Se il ministro Nordio studiasse il pensiero penalistico di Aldo Moro

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato la costituzione di una task force per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Il Guardasigilli ha in mente di far uscire dalle carceri oltre 10.000 detenuti per destinarli a pene alternative. Una mossa a sorpresa che, di fatto, nel breve e medio periodo lo mette al sicuro dagli attacchi dell’opposizione che a più riprese ha chiesto le sue dimissioni.

Dopo un monitoraggio sulla situazione carceraria, il ministero guidato da Carlo Nordio ha reso noto che 10.105 detenuti in tutta Italia presentano una pena residua inferiore ai 24 mesi e non sono stati condannati per reati ostativi.

Si tratta, cioè, di quelli elencati all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, e non hanno subito sanzioni disciplinari gravi negli ultimi 12 mesi.

Si parla quindi di soggetti che, secondo la normativa vigente, potrebbero accedere a pene diverse dalla detenzione in carcere: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e sanzioni sostitutive previste dalla recente riforma Cartabia.

 Per coordinare questo processo, è stata istituita una task force che ha già avviato contatti con la magistratura di sorveglianza e con i direttori degli istituti penitenziari, con l’obiettivo di accelerare la valutazione delle singole posizioni.

Il gruppo si riunirà ogni settimana e dovrà concludere i lavori entro settembre 2025. La scelta del Ministero della Giustizia si inserisce in un quadro di riforma del sistema penale, che punta a rendere più efficaci le misure alternative, alleggerendo il carico sulle carceri.

Secondo gli ultimi dati, le carceri italiane ospitano oltre 61.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51.000 posti. Si parla di emergenza, ma il sovraffollamento, di fatto, è cronico.

Il tempismo con il quale da una maggioranza di destra arriva la decisione di scarcerare oltre 10.000 detenuti per destinarli a pene alternative fa alzare un’antenna a chi sospetta che si tratti anche di una mossa strategica per stemperare le polemiche.  (virgilio.it)

Voltaire, nel diciottesimo secolo, affermava: «Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». L’affermazione che uno stato democratico si giudica dal suo sistema carcerario è un tema di dibattito e riflessione. Sebbene non sia l’unico indicatore, il sistema carcerario riflette in modo significativo i valori e i principi di una società democratica, in particolare per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e il reinserimento sociale.

Un sistema carcerario che garantisce il rispetto della dignità umana, condizioni di vita dignitose, e programmi di riabilitazione e reinserimento sociale, può essere considerato un segno di uno stato democratico che pone al centro il valore della persona, anche di chi ha commesso reati. Al contrario, un sistema carcerario caratterizzato da sovraffollamento, violazioni dei diritti, e mancanza di programmi di riabilitazione, può essere indice di una società che non riesce a garantire i principi democratici fondamentali.

Temo purtroppo che l’approccio governativo al problema sia di carattere meramente contingente: una sorta di scolmatura della fetida pentola carceraria in cui succede di tutto. Politicamente parlando rischia di essere un contentino che non risolverà il problema delle carceri, ma lo sottrarrà alle ricorrenti e purtroppo inconcludenti polemiche.

Sempre meglio di niente, sono perfettamente d’accordo! Sorge però il dubbio che questa uscita nordiana serva a lui per sgattaiolare fuori dagli attacchi parlamentari subiti sul caso Almasri e sulla riforma della giustizia. Ecco perché senza buttare benzina sul fuoco, penso sia necessario comunque andare in profondità e lo faccio richiamando il pensiero di Aldo Moro tratto da “Il punto quotidiano-Albo scuole”.

Secondo Moro, lo Stato non deve solo preoccuparsi di punire chi ha commesso il reato, ma deve anche rivolgere lo sguardo all’avvenire applicando e svolgendo dei programmi e percorsi di prevenzione: “l’attenzione primaria verso ciò che è accaduto con il reato non vuole escludere che lo stato nel ricorrere alla pena debba rivolgere uno sguardo anche all’avvenire, e cioè alla prevenzione” e questo perché “l’intervento repressivo e quello preventivo” devono procedere insieme “avendo di mira, con diversità di mezzi, lo stesso fine generale che è la difesa della società”. Per Moro dunque la pena non deve significare far male per il male ricevuto, la pena non è la legge del taglione, ma è lo strumento per affermare valori fondamentali come il bene e la giustizia, per riportare la società dal disordine all’ordine. L’elemento che ha contraddistinto l’opera e il pensiero di Moro è sempre stata questa grande fiducia nell’uomo, uomo che tra il bene e il male può scegliere il bene. Scrive sul “Giorno” il 20 gennaio 1977: “Non dobbiamo forse ritenere che un momento di bontà, un impegno dell’uomo, dell’uomo interiore, di fronte alla lotta fra bene e male, serva per far andare innanzi la vita? Un impegno personale che non escluda, è ovvio, il necessario ed urgente dispiegarsi di iniziative sociali e politiche, ma lasci alle energie morali di fare, esse pure, nel profondo, la loro parte”. E ancora sullo stesso quotidiano, il 10 aprile, “La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e della speranza. E non parlo naturalmente solo di salvezza e di speranza religiose. Parlo, più in generale, di salvezza e di speranza umane che si dischiudono a tutti coloro che hanno buona volontà”. È forse proprio grazie agli insegnamenti di Aldo Moro se oggi vengono messi in atto percorsi riabilitativi per i carcerati. Per Moro, la giustizia deve essere contemporaneamente repressione, purificazione e rieducazione, essa è reazione ad un comportamento considerato socialmente da sanzionare e la definizione di una purificazione che possa consentire il rientro sociale della persona.

Di fronte a un gigantesco problema, come quello della carcerazione, non si può traccheggiare, giocare al rinvio, limitarsi a togliere un po’ di carne dal fuoco. Bisogna rifarsi al pensiero penalistico di un autentico gigante della scienza giuridica e della politica. Politici, parlamentari e ministri abbiano l’umiltà di rifarsi alla Costituzione e ad uno dei padri costituenti più autorevoli in materia. Noi – plurale maiestatis assai poco prestigioso e riferito a tanti, dai burattinai internazionali ai burattini brigatisti, dai perbenisti della politica ai coccodrilli di regime – l’abbiamo ucciso come un cane, lui ci continua a parlare di giustizia.