Quando si ammazza una persona, non si ammazza solo l’uomo, ma quello che rappresenta. Don Giovanni Minzoni, dopo la Prima guerra mondiale in cui opera come cappellano militare, poi medagliato, ritorna ad Argenta come arciprete. Ma non è un sacerdote come gli altri. Interpreta il clima storico, politico e sociale non solo attraverso la sua fede, ma opera nel concreto di quel contesto sociale, ponendosi due obiettivi: l’organizzazione educativa dei ragazzi, di cui sono testimonianza le sue realizzazioni di quegli anni – il doposcuola, la biblioteca circolante, il teatro parrocchiale, i circoli maschile e femminile, le due sezioni scout – e quella sociale dei lavoratori, tesa a diffondere la pratica cooperativistica di ispirazione cattolica sia tra i braccianti sia tra le operaie del laboratorio di maglieria. (Paolo Papotti – Patria indipendente)
Chi sia don Luigi Ciotti lo sanno tutti, in Italia e all’estero. Che cosa abbia rappresentato per la lotta alle mafie, per i familiari delle vittime innocenti, per l’educazione alla legalità è testimoniato da decine di associazioni, migliaia di persone, semplici cittadini, magistrati, professionisti, politici, giornalisti, parlamentari. Don Ciotti può essere studiato da tanti punti di vista, tutti giusti, ma tutti parziali, perché egli è, innanzitutto e soprattutto, un prete. Un prete, costretto a vivere sotto scorta, perché ha preso terribilmente sul serio il comandamento di Gesù di amare il prossimo, concretamente, sporcandosi le mani, là dove si trova, nelle condizioni in cui si trova, correndo il rischio di essere insultato, vilipeso, ucciso. Per liberarlo dai legacci insidiosi che lo tengono prigioniero, rimetterlo in piedi, aiutarlo a essere libero. (Maurizio Patriciello – Avvenire).
Mi si dirà che l’accostamento fra questi due preti della storia italiana sia sproporzionato: don Ciotti non è stato ammazzato. Le parole però sono come spade, possono uccidere. Penso che quelle irripetibili pronunciate dal ministro Matteo Salvini siano tali. Possibile che si stia arrivando a tanto per difendere l’indifendibile progetto della costruzione del ponte sullo stretto di Messina? Possibile che il popolo italiano sopporti un simile scempio etico-culturale prima che politico? Possibile che il linguaggio e i metodi di questa squadraccia governativa non induca gli italiani a reagire? Don Ciotti non ha bisogno di solidarietà, è l’Italia che ha bisogno dell’impegno civile e sociale di don Ciotti. E non mi si venga a dire che non abbiamo il neofascismo dietro l’angolo: cosa aspettiamo a rendercene conto?
Non si deve solo dire eticamente che il ponte sullo stretto rischia di collegare due cosche anziché due coste, si deve avere il coraggio di affermare politicamente che la destra italiana al governo sta rischiando di collegare due fascismi, quello del ventennio del novecento con quello altrettanto pericoloso del quinquennio in corso. Speriamo che qualcuno lo interrompa o che almeno non lo faccia durare oltre.