In questi giorni è tornato d’attualità il dibattito sul velo quale simbolo religioso indossato dalle donne musulmane. L’occasione per ritornare su questo argomento, spesso affrontato con uno stupido contorno di ironiche supponenze occidentali, è data dalla sentenza della Corte di giustizia europea, che ha ritenuto legittimo interrompere il lavoro con una dipendente che indossa il velo, purché esista una norma interna all’azienda che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso.
Una sentenza piuttosto pilatesca, che sposta il problema e non lo risolve, che crea ulteriore divisione, che rischia indirettamente di alimentare ulteriori discriminazioni, che offre scappatoie alle emarginazioni di vario tipo.
La scorsa estate si era discusso parecchio sul burkini, la versione light del burka. Anche per quel caso erano scattati dei divieti a livello pubblico (spiagge, piscine ,etc). Fortunatamente, almeno in queste vicende l’Italia non è in prima linea.
Sono due (false) questioni piuttosto simili. Abbiamo sempre bisogno di simboleggiare i problemi, senza preoccuparci di ridurli a mere contrapposizioni teatrali, senza evitare la banalizzazione su cui scatenare infiniti, vuoti e mercantili dibattiti.
Forse tutto serve a (non) affrontare i problemi veri. Tuttavia anche l’adozione di certi usi ha o può avere un suo significato. Vietare alle donne islamiche di indossare sul luogo di lavoro o negli uffici pubblici il velo, così come vietare in spiaggia una sorta di calzamaglia per potersi immergere in acqua senza mostrare le proprie nudità (lasciandole solo immaginare: a volte potrebbe avere una maggior carica erotica, quello che i musulmani vorrebbero evitare) viene interpretato in due modi.
In senso positivo quale impulso a interrompere la subdola e pretestuosa continuazione della deriva sessuofobica, maschilista e ipocrita dell’Islam nei confronti della donna. In senso negativo quale ulteriore discriminazione verso i musulmani, che finisce con l’implementare l’imposizione sulle donne costrette da obblighi duali, uguali e contrari.
Ho avuto modo di definire “pirandelliana” questa diatriba, perché ci sono versioni diverse e tutte ugualmente fondate e motivate. Nell’un caso ci si insinua nei comportamenti religiosi pretendendo di giudicarli e vietarli sulla base del principio della laicità o sulla scorta del principio di uguaglianza fra uomo e donna; nell’altro caso si vorrebbe evitare ogni e qualsiasi discriminazioni su base religiosa rispettando le culture, le tradizioni, che si esprimono anche nel modo di vestire.
Sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo o sotto il burkini quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile? Sarà una cosa seria impuntarci laicamente a vietare questi usi che peraltro stanno assumendo persino un pizzico di sana civetteria islamica?
Come spesso accade, mi pare lo avesse teorizzato Dante Alighieri, ci concentriamo sull’aspetto più superficiale di un problema per evitare di affrontarlo in profondità. La questione infatti non è burkini sì burkini no, velo sì velo no, ma il rapporto tra le religioni, tra stato e religione, tra uomo e donna in tutte le religioni, ma l’uso della religione per discriminare la donna, la presenza del laico antifemminismo, con diversi connotati e diverse intensità, in tutte le società di questo mondo.
La laicità dello Stato non si difende vietando i simboli religiosi che a volte stanno proprio a significare un forte richiamo al rispetto reciproco, alla tolleranza e alla pace, ma togliendo di mezzo comportamenti concreti discriminatori e razzisti.
Se ad esempio in un’azienda privata o in un ente pubblico si vieta l’esposizione ambientale e personale dei simboli religiosi e poi si trattano le donne come lavoratrici di serie b, si discriminano i musulmani o viceversa si discriminano i cristiani, si sopportano comportamenti lesivi della dignità delle persone, le donne in particolare, si licenziano i portatori di handicap perché non producono a sufficienza, ci prendiamo in giro tutti con o senza velo, con o senza croce al collo.
In conclusione voglio rilanciare un mio provocatorio e atroce dubbio, che fa arrabbiare tutti e che, proprio per il mio innato gusto di andare controcorrente, voglio riportare, senza tanti fronzoli e distinguo: siamo così sicuri che siano più emancipate le donne occidentali che esibiscono il loro corpo al limite dell’autocompiaciuta indecenza a confronto delle donne islamiche che nascondono il proprio corpo al limite dell’autocolpevolizzante rigore etico-religioso? Accetto pareri, obiezioni e persino contumelie.