Attenti a quei tre, anzi, a quell’unico candidato

Ho seguito su Sky tg24 l’unico confronto elettorale televisivo tra i candidati alla segreteria del partito democratico: una passerella impostata in modo sbrigativo e superficiale al limite dell’insopportabile. Purtroppo è la politica che si piega alle esigenze televisive e non viceversa. La politica, nonostante tutto, credo sia una cosa seria e non possa essere trattata come un giochetto televisivo. Se la democrazia consuma i suoi riti in questo modo, rischia grosso: ne è uscita infatti un’immagine di partito “ludico”, evanescente e inadeguato. Spero che il congresso nei circoli e il successivo dibattito nei tour dei candidati sia stato più sostanzioso ed approfondito.   Se l’affluenza alle urne delle primarie dipendesse dal dibattito televisivo, temo che sarebbe un flop.

Matteo Renzi può stare tranquillo perché è emersa comunque tutta l’estrema debolezza dei suoi improvvisati competitor: uno nei pressi dell’uscita, un piede dentro e uno fuori dal partito, col piglio fisico e stilistico del buttafuori; l’altro un personaggio tatticamente imbarazzato, un “maddaleno pentito”, un coccodrillone che piange dopo avere condiviso per anni la gestione del partito e soprattutto l’esperienza di governo. Ulteriore dimostrazione che non esiste alternativa seria e credibile alla leadership renziana.

A Renzi è successo tuttavia quel che capita a scuola, quando si è interrogati assieme a compagni impreparati: si viene coinvolti in una brutta figura e si dà comunque l’impressione di non essere all’altezza della situazione. Il governatore di un’importante regione (la Puglia) e il ministro impegnato in un dicastero delicato (Giustizia) hanno mostrato tutta la loro debolezza culturale e politica. È triste ammetterlo, ma Michele Emiliano e Andrea Orlando non sono adeguati al compito a cui aspirano.

Per Matteo Renzi il discorso è diverso: costretto ad uscire dal governo, appare in difficoltà, non riesce più ad esprimere e trasmettere quella freschezza e novità di proposta che ne avevano caratterizzato la prima fase di impegno. Si sta logorando nel tira e molla fra legge elettorale e rapporti con i gruppetti della sinistra, non riesce ad affrancarsi dalla fuffa politica in cui è finito nel post-referendum, fa molta fatica a riprender in mano la situazione, soffre il governo Gentiloni, ha perso smalto e grinta.

La situazione internazionale gli sta dando ragione: la nostalgia per Obama, l’affinità con Macron, la crisi dei partiti tradizionali, la giustezza delle scelte europee, la personalizzazione della politica, la dimostrazione di orgoglio e fiducia verso il proprio Paese, la scelta sviluppista contro i soloni del rigorismo, la capacità di fronteggiare, nel metodo e nel merito, le spinte populiste, etc.

Ciononostante soffre lo splendido isolamento in cui si è imprigionato. Deve riuscire a coniugare la spinta maggioritaria del suo partito col dialogo, non tanto per giochicchiare con i pur seri appelli di Giuliano Pisapia, con i pretenziosi consigli di Romano Prodi, con gli astiosi rimproveri di Enrico Letta e, ancor meno, con le insulse e presuntuose ripicche bersaniane e dalemiane, con i ricattini dello sperduto centro-destra moderato, con gli stucchevoli richiami al recupero del consenso delle periferie sociali, con i nostalgici inviti a rinverdire il passato ideologico, ma per riprendere a tessere una tela di rapporti virtuosi con chiunque abbia qualcosa di serio e duraturo da chiedere e da proporre. Un partito aperto e concretamente innovativo e progressista, consapevole di essere il perno della vita democratica italiana e non solo italiana.

Renzi ha in mano un partito debole, al centro, ma soprattutto in periferia: deve sforzarsi di selezionare ed allargare il gruppo dirigente senza timori di mettersi in discussione e di confrontarsi con esperienze e mondi a lui non perfettamente omogenei. Per usare un’espressione forte e teatrale dovrebbe passare da primadonna a direttore d’orchestra.

La sua normale e inevitabile debolezza culturale può essere ovviata non inasprendo ed enfatizzando i toni, ma collaborando con personaggi diversi e credibili. Il partito democratico non esce rafforzato dal congresso: non è questione di tempi e di modi per la celebrazione dello stesso, come sostengono i criticoni interni ed esterni. Non è nemmeno questione del numero dei votanti alle primarie: certo la partecipazione al voto è un dato positivo, ma non decisivo.

I congressi, ne ho vissuti tanti nella Democrazia cristiana, accentuano la dialettica interna e non bastano a costruire una proposta credibile per l’esterno, per il Paese. Spetta a chi esce vincitore provarci seriamente con il suffragio del maggior consenso possibile democraticamente raccolto.