Dallo smarrimento alla disperazione

Ergastolo. Alessia Pifferi è stata condannata al massimo della pena per l’omicidio della figlia Diana di un anno e mezzo, lasciata a casa da sola per sei giorni e morta di stenti. Lo ha stabilito la Corte di Assise di Milano, accogliendo la richiesta del pm Francesco De Tommasi. “È un dolore atroce”, ha commentato la mamma di Pifferi, Maria Assandri, subito dopo la lettura del dispositivo. “Si è dimenticata di essere una madre. Deve pagare per quel che ha fatto. Se si fosse pentita e avesse chiesto scusa… Ma non l’ha fatto”. (Ansa.it) 

Mia madre era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’ à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Provo ad immaginare la sofferta reazione che mia madre avrebbe avuto alla condanna all’ergastolo di Alessia Pifferi: dopo essere inorridita di fronte al crimine, avrebbe sicuramente concluso che questa donna non poteva essere nel pieno delle sue facoltà mentali quando lo ha commesso.

Sono d’accordo con questo ipotetico parere. Ho letto il resoconto giornalistico dell’interrogatorio dell’imputata: un miscuglio di situazioni psicologiche e sociali paradossali e inconcepibili.  Capisco l’esigenza di fare giustizia, ma avremo fatto giustizia?

Non era meglio trovare una formula di condanna che desse a questa persona la possibilità, oserei dire il dovere di ravvedersi? Non voglio fare la parte di chi scarica sulla società le responsabilità dei crimini, ma certamente questa donna ha vissuto tutte le possibili contraddizioni a livello di sessualità, maternità, famiglia, etc. etc. La sua deposizione sembra un trattato sull’alienazione psicologica e sociale: una zeppa di problemi risolti nel peggiore dei modi e con l’omertosa indifferenza delle persone direttamente o indirettamente coinvolte nella vicenda.

Si tratta di un caso che dovrebbe fare riflettere al di fuori di ogni e qualsiasi vendicativa soddisfazione.  Proprio il fatto che, come sostiene la madre dell’imputata, la Pifferi non abbia dato segni di ravvedimento, secondo il mio modestissimo parere, dimostra che questa persona non è normale e non può essere sbattuta in carcere per tutta la vita, in attesa magari che possa suicidarsi o che si abbruttisca del tutto. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile. (Aldo Moro, Lezione alla Facoltà di Scienze politiche, Roma, 1976). Chiediamoci se, a maggior ragione, l’ergastolo abbia senso per una persona totalmente smarrita.

Sono rimasto colpito e confesso di provare grande pena per Alessia Pifferi, forse una pena maggiore di quella provata per la sua figlioletta. Mi interrogo sul come sia possibile arrivare a tanta incredibile disumanità da parte di una madre. C’è qualcosa che non mi torna, che mi sfugge, che mi sconvolge.

Mi auguro che almeno ci sia qualcuno che non la giudichi come anch’io non la giudico (più giudicata e condannata di così…) e le dica qualche parola buona, A volte una parola buona può fare molto di più di tanti anni passati in carcere. Spero che le sue compagne di cella non finiscano per isolarla e distruggerla.

Dio dice con la voce del profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non ti dimenticherò mai». Ebbene sono sicuro che Dio non si sarà dimenticato della piccola Diana, ma non si dimenticherà nemmeno di Alessia.