nei confronti della Russia. (da Il POST)

Si tratta di un pazzesco zibaldone di contraddizioni provenienti da un personaggio che, volenti o nolenti, ha nelle sue mani gran parte dei destini dell’umanità. I casi sono due: o tutto rientra in una perfida sfida all’O.K. Corral oppure questi tira e molla dimostrano che il diavolo insegna a fare le pentole e non i coperchi.

Gli americani se lo sono voluto e se lo tengono più o meno stretto, noi lo abbiamo ricevuto in dono da Oltre Atlantico e in qualche modo ce lo dobbiamo tenere. In 24 ore non doveva risolvere il conflitto russo-ucraino? Con la politica dei dazi non doveva sconvolgere i rapporti commerciali col mondo intero?

Sul fronte ucraino è riuscito soltanto a portare Zelensky (il modo ancor l’offende) a più miti consigli. Putin è un osso duro, è molto più furbo di lui: sarà una gara dura mettergli il guinzaglio.

I dazi si stanno rivelando un boomerang: forse, tutto sommato, più per necessità che per virtù, gli eventi paradossalmente stanno dando ragione all’Unione europea che fa il pesce in barile in attesa dell’implosione americana.

In campo internazionale devo ammettere, e me ne vergogno, di fare il tifo per la compagnia di merende Putin-Xi Jinping: tra i delinquenti preferisco quelli intelligenti rispetto a quelli stupidi (come Trump).

Quanto a Musk, l’ignobile connubio non poteva durare molto: l’economia, seppure rivestita con l’abito della festa tecno-mediatica, tiene in scacco la politica e i suoi falsi poteri. Forse Marx non aveva tutti i torti…

Di tutte le cazzate messe in campo da Trump quella che mi preoccupa di più è tuttavia il tentativo di mettere le mani sulle istituzioni culturali come l’università di Harward, cancellandone l’autonomia: qui siamo al regime vero e proprio.

Dopo aver fatto la voce grossa sugli stranieri che vengono a studiare nelle università d’elite e minacciato un’”aggressiva” stretta su quelli provenienti dalla Cina, Donald Trump incassa una nuova sconfitta in tribunale: nel giorno delle lauree di Harvard, l’ateneo bersaglio numero uno della campagna della Casa Bianca contro l’indipendenza del sistema accademico, la giudice di Boston Allison Burroughs ha nuovamente bloccato l’ordine dell’amministrazione che avrebbe cancellato i visti degli studenti internazionali dell’ateneo. (dal Quotidiano Nazionale)

Non resta che votarsi alla magistratura americana ed alla sua relativa e scomposta indipendenza: un monito per quanti in Italia stanno tentando di imbrigliare i giudici condizionandone l’autonomia. Berlusconi lo faceva con più eleganza, ma comunque il gattone, che andava al lardo, ci lasciò lo zampino. La rozzezza dei governanti attuali lascia ben sperare anche se picchia oggi picchia domani…