Il costume di pietà della contessa Rai

Nel primo anniversario del terremoto nel Centro-Italia, che purtroppo ha coinciso con il terremoto di Ischia, si è scatenata un’autentica sarabanda commemorativa promossa soprattutto dalla Rai. Non so quale sia stato l’effetto sui terremotati e non ho idea quale possa essere stato quello sull’opinione pubblica. Personalmente ho vissuto queste occasioni in modo molto distaccato, quasi, paradossalmente, con fastidio: questo per diversi motivi.

Innanzitutto il pesante bagno mediatico ha prodotto solo una vuota e formale risposta all’insistente grido delle vittime sopravvissute al cataclisma: “Non lasciateci soli, non dimenticatevi di noi”. Durante queste trasmissioni mi sembrava di essere in quei crocchi di persone che durante i funerali fanno quattro chiacchiere in ricordo del morto: tutto solo ed esclusivamente per poter dire io c’ero.

In secondo luogo parlare, parlare, parlare, non vuol dire essere attenti e ancor meno condividere, ma solo, come sosteneva il caro amico Gian Piero Rubiconi nei suoi “sparpagliati pensierini”, dare libero sfogo ai ciarlatani del ricordo, agli sciacalli   che si avventano sulla morte degli altri per lucrare da essa qualche riflesso che illumini la propria scialba esistenza.

In terzo luogo la Rai sta passando da un’estremità all’altra: un tempo l’ingessatura dei programmi era tale da non lasciare spazio nemmeno ai terremoti, ora i terremoti diventano il leit motiv dei palinsesti. Il perbenismo dilaga persino nella pubblicità inondata da messaggi a favore delle organizzazioni che combattono la fame e la miseria nel mondo (basta un sms, dicono queste promozioni). Tutto ciò assume il sapore di una riverniciatina di coscienza che lascia il tempo che trova. Nell’opera lirica “Andrea Chenier” di Umberto Giordano, la contessa di Coigny, di fronte alla ribellione di un suo servo contro l’indifferenza della nobiltà sorda verso le miserie dei poveracci, dice con scandalizzato sussiego: «Ed io, che tutti i giorni facevo l’elemosina e a non fare arrossire di sé la povertà perfin m’ho fatto un abito, costume di pietà».

In quarto luogo queste occasioni sono passerelle per i soliti commentatori che portano i soliti argomenti: un gioco allo scaricabarile tra esperti, politici e scienziati. Se ne esce con la testa confusa e con niente in mano.

Quando sui campi di calcio si dedicava un minuto di raccoglimento al ricordo di qualche personaggio (succede anche oggi con ancora maggior enfasi), al termine di questa brevissima interruzione ripartiva immediatamente l’urlo dei tifosi per l’incitamento delle squadre. Mio padre allora, che non si lasciava mai sfuggire l’occasione per bollare la retorica, era solito borbottare: «I fan a la zvèlta a scordäros di mòrt…». Esistono però due modi per dimenticare: rimuovere dalla memoria o far finta di ricordare. Per i terremotati si sta adottando la seconda strada, che è ancor peggio della prima. Basta chiacchiere quindi e ognuno faccia tutto quel che può per aiutare chi è in gravissime difficoltà.