Un sofferto no al cinico rigore dell’etica

Non capisco, e se capisco non accetto, la viscerale e dogmatica avversione cattolica al suicidio assistito: sembra basarsi sul cinico presupposto che si tratti di una capricciosa e volubile smania di rinunciare a vivere. Nell’affrontare questo problema si parte farisaicamente dalle fredde regole, trascurando i drammi umani e le sofferenze indicibili che stanno a monte.

Si tende ad enfatizzare la necessità che il sistema sanitario ed assistenziale supporti adeguatamente le persone imprigionate nel dolore senza fine e senza sbocco. Fin qui niente da dire: è il minimo che una società civile possa prevedere e garantire, cosa che peraltro non sta avvenendo se non in misura chiaramente insufficiente.

Se questo aiuto non arriva sul piano sociale e morale oppure se non è oggettivamente sufficiente a garantire una dignitosa esistenza oppure se, nonostante tutto, il soggetto non se la sente di proseguire la propria esistenza, cosa si deve fare? Lo inchiodiamo, in nome di un astratto principio di rispetto per la vita, in un letto, o comunque in una situazione di estreme sofferenze, in una disperata agonia in attesa della morte naturale, che magari arriverà con enorme e insopportabile ritardo?

Non sarà meglio prevedere una uscita di sicurezza dal macabro teatro della disperazione, non certo una scappatoia di comodo, ma nemmeno un calvario aggiuntivo fatto di accanimento burocratico che si aggiunga a quello terapeutico?

Riporto di seguito la posizione, rispettabile (mancherebbe altro…) di chi affronta il tema in modo intransigente, schematico e generico. Beati loro che di fronte a situazioni così drammatiche ostentano certezze. Personalmente ho tanti dubbi, perché ho troppo rispetto per la vita e la sofferenza altrui e non mi sento di sfrugugliare dentro di esse, ma preferisco, costi quel che costi, agevolare risposte concrete e liberanti.

«Chi si assumerà la responsabilità di stravolgere il senso del Servizio Sanitario nel nostro Paese? Chi ha deciso di arrendersi alla cultura di morte che l’Associazione Luca Coscioni sta seminando in ogni regione italiana?». Se lo chiede in una “lettera-diffida” indirizzata ai presidenti delle Regioni Friuli-Venezia Giulia e del Veneto “Ditelo sui tetti”, il network di cento associazioni laicali impegnato nella tutela della vita umana e della sua dignità, contro ogni forma di morte a richiesta (https://www.suitetti.org/2023/10/12/fine-vita-lettera-aperta-alle-regioni-e-al-governo/). «Nella lettera – spiega il coordinatore del network associativo Domenico Menorello – si denuncia che i più recenti casi di autorizzazione al suicidio assistito in Veneto e in Friuli-Venezia Giulia violano gli stessi parametri dettati dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019 (quella sul caso del suicidio in Svizzera di dj Fabo con l’aiuto di Marco Cappato), perché si dilata il concetto di “sostegno vitale” fino ad allargarlo a farmaci ordinari o addirittura alla semplice assistenza. Inoltre, la Coscioni sta mutando il profilo della sua azione: non casi urgenti e drammatici ma richieste di avere una sorta di “patente” per andare a morire negli ospedali pubblici, quando ciascuno deciderà».
«Il portato di questa azione, che viene ormai portata in molte aziende sanitarie italiane – si legge nella lettera aperta – sta snaturando le istituzioni sanitarie, che si vogliono vedere trasformate in potentissimi moltiplicatori di messaggi di disvalore verso i più fragili». Questi «percepiranno un abbandono fino a ritenersi in dovere di “andarsene”, come ammoniva la fondatrice degli hospice madame Cicely Saunders a proposito di forme più o meno edulcorate di eutanasia». La Costituzione e il Servizio sanitario nazionale, conclude la nota di “Sui tetti”, hanno come scopo l’avere cura di ogni persona, in qualsiasi condizione sia, il che imporrebbe piuttosto di organizzare, finalmente, servizi di assistenza a chi soffre h24 e di potenziare le terapie del dolore, che raggiungono ancora una inaccettabile percentuale di popolazione, così calpestando diritti alla cura che la stessa Corte Costituzionale ha definito essenziali». (dal quotidiano “Avvenire”)

Sono letteralmente rabbrividito di fronte a questa logica stravolgente, che si nasconde dietro la Costituzione e il Servizio sanitario nazionale per parare i colpi provenienti da un problema drammatico, che interpella le coscienze non per tacitarle in nome di principi astratti, ma per scuoterle nell’impegno a garantire il rispetto dovuto ad ogni persona, soprattutto alla persona che soffre e chiede umilmente di interromper le sue sofferenze. Non temo di definire cinismo etico quello di chi pontifica, specula e disquisisce sulla pelle di coloro che intendono interrompere la propria disperata esistenza. Non si combatte il rischio di perdere i valori trasformandoli in un astratto e fuorviante totem a cui legare la mente a prescindere dal cuore.

Non mi interessa più di tanto se le normative dovessero esagerare nelle possibilità di accedere al cosiddetto suicidio assistito. Rispondo paradossalmente: “Melius est abundare quam deficere”. Il legislatore deve approntare la miglior normativa possibile in senso doppiamente garantista, le strutture sanitarie ed assistenziali devono prevenire, accompagnare, alleviare comunque le sofferenze, i signornò, provenienti soprattutto dalle file cattoliche, si impegnino a livello di volontariato a dare concreto aiuto alle persone che viaggiano sull’orlo del suicidio.

Come spesso, non so dire se purtroppo o fortunatamente, accade, la gerarchia cattolica dimostra maggiore, anche se troppo contenuta, sensibilità rispetto ad un laicato clericaleggiante ed in cerca di certezze più teologiche che evangeliche. Ecco perché, pur non condividendone la reticenza ad andare fino in fondo, mi sento in dovere di riportare la riflessione di monsignor Gianfranco De Luca, vescovo di Termoli, sulla morte in Svizzera con suicidio assistito di un quarantenne tetraplegico, giornalisticamente sintetizzata con un “non possiamo tirarci indietro di fronte al dolore e alla sofferenza”.

Bisogna «accompagnare il malato non solo con il sollievo del dolore e della sofferenza fisica, che naturalmente deve venire prima, ma anche con un sostegno globale per il malato nella sua dimensione fisica, psicologica, sociale, familiare, spirituale ed economica». La ferita riaperta dal suicidio di Davide è «la solitudine dei malati» che è «spesso anche la solitudine di coloro che li assistono e dei propri cari che manifestano con grande sofferenza tutta la loro impotenza». L’appello alla «società in generale» e alla «comunità cristiana, in particolare» è «diventare una vera comunità sanante, dove si dia voce a tutta la centralità delle relazioni interpersonali, evidenziata dall’antropologia contemporanea ma non sufficientemente praticata negli attuali processi di cura e assistenza».
La tragedia del quarantenne tetraplegico – «il caro fratello Davide», come lo chiama monsignor De Luca – «ci provoca e ci interpella riguardo a una realtà dolorosa di fronte alla quale il nostro territorio, in particolare, mostra gravi carenze e sollecita tutti, livelli istituzionali, associativi e ogni singola realtà attiva in ambiti assistenziali, a prendere seriamente in considerazione la promozione di strutture che sostengano ammalati e familiari, per mostrare concreta condivisione e dare loro speranza e fiducia». (dal quotidiano “Avvenire”)

Sono perfettamente d’accordo nel non tirarsi indietro di fronte al dolore e alla sofferenza, ma proprio per questo vale quanto affermava don Andrea Gallo a proposito dei malati terminali: «Sulla base di una scelta chiara e consapevole della persona interessata, bisogna rispettare il suo diritto alla non sofferenza, a un minimo di dignità in ciò che rimane della vita. Ogni caso ha una sua trama e una valutazione diversa».