Il Sinodo non è un parlamento né una dogana. Lo ha ripetuto più volte questa mattina il Papa, nella Messa che nel giorno di San Francesco, 4 ottobre, ha aperto il Sinodo dei vescovi, cui partecipano con diritto di voto anche altri componenti del Popolo di Dio. E nel pomeriggio lo ha ribadito anche nel discorso rivolto ai padri sinodali riuniti nell’Aula Paolo VI.
Francesco ha insistito sul fatto che non si deve guardare a questa assise come a un luogo di scontro su questo o quel problema (“aprire certe porte”, ha aggiunto a braccio), ma come un camminare insieme per mettersi in ascolto di Dio). “Siamo all’apertura dell’Assemblea Sinodale – ha ricordato -. E non ci serve uno sguardo immanente, fatto di strategie umane, calcoli politici o battaglie ideologiche. Non siamo qui per portare avanti una riunione parlamentare o un piano di riforme. No. Siamo qui per camminare insieme con lo sguardo di Gesù, che benedice il Padre e accoglie quanti sono affaticati e oppressi. Partiamo dunque dallo sguardo di Gesù, che è uno sguardo benedicente e accogliente”. (dal quotidiano “Avvenire”)
Sono d’accordo fino ad un certo punto, come spesso mi accade rispetto ai pronunciamenti della gerarchia cattolica. Che nella Chiesa non ci debba essere una trasposizione meccanica dei modelli di organizzazione della società civile è un fatto indiscutibile: guai se la Chiesa scopiazzasse la politica, d’altra parte l’invito evangelico è ad essere nel mondo, ma non del mondo. Di schemi in ambito ecclesiale ne esistono anche troppi (la struttura gerarchica, come dice lo stesso papa Francesco, puzza di clericalismo e di potere), non vale senz’altro la pena di aggiungerne altri.
Mi permetto però di porre provocatoriamente una questione: quando si vuole difendere o almeno scusare gli atteggiamenti e i comportamenti sbagliati si dice che in fin dei conti la Chiesa è fatta da uomini, che, come tali, possono combinare disastri; il discorso vale in negativo, ma dovrebbe valere anche in positivo, cioè nel senso di ammettere certi modi di essere molto umani, che potrebbero essere utili alla Chiesa. Mi riferisco, tanto per sintetizzare, ai criteri e alle procedure di carattere democratico, che a mio giudizio non vanno scartate a priori in ambito ecclesiale.
Non si può negare che nella Chiesa, soprattutto a livello di gerarchia, esistano diverse correnti di pensiero, diverse opinioni in materia teologica e pastorale, diverse sensibilità sociali: non sarebbe meglio, anziché nasconderle e relegarle a trame ordite nell’ombra, dare ad esse piena e legittima rappresentanza al fine di conoscerle nel merito, pesarle nel consenso e toglierle da un comodo anonimato. Probabilmente il tutto non può essere risolto nella contrapposizione tra progressisti e conservatori, anche se nella vita della Chiesa emerge spesso questo contrasto tra, da una parte, gli inossidabili legami con la tradizione, che spesso diventano immobilismo, e, dall’altra parte, le forti aperture ai segni dei tempi ed al dialogo col mondo contemporaneo, che può diventare, non lo nego, fuga in avanti. La trasparenza sarebbe una gran bella cosa, togliendo la curialesca sordina al dibattito per discutere e confrontarsi apertamente per il bene di tutta la Chiesa. Non una finta discussione all’insegna del vogliamoci bene, ma un vero e coraggioso confronto da cui far scaturire scelte decisive, adottate tenendo conto delle maggioranze e delle minoranze non pregiudiziali, ma formatesi sulle singole questioni. Che paura c’è? Non abbiamo lo Spirito Santo che fa da garante?
E veniamo alle nomine. Tutto viene calato dall’alto in un assordante silenzio. Non si capisce chi nomina i vescovi e in base a quali criteri. Non certamente tenendo conto degli umori e delle preferenze del popolo di Dio. I vescovi vengono considerati ed accettati, obtorto collo, come commissari dal laicato e come capi-ufficio dal clero. Un mio carissimo amico, cattolico fervente e praticante, subordinava la sua adesione alla vita della comunità diocesana alla possibilità di poter votare all’atto della nomina di un vescovo. Non aveva tutti i torti, anche alla luce della storia antica della Chiesa.
E le carriere ecclesiastiche? Quando il nostro parroco fu trasferito in quel di Langhirano con i soliti metodi inaccettabili, quasi i sacerdoti fossero dei pacchi postali da mandare a destra e manca, mia sorella Lucia non seppe resistere alla tentazione di reagire in modo nettamente polemico rispetto al solito inaccettabile andazzo. Agli attacchi verso la Curia si sentì rispondere dall’allora potente vicario generale della diocesi: «Nella Chiesa non ci devono essere problemi di carriera…». Al che mia sorella, che non aveva peli sulla lingua ribatté: «Sì certo, ma il caso vuole che lei abbia fatto carriera, mentre il nostro parroco lo avete spedito in fretta e furia in periferia a farsi il mazzo…». Tutto avviene nelle segrete stanze vaticane e diocesane, molto spesso alla faccia della preparazione, della competenza e dei meriti. In questo la Chiesa non si fa scrupolo di assomigliare alla politica.
In buona sostanza manca la partecipazione un po’ di tutte le componenti, laicato in primis, al dibattito e alle scelte, con effetti deleteri sull’impegno e sul senso di responsabilità dei membri della comunità. Non si vogliono adottare gli schemi democratici e si finisce con l’adottare quelli aristocratici (signori cardinali), oligarchici (curia romana) se non addirittura autoritari (papa e vescovi che decidono per tutti).
Come sopra riportato, papa Francesco ha insistito sul fatto che non si deve guardare al sinodo come a un luogo di scontro su questo o quel problema, ma come un camminare insieme per mettersi in ascolto di Dio. Ascoltiamo pure Dio, leggiamo soprattutto il Vangelo, ma poi dovremo anche affrontare i problemi, fare delle scelte pastorali, guardare avanti verso una Chiesa aperta a tutti. Questo il papa lo ripete all’infinito.
Aperta a tutti! Come mio zio!? Lavorava e viveva in quel di Genova, quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo, ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».
Resto in ambito famigliare e ritorno a braccetto con mia sorella Lucia. Nella sua implacabile schiettezza, non sopportava i grilloparlanteschi atteggiamenti della gerarchia cattolica nelle sue varie espressioni centrali e periferiche, volti ad esprimere forti e generiche critiche ai politici, con cui peraltro non era affatto tenera. Rinviava però al mittente parecchi rilievi: “Sarebbe molto meglio che si guardassero loro, che ne fanno di tutti i colori, anziché scandalizzarsi delle malefatte delle persone impegnate in politica”. Aggiungo una considerazione, che forse sarebbe piaciuta a mia sorella: la Chiesa non esorcizzi la politica e soprattutto la democrazia, prenda il buono dalla politica democratica e lasci perdere la cattiva politica che ha già dentro di sé.