Ricordo con piacere di avere conosciuto un intelligente ed impegnato sacerdote gesuita che teneva un atteggiamento intransigente di fronte ai disturbatori delle messe (quelli che chiacchierano e lasciano vociare e scorrazzare i loro bambini), ai lettori improvvisati (quelli che leggono la Parola di Dio come se scorressero un giornale), a tutti coloro che ostentavano comportamenti censurabili (pose sconvenienti, ritardi, fughe anticipate, etc. etc.). Un giorno provai a capire meglio questa severità e mi venne risposto che un sacerdote deve difendere la serietà ed autenticità della messa dagli attacchi dei pressapochisti di turno. Me ne sono ricordato leggendo la notizia di cui sotto.
I fedeli che domenica mattina stavano assistendo, nel Duomo di Torino, alla Santa Messa celebrata dall’arcivescovo, monsignor Roberto Repole, sono stati testimoni di un’azione a opera di un gruppo di attiviste di Extinction Rebellion, il movimento ambientalista globale noto per iniziative di sostegno alla causa climatica attraverso manifestazioni di disobbedienza civile eclatanti, come i blocchi del traffico o l’imbrattamento di monumenti. Questa volta, però, ad essere interrotta è stata una funzione religiosa. Le attiviste si sono confuse tra i fedeli tra i banchi del Duomo di Torino, poi, prima che monsignor Repole iniziasse l’omelia, si sono alzate in piedi e, a una a una, hanno letto alcuni passi dell’enciclica “Laudato sì” e dell’esortazione apostolica “Laudate Deum”.
L’arcivescovo le ha lasciate parlare. Ma ha stigmatizzato l’accaduto. «Ho grande stima per chi si mobilita per la difesa del Creato e accoglie gli appelli di Papa Francesco, apprezzo l’impegno in questo senso delle attiviste di Extinction Rebellion, ma mi è dispiaciuto che abbiano ritenuto di prendere la parola in Duomo senza prima volermene parlare e chiedere se potevano intervenire – ha detto monsignor Repole -. Avrei risposto che a Messa si prega spesso per la pace e per la salvaguardia del Creato, ma la celebrazione eucaristica non è un momento idoneo a ospitare interventi pubblici: ho inizialmente lasciato che le attiviste parlassero; poi ho chiesto che terminassero perché la Messa è un momento di preghiera e in quanto tale dev’essere rispettata, anche e soprattutto da coloro che dichiarano di voler operare nel rispetto di tutti». (dal quotidiano “Avvenire”)
Non ho trovato alcuna analogia tra la sacrosanta intransigenza del padre gesuita di cui sopra e la piccata insofferenza del vescovo di Torino. La messa non è una parodia a cui assistere distrattamente, ma non è nemmeno un rito asettico e sganciato dalla realtà. Introdurre nel contesto liturgico forti richiami ai problemi sociali, forti provocazioni alla comunità orante non mi pare sconveniente e dissacrante. Anzi! Non si disturba la preghiera se la si colloca in un contesto aperto ai problemi sociali. Quanta genericità nelle intenzioni della preghiera dei fedeli, snocciolate in un bla-bla routinario! Ben vengano intenzioni che scuotano le coscienze e invitino alla riflessione.
L’occasione è propizia per parlare un po’ di liturgia. Lo faccio in un periodo di snocciolamento liturgico nel periodo natalizio, in contrasto con i solti spettacolari ambaradan vaticani, alla luce degli insegnamenti del caro ed indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, che non aveva paura di aprire la liturgia alla vita, ma temeva al contrario di farne una occasione routinaria, un rito formale e pappagallesco, lontano dai drammi e dalle tragedie della vita concreta.
Innanzitutto riusciva a creare un palpabile clima di familiarità fatto di piccoli atteggiamenti capaci però di integrare tutti nella comunità: il saluto ad personam dell’accoglienza e del congedo, il buongiorno iniziale (ne ha tutto intero il diritto d’autore, il papa lo ha adottato anni e anni dopo), l’applauso alla Parola di Dio, il Padre Nostro recitato mano nella mano e motivato dalle ansie ecclesiali, mondiali e locali, i ragazzi stretti intorno all’altare a leggere con lui una parte del canone e ad innalzare assieme a lui il pane ed il vino dopo la consacrazione, l’omelia intensa e calata nella vita, il chiamare per nome le persone per farle partecipare e coinvolgerle, il chiedere continuamente adesione e condivisione, invitare l’assemblea a ripetere, anche più volte e ad alta voce, le frasi evangeliche più significative, la presenza attiva come ministranti degli immigrati ospiti della casa di accoglienza, la forte connotazione femminile dell’assemblea (mancava solo la ciliegina sulla torta, l’atto finale del sacerdozio per le donne, che non dimenticava mai di auspicare). Tutto serviva a sgelare, a “sgessare” la ritualità, riconducendola alla spontaneità: si trattava del coraggio di fondere il sacro con la vita.
Quando durante le celebrazioni entrava in chiesa qualcuno, veniva immediatamente invitato a partecipare o, in caso negativo, ad uscire: poteva sembrare un gesto di scortesia, di esagerato rispetto alla liturgia, di presuntuoso giudizio sul devozionismo altrui. No, c’era il coraggio appunto di fondere il sacro con la vita (non con il profano come qualcuno malignamente pensava…). La partecipazione non è mai troppa!
I gesti erano genialmente ed immediatamente allargati dal loro religioso simbolismo all’impatto esistenziale. Se, pertanto, fare politica in chiesa vuol dire affermarne la laicità ed auspicare l’ancoraggio ai valori di giustizia, uguaglianza e solidarietà, don Scaccaglia faceva politica. Provocazioni continue?! Sì, fatte in stile evangelico, in nome del più grande provocatore della storia, Gesù Cristo.
Purtroppo la concezione liturgica di don Scaccaglia fu tenuta sempre, più o meno, nel mirino episcopale, clericale e bigotto. Qualche volta il vescovo, in qualità di commissario ispettore più che di padre incoraggiatore, venne a verificare di soppiatto, tenendosi in disparte quasi per la paura di contaminarsi, cosa succedeva in quella chiesa zeppa di eretici, chissà cosa gli riferivano i benpensanti sulle “intemperanze” di questo prete. Non piacevano certe “genialità”, ci si scandalizzava. Più volte fortunatamente registrai anche la reazione opposta, vale a dire di persone che venivano a curiosare e non trovavano nulla da ridire, anzi, si stupivano dello stupore… Lo sciocchezzaio imbastito contro don Scaccaglia si serviva, in modo oserei dire sacrilego, anche della messa. «Quelle non sono messe, sono comizi politici…» diceva qualcuno. Paradossalmente parlando, meglio una messa-comizio di una messa-dormitorio.
Siamo ancora lì a disquisire sulla liturgia. E poi ci chiediamo perché sempre meno persone partecipano all’Eucaristia. Teniamo rigorosamente le messe in freezer e poi vorremmo che i credenti fossero reattivi e pronti all’impegno. La messa non è solo preghiera, ma è sorgente, centro e culmine della vita cristiana a livello personale e comunitario. Oltre tutto mi piacerebbe sapere cosa penserà papa Francesco dell’atteggiamento episcopale, che ritiene le parole contenute nella Laudato si’ e nella Laudate Deum inopportunamente inserite nel contesto eucaristico. Interventi pubblici, comizi papali? Ma fatemi il piacere… Forse varrebbe la pena di cambiare la frase di congedo: “La messa non è finita, andate e mettete tutto in discussione alla luce del Vangelo”.