Scommettiamo che…

Ma il calcio non ero uno sport? E lo sport non era una palestra per esercitare le virtù? Ai giovani non si consigliava di fare attività sportiva per stare lontano dalle brutte tentazioni? Tutte queste domande suonano quali imbarazzanti e satiriche denunce di un mondo malato in cui lo sport, e soprattutto il calcio, non è indenne da tutte le più gravi malattie.

Girano troppi soldi e siccome i soldi, fino a prova contraria, sono lo sterco del diavolo, abbiamo a che fare con un caleidoscopio di mali sempre più largo ed avvolgente: loschi affari, bilanci truccati, stipendi pazzeschi, ingaggi poco trasparenti, operatori senza scrupoli, partite truccate, evasioni fiscali, scommesse più o meno clandestine e adesso anche calciatori ludopatici in cerca di riscatto a cui ben si attaglia il detto parmigiano “a ozlén ingordi ag crépa al gòz”.

Non so fino a che punto il fenomeno calcistico potrà resistere, forse stiamo toccando il fondo del barile e forse non ce ne stiamo accorgendo a giudicare dagli stadi stracolmi e dall’interesse maniacale che le competizioni riescono ancora a scatenare.

Non voglio criminalizzare i pochi o tanti calciatori dediti alle scommesse, che, mi si dice, non significano automaticamente partite truccate, ma soltanto una contraddizione inaccettabile regolamenti alla mano. Sì perché il trucco è globale, c’è e si vede sempre di più.

Mia madre riprenderebbe le sue ingenue esclamazioni di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”.  Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche cedimento ha cominciato a verificarsi.

Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

Probabilmente oggi come oggi non prenderebbe più tempo fino al successivo turno di campionato, ma si troverebbe costretto ad affermare sconsolatamente: “Adésa n’in parlèmma pu”. Invece tutto prosegue come se niente fosse, fino al prossimo scandalo da archiviare sbrigativamente. Lo spettacolo deve continuare.