Il colonialismo ci presenta il conto

Una anziana donna senegalese ha spiegato alla sua maniera ai nipotini la storia del suo Paese: «Da quando sono arrivati gli occidentali abbiamo cominciato a mangiare col cucchiaio, ce lo hanno insegnato loro. Da quel momento però non c’era più da mangiare…era molto meglio mangiare qualcosa con le mani piuttosto che niente col cucchiaio…».

Ecco descritto in estrema sintesi il fenomeno del colonialismo, che tendiamo a rimuovere dalle nostre analisi socio-economiche e dal quale discende gran parte degli squilibri a livello mondiale e che oggi ci porta ad essere invasi dai disperati africani in cerca di vita.

Noi continuiamo a far finta di niente: pensiamo di chiudere le frontiere, di bloccare i porti, di alzare muri, di rimandare a casa gli immigrati, e non capiamo che si tratta di un fenomeno dalle dimensioni bibliche, che va affrontato con misure bibliche, vale a dire diminuendo drasticamente il nostro livello di benessere a favore degli ospiti più o meno graditi. Il resto è costituito da chiacchiere da bar di quartiere, di nazione, di continente, di mondo.

Dobbiamo trovare le risorse per aiutare questa gente, o qui da noi o a casa loro, e meno li aiutiamo e più loro arriveranno da noi e non riusciremo a fermare l’emoraggia col cotone emostatico. I fenomeni migratori sono sempre stati l’estrema terapia per le estreme patologie.

Stupisce la testardaggine con cui l’Europa (dis)unita   continua imperterrita a parlare di contenimento e regolamentazione dei flussi, di distinzione tra emigrazione   economica e fuga da violenza e guerra (come se morire di fame non fosse una tragedia), di spartizione del macabro bottino umano (prima ci siamo spartiti le loro ricchezze, adesso dobbiamo spartirci le loro povertà), di prima accoglienza, di integrazione, di rimpatri, di sicurezza, di controllo delle ong, di guerra agli scafisti, di tolleranza zero.

Ci sono due atteggiamenti possibili: rifiutare il problema arrivando, direttamente o indirettamente, a far morire questa gente in patria, in mare, sotto i nostri ponti, sotto le bombe; affrontare il problema concretamente sacrificandoci a loro favore e restituendo loro il maltolto. In mezzo c’è la fuffa del tirare a campare per noi e del tirare le cuoia per loro.

Qualcuno sostiene strumentalmente che dietro l’accoglienza agli immigrati ci sia un business: ma certo, bisognerà impiegare risorse, stanziare fondi, fare investimenti e qualcuno ci lavorerà e guadagnerà. E allora? O ci salviamo tutti assieme o moriamo tutti. Sono discorsi difficili, ma è inutile e impossibile evitarli.

L’Italia oltre tutto si trova nella scomoda situazione di soffrire l’impatto immediato del fenomeno: è una difficoltà in più, ma paradossalmente potrebbe essere anche la nostra fortuna, che ci costringe ad affrontare il problema abbandonando l’illusione di chi guarda da lontano e pensa che l’alluvione non gli arrivi addosso.

Ho letto che a Taormina non vogliono più immigrati pena la compromissione della stagione turistica: ho l’impressione che qualcuno non si sia ancora reso conto della portata del problema. Dovremo rivedere tante cose, anche le nostre vacanze. Posso essere drammatico? Non mi stupirei se ad un certo punto il ministro degli Interni imponesse al sistema alberghiero, Taormina compresa, di ospitare gli immigrati pagando agli albergatori eque rette di soggiorno (se non erro, in parte si sta già facendo). E i turisti? Se ne faranno una ragione. Una delle tante conversioni del nostro sistema economico, dai ricchi turisti ai poveri immigrati. Così come dalle speculazioni edilizie alla difesa del territorio, dall’industria delle armi ai servizi di manutenzione ambientale, dalla chiusura delle aziende inquinanti alla valorizzazione del patrimonio artistico-culturale. Rivolgimenti di mentalità, di portafogli, di posti di lavoro. Ce ne sarà per tutti? Penso di sì, anche se ognuno dovrà ricollocarsi al meglio in un sistema diverso. Non ci sono riuscite le ideologie, ci riusciranno gli immigrati.