Mi fa tanto piacere che papa Francesco con un “pellegrinaggio” riparatore abbia rivalutato la portata profetica e pastorale di due preti molto osteggiati e maltrattati in vita dalla gerarchia (con qualche eccezione che confermava la regola): don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari. Della loro testimonianza mi piace cogliere il senso trasgressivo rispetto all’andazzo ecclesiale, senza tuttavia rompere i ponti con la Chiesa istituzione, nella geniale ma sofferta scelta del disubbidire nell’ubbidienza.
La Chiesa cattolica è sempre pronta a criticare il mondo, la società, la politica: perché non sostiene la famiglia, perché non difende la vita, perché non si batte contro il gioco d’azzardo, perché non dà lavoro ai disoccupati, etc. etc. Tutte critiche sacrosante e meritate. Ma, quando le critiche si rivoltano contro se stessa, allora il discorso cambia e diventano mancanza di amore e di rispetto, a prescindere dal merito delle critiche stesse. Come si diceva ai tempi del fascismo: credere, obbedire, combattere.
Mia sorella Lucia viveva la fede non in senso meramente religioso, vale a dire come rispetto di regole preconfezionate, ma in chiave anche fortemente critica e polemica, coniugata però sempre con il dialogo a trecentosessanta gradi, con la collaborazione aperta e senza pregiudizio alcuno, con la gratuità del servizio alla comunità ed ai suoi componenti, con la solidale apertura a tutti, soprattutto ai più bisognosi.
Quando, ad esempio, osservava a livello della Chiesa come venivano effettuati i trasferimenti dei preti, vale a dire con i soliti metodi militareschi, quasi i sacerdoti fossero dei pacchi postali da spedire a destra e manca, reagiva stizzita e una volta non seppe resistere alla tentazione di esprimersi direttamente ed in modo nettamente polemico rispetto al solito inaccettabile andazzo. Agli attacchi verso la Curia si sentì rispondere dall’allora potente vicario generale della diocesi: «Nella Chiesa non ci devono essere problemi di carriera…». Rispose: «Sì certo, ma il caso vuole che lei abbia fatto carriera, mentre “i sacerdoti semplici” li spedite in fretta e furia a farsi il mazzo…».
Ho ripensato a tutto ciò leggendo un episodio riportato da Enzo Bianchi, fondatore della Comunità monastica di Bose, nell’ambito di un suo articolo sulle critiche alla Chiesa: «Un cardinale, in vacanza in montagna, incontrò un parroco profetico e santo, scomodo per la sua parresia. Il presule lo apostrofò: “Ah, tu sei come don Mazzolari: uno di quelli che non ama la Chiesa e la critica!”. A questo sacerdote si illuminarono gli occhi azzurri e con il dito alzato verso il cardinale rispose: “A lei, eminenza, non permetto di dire così! Lei della Chiesa ha solo beneficiato, con la carriera ecclesiastica e gli onori. Noi abbiamo sofferto da parte della Chiesa, perché la amiamo troppo!».
Enzo Bianchi sostiene che bisogna amare la Chiesa e quindi, conseguentemente, criticarla denunciandone le contraddizioni. Non posso dimenticare l’esempio del caro amico sacerdote Luciano Scaccaglia: sapeva amare la Chiesa, intendendola e vivendola come comunità aperta ai poveri ed ai diversi, e quindi la criticava doverosamente e calorosamente. Anche lui incontrò eccellenze ed eminenze spietatamente critiche ed emarginanti nei suoi confronti e seppe rispondere, più o meno, come fece il parroco sopra citato.
Concludendo potremmo dire che, anche a livello ecclesiale, la critica è il sale dell’amore, chi non critica non ama, si accontenta di ignorare. Il segreto del cristiano sta nell’interpretare l’adesione alla cattolicità come adesione a Cristo e di conseguenza in linea col più grande critico e provocatore di tutti i tempi.