Usando, a contrariis, il vergognoso anche se legittimo linguaggio di Giorgia Meloni, in occasione dei prossimi referendum andrò al seggio, ritirerò le schede e voterò “sì”.
Gli argomenti a sostegno dell’abrogazione delle leggi in questione – vale a dire normative in materia di lavoro e di cittadinanza – mi sembrano convincenti, inoltre, come sempre inevitabilmente accade, i referendum assumono forti connotazioni politiche e quindi intendo contribuire a dare un messaggio estremamente critico verso l’attuale maggioranza che, manco a dirlo, è schierata per l’astensione.
Questo non significa che voterò “sì” solo per fare un dispetto a La Russa, Meloni, Tajani, Salvini e c., ma per dare un segnale di riscossa politica rispetto ad un andazzo inaccettabile, partendo dalle questioni del lavoro e dell’immigrazione.
Abbiamo celebrato – seppure in modo contraddittorio, in mezzo a parate militari degne di regimi non democratici, a mega-ricevimenti di dubbio gusto e fanfaronate varie – la festa della Repubblica che è fondata sul lavoro: i costituenti la sapevano lunga e quindi proviamo a tornare al loro senso istituzionale e politico, mettendo il lavoro al centro dell’attenzione, facendone un elemento di crescita e non di precarietà, di certezza e non di rischio, di uguaglianza e non di squilibrio.
Quanto al discorso dell’immigrazione, sforziamoci una buona volta di affrontarlo e impostarlo in modo positivo, offrendo possibilità di piena integrazione anziché brandire ad ogni piè sospinto le armi del respingimento e del rimpatrio.
Le regole sulla flessibilità del lavoro erano state introdotte dal governo Renzi con il rispettabile intento di togliere una serie di lacci e lacciuoli nella legislazione, che si riteneva rappresentassero un freno per lo sviluppo dell’occupazione: obiettivo fallito, perché non si può mercanteggiare, concedendo un lavoro a prezzo di sminuirne la dignità, la certezza e la sicurezza.
Vado quindi abbastanza convintamente alle urne: me lo chiedono le innumerevoli vittime di infortuni sul lavoro, i giovani condannati alla precarietà, i lavoratori a rischio del proprio posto di lavoro, gli stranieri che attendono di inserirsi a pieno titolo nella nostra società. Se questa è demagogia allora accetto la qualifica di demagogo.
Vado a votare per respirare finalmente una boccata di aria democratica in un Paese politicamente alla deriva, in un’Europa sempre più sovranista e inopinatamente collegata agli Usa da un filo nazionalista, in un mondo in guerra dove vige la legge del più forte, dove domina l’egoismo individuale e nazionale, dove si vive male e si muore ancor peggio. Se questa è poetica illusione allora mi sento onorato di ragionare sentimentalmente da poeta e di sfogliare e leggere testardamente il libro dei sogni democratici.