La rifondazione sentimentale

Il sempre più impellente e sconvolgente fenomeno dei femminicidi impone serie riflessioni a tutti, ma soprattutto richiede almeno l’inizio di un’azione di rifondazione culturale sulle macerie di una società che sta divorando le sue figlie.

Nel dibattito, che si apre ad ogni femminicidio sospinto, si scontrano sostanzialmente due tesi apparentemente in contrasto, vale a dire quella della prioritaria, se non addirittura esclusiva, riscoperta del ruolo dell’educazione scolastica orientata sulle relazioni sentimentali e sessuali e quella dell’irrinunciabile e fondamentale recupero del ruolo della famiglia nell’educazione giovanile attorno a cui fare ruotare l’intervento delle altre istituzioni a servizio delle giovani generazioni.

La prima impostazione parte dal presupposto del totale sfasciamento dell’istituto famigliare o quanto meno della sua inadeguatezza ad affrontare quella che ormai si profila come una vera e propria emergenza del nostro tempo; la seconda ritiene che, senza il rigoroso rispetto del ruolo famigliare, si possa finire col trasferire tutto nel freddo laboratorio educativo della scuola a scapito del caldo e problematico vissuto quotidiano.

Non vorrei che questo pur importantissimo dibattito finisse in una disputa simile a quella dei teologi bizantini i quali erano soliti discutere tra di loro sul sesso degli angeli, anche quando i Turchi di Maometto II stavano per espugnare Costantinopoli, ponendo fine all’impero romano d’Oriente.

Anche la politica oscilla fra le due suddette tesi: il governo di destra non crede nell’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole, non ci investe sopra risorse umane e finanziarie, la subordina al consenso genitoriale; a sinistra si punta tutto sulla scolarizzazione del problema e sul taumaturgico potere della scuola per mettere i giovani in una dimensione corretta dei rapporti maschio-femmina con una visione moderna e post-patriarcale della società.

Se devo essere sincero non mi rassegno alla insignificanza dell’istituto famigliare. Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi e tragici fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente? Aveva perfettamente ragione. Capisco che esercitare il “mestiere” di genitori non sia facile ed agevole: di qui a fregarsene altamente e delegare il ruolo educativo totalmente alla scuola…

Nello stesso tempo nutro grande fiducia nella scuola nonostante le sue lacune e i suoi difetti. Mio padre si era imposto una semplice ma non banale regola nei rapporti scuola-famiglia: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”.

Sbaglia quindi l’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito a subordinare l’introduzione dell’educazione sessuale al consenso dei genitori: ci puzza tanto di Dio-Patria-Famiglia, di paura verso una aperta e disincantata impostazione della sessualità e di un ritorno alla mera e rigorosa negazione delle diversità.

Però forse sbaglia anche chi dà per perso il ruolo della famiglia: ci puzza di esagerata laicità e schematicità nell’affrontare problemi educativi molto complessi.

Non voglio banalizzare il discorso, ma penso che gli adolescenti debbano sostanzialmente capire, tramite insegnamenti teorici e testimonianze di vita, che l’amore è una cosa seria. Le ragazze tengano conto che le esperienze sentimentali non sono un semplice flirt “usa e getta”, anche perché nella psicologia maschile esiste la tendenza contraria, vale a dire quella di considerare definitivi e imprescindibili i più precari rapporti e allora si può creare un corto circuito devastante.

I ragazzi imparino che la donna non è una preda, una persona di loro proprietà, che l’amore non è possesso ma dono, non è una conquista ma una ricerca.

I genitori dovrebbero avere questi concetti e valori nel loro Dna e nella loro esperienza esistenziale da trasmettere con l’esempio e la testimonianza; gli insegnanti dovrebbero fornire ai giovani gli elementi di conoscenza culturale e scientifica, una base su cui costruire un comportamento sano nella sua problematicità.

E la religione, siamo sicuri che non abbia niente da insegnare a tutti, giovani, genitori, ministri, uomini di cultura e professori?

Mio padre, non credente o diversamente credente, laico ma non anticlericale, accettava di buon grado che io da ragazzo frequentassi assiduamente la parrocchia. Faceva un ragionamento profondo anche se piuttosto minimalista: riteneva che da quell’ambiente potessi ricevere comunque insegnamenti buoni. Sì, infatti attualmente si sente molto la mancanza di questa sponda nell’educazione dei giovani, pur con tutti i limiti e i difetti che poteva avere.

La famiglia è in crisi profonda, la scuola è dequalificata, la parrocchia è ridotta ai minimi termini: rimangono i social e la discoteca. C’è paradossalmente persino da meravigliarsi che esistano tanti giovani che si dedicano al volontariato, che si battono per un mondo di pace e di solidarietà. Dedicarsi agli altri è un’ottima medicina per prevenire e curare le patologie psico-sociali delle persone, dei giovani in particolare.

Vogliamo provare a fare qualcosa al di là dei pianti dirotti a posteriori, che assomigliano sempre più allo spargimento di lacrime di coccodrillo?