Dopo i lumini restano i cerini

Tutti i commentatori politici sono concordi nel cogliere in filigrana, rispetto alla recente vittoria elettorale europeista di Emmanuel Macron in Francia, il rafforzamento dell’asse franco-tedesco a supporto del rilancio dell’integrazione europea. E l’Italia? Sarebbe interlocutore di seconda mano a causa della sua debolezza economico-finanziaria coi parametri sempre in bilico, ma soprattutto del suo precario assetto istituzionale, della sua instabile e imprevedibile governabilità e delle sue incerte prospettive politiche che la rendono il punto debole e critico del futuro europeo.

A parte che tedeschi e francesi non sono esenti da colpe in campo economico-finanziario (il debito pubblico francese non è roba da niente e il surplus commerciale tedesco è roba scorretta), a parte l’inspiegabile vocazione francese a connettersi più con la “ricchezza” del Nord-Europa che con la “povertà” dell’Europa mediterranea (speriamo che Macron la finisca con la ricerca della grandeur di facciata), a parte che i rischi populisti non sono una esclusiva della politica italiana (le tentazioni antieuropee sono sempre dietro l’angolo), a parte la storica sottovalutazione dell’Italia che non passa di moda (nonostante gli elogi consolatori di Junker), a parte tutto ciò l’Italia fa una certa fatica a conquistare la promozione in serie A.

Ebbene concentriamoci un attimo sui gap istituzionale e governativo. La riforma istituzionale si era avviata, ma è stata bocciata anche e soprattutto da coloro che oggi piangono sul fatto che il nostro Paese sconta un pericoloso ed emarginante ritardo su questo terreno. La riforma era ben vista a livello europeo, ci avrebbe aiutato nel metterci al passo con gli assetti istituzionali dei partner più importanti: l’abbiamo liquidata, assecondando i soliti pruriti puristi di pochi e le scontate ostilità pregiudiziali e conservatrici di molti. In sei mesi, a detta di autorevoli (?) sostenitori del No, avremmo rimediato. Non basteranno sei anni!

Ma veniamo alla governabilità e alla stabilità politica. Gli esperti si chiedono: con quale autorevolezza Paolo Gentiloni potrà inserirsi nel gioco franco-tedesco, premier di un governo di scarso respiro temporale e di provvisorio equilibrio politico. Ci sarebbe bisogno di un governo forte.

E allora mettiamoci d’accordo: per avere un governo a mandato temporale lungo e con rappresentanza democratica piena e stabile bisogna passare dalle urne. Non si può fare, perché i problemi sono impellenti ed un momentaneo vuoto politico, con il conseguente salto nel buio, sarebbe un disastro. Dobbiamo quindi rassegnarci alla irrilevanza politica in sede europea per cercare affannosamente gli equilibri politici interni? Anche il presidente Mattarella, così giustamente affezionato all’idea di dare continuità alla legislatura, dovrebbe capire che la continuità a tutti i costi rischia di garantire più debolezza che stabilità. Anche il professor Romano Prodi dovrebbe capire che non è il momento di chiedere governi forti per poi contribuire a vivacchiare in attesa che il Pd faccia quadrare il cerchio del centro-sinistra.

Un conto sarebbe stato presentarsi al tavolo franco-tedesco con il governo Renzi in carica e legittimato dal consenso per le riforme avviate, altro conto è andare a Bruxelles con il governo Gentiloni, dalla vita breve, dal profilo piuttosto sbiadito e dalle prospettive incertissime.

Stiamo perdendo un probabile treno, quello di Macron? A meno che la cancelliera di ferro non arrugginisca in fretta e Martin Schulz non metta a riposo Schauble, riaprendo i giochi anche per l’Italia della prossima legislatura (purché non si faccia trovare impelagata in possibili e nefaste novità populiste o in   raccogliticce grandi coalizioni).   Noi intanto siamo fermi alla legge elettorale: il cerino acceso che passa di mano in mano. Nessuno si vuole scottare. Finiranno col bruciare le poche chance italiane indotte dalla vittoria di Macron.