La crisi della democrazia è ormai evidente anche nel suo principale baluardo degli ultimi decenni, gli Stati Uniti. Come accade anche altrove, infatti, viene qui oggi messo in discussione un principale fondamento: il diritto del popolo a scrivere le leggi con cui vuole essere governato. I numerosi executive orders emanati in pochi giorni dal presidente Trump hanno incrinato profondamente l’equilibrio tra i poteri esecutivo, legislativo, giudiziario. Quando un governo esonda dai suoi limiti, il primo che può reagire è il potere giudiziario, cui compete di far rispettare le leggi. (dal quotidiano Avvenire – Agostino Giovagnoli)
Parto da questa acuta osservazione per affrontare la tesa situazione dei rapporti in Italia fra governo e magistratura. Le analogie con la situazione americana si sprecano e anche nel nostro Paese i giudici sono spesso costretti ad intervenire in difesa della Costituzione sotto attacco da parte delle esondazioni legislative del governo Meloni.
Non passa giorno in cui i magistrati a qualche livello non facciano le pulci ai provvedimenti e ai comportamenti del governo: si pensi alla questione del vergognoso tira e molla del trasferimento in Albania degli immigrati su cui il governo ha imbastito un penoso braccio di ferro; lasciamo perdere per il momento l’affaire libico per il quale stiamo ad aspettare gli sviluppi a livello del tribunale dei ministri; ultimo per chi batte la inefficacia, sentenziata dalla Corte di Cassazione, dei test rapidi anti droga previsti dal nuovo codice della strada (un fiore all’occhiello del governo che viene messo parzialmente in discussione).
Non è questione di censura alle logiche politiche dell’attuale governo, ma di errata impostazione giuridica dei suoi provvedimenti. Possibile che un governo, in cui il ministro della Giustizia è un autorevole ex magistrato, in cui il sotto-segretario alla presidenza del consiglio (ben più di un semplice sottosegretario, ma l’eminenza grigia del governo) è esso pure un ex-magistrato, si faccia continuamente prendere in castagna dalla magistratura.
E non si tratta di piccoli formali incidenti di percorso, ma di svarioni sostanziali, che rischiano di annullare gli effetti di importanti ed emblematici provvedimenti di cui il governo si riempie la bocca.
Il governo, anziché fare saggi mea culpa e stare più attento nell’adottare delicate decisioni e nell’elaborare testi legislativi, la butta in guerra politica con la magistratura. Il procuratore Lo Voi ha notificato ad alcuni componenti del governo l’esistenza di un esposto che prefigura reati a loro carico relativamente alla nota vicenda Almasri e allora ecco pronto il dispetto: i consiglieri laici in quota centrodestra Isabella Bertolini, Claudia Eccher, Daniela Bianchini, Felice Giuffrè ed Enrico Aimi hanno chiesto al Csm di aprire una pratica in Prima commissione per l’avvio di una procedura di trasferimento dello stesso Lo Voi per incompatibilità ambientale-funzionale e di trasmettere gli atti alla Procura generale per la valutazione di eventuali illeciti disciplinari. Un affondo innescato dal caso di un documento con informazioni sul capo di Gabinetto della premier, trasmesso dagli 007 dell’Aisi alla Procura di Roma, ma poi incluso dalla stessa Procura in un insieme di atti inviati ai legali del quotidiano Domani, che l’ha pubblicato. Per i consiglieri, l’accaduto ha «seriamente compromesso i rapporti istituzionali tra la Procura di Roma e le Agenzie dell’intelligence». A loro dire, «risulta essere stato compromesso l’affidamento, da parte delle Agenzie, circa l’effettiva tutela del segreto degli atti trasmessi in Procura». Gli stessi consiglieri nei giorni scorsi avevano chiesto l’apertura di un’altra pratica su Lo Voi in relazione al caso Almasri. Mentre venerdì un consigliere indipendente, Andrea Mirenda, ha chiesto l’apertura di una pratica a tutela di Lo Voi, perché «irriso» dalla premier per il fascicolo aperto sulla liberazione del generale libico. (dal quotidiano “Avvenire”)
Stiamo sprofondando in una farsa tragica inerente i rapporti tra istituzioni dello Stato. Sullo sfondo si gioca però la vera partita della battaglia identitaria della riforma della giustizia, in particolare sulla separazione delle carriere. Le scaramucce servono al governo per drammatizzare i rapporti in modo da rendere inevitabili i contenuti di una riforma molto discutibile nel merito e nelle intenzioni.
Qui, a mio giudizio, la magistratura compie un grave errore, vale a dire quello di farsi trascinare nella polemica sulla riforma della giustizia, lasciando il dubbio di volere più difendere le proprie posizioni di potere piuttosto che l’autonomia della magistratura. Non nego che la politica intenda riportare impropriamente la giustizia sotto il controllo del potere esecutivo (è uno dei punti della deriva populista in atto in parecchi Stati), ma impuntarsi aprioristicamente ed in modo barricadiero non giova a nessuno. La magistratura ha tutto il diritto di esprimere nelle sedi competenti il proprio parere sulla riforma in questione, ma non può svolgere un ruolo di autentica opposizione politica che spetta alle minoranze parlamentari, né arrogarsi preventivamente il diritto di vagliare le norme dal punto di vista costituzionale invadendo il ruolo del Parlamento stesso e del presidente della Repubblica.
Sergio Mattarella ha spesso invitato tutti a rimanere nei limiti delle proprie funzioni e competenze e a dialogare seriamente: non viene ascoltato, tutti assentono salvo continuare nelle loro misere strumentali diatribe.
Per il governo la riforma della giustizia è diventata una guerra di sopravvivenza identitaria, visto che gli altri due provvedimenti costituzionali, vale a dire le autonomie regionali differenziate e rafforzate nonché il premierato, stanno implodendo sotto i colpi ante-referendari della Corte Costituzionale il primo, il secondo per effetto della corretta e leale forza dissuasiva impersonificata da Sergio Mattarella e dal suo consenso popolare.
E allora via con la guerra ai magistrati! Sarò ingenuo, ma mi sembra un azzardo pazzesco già peraltro tentato da Silvio Berlusconi che, dopo tanto rumore, finì ai servizi sociali. Quando Giorgia Meloni afferma di non essere ricattabile, probabilmente si vuole distinguere dal berlusconismo e dalle sue code di paglia: posso concederle di essere assai meno impastoiata in conflitti d’interesse e in comportamenti personali sui generis, ma “qualcosina” da nascondere ce l’ha (famigliari e amici un po’ troppo collocati nelle stanze del potere) e ha intorno personaggi come Daniela Santanché e Ignazio La Russa che non le fanno onore.
Quanto alla separazione delle carriere dei magistrati i casi sono due: o si tratta di uno specchietto per le allodole, vale a dire un falso problema soltanto allusivo a quelli veri dell’autonomia e della funzionalità del sistema giudiziario, oppure è effettivamente il preludio ad un’opera inquietante di subdolo attacco al sistema istituzionale.
Nel primo caso non capisco e, se capisco, non condivido la lumacosa reazione dei magistrati, che dovrebbero aprire la porta, contro cui spinge violentemente il governo, per scoprirne le vere intenzioni e si dovrebbero semmai risparmiare per il secondo caso, vale a dire per combattere la vera guerra, quella della difesa dell’autonomia del potere giudiziario e dell’ordinamento democratico, nei modi e nei tempi previsti dalla Costituzione e dalla legislazione nel suo complesso, continuando a svolgere i loro compiti senza farsi trascinare in stucchevoli polemiche.