Le suocere europee e quelle…italiane

In questi giorni sulla scena europea si è scatenato il tentativo di rialzarsi dai miseri limiti e dalle storiche contraddizioni per alzarsi in volo, recuperando idealità e principi e superando, come ha chiesto papa Francesco, la zavorra delle regole protocollari.

Mentre in vetrina si vola alto, nel retro-bottega si rimane testardamente e pignolamente a far di conto. È il caso dell’Italia il cui deficit andrebbe al di là dei parametri fissati ed a cui la Commissione europea chiede con insistenza una piccola (?) correzione di circa 3,4 miliardi a pena di essere messa dietro la lavagna con tanto di insegnante d’appoggio.

Scrive opportunamente Claudio Lindner su L’Espresso: «Si tratta di regole che in realtà quasi tutti hanno violato negli ultimi sette anni, come rivela una ricerca della Cgia di Mestre sui Paesi che hanno sforato la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil: l’Italia tre volte, la Francia otto, come Spagna e Regno Unito, la Germania due. Solo Estonia, Lussemburgo e Svezia sono rimaste indenni. Ma al di là dei conti pubblici, vi sono comportamenti che indicano anomalie, eccezioni, privilegi. Il Fisco agevolato in Irlanda e Lussemburgo, da concorrenza sleale verso gli altri. O la Germania, con i suoi surplus commerciali da record che non investe e si tiene stretti».

Non si riesce a capire (in realtà si capisce benissimo) perché in una classe così indisciplinata i rimproveri si appuntino sull’Italia fino al punto da minacciare severe punizioni. Il bello è che anche in Italia si alza continuamente il coro dell’ammissione di colpa, che è semplice indovinare dove vada a parare: l’Italia ha ottenuto da tempo una certa flessibilità nei conti, ma l’ha usata male, perché in gran parte queste risorse aggiuntive sono state spese a fini elettorali, per vincere il referendum sulle riforme costituzionali. Chi è dunque il colpevole? Matteo Renzi. Come volevasi dimostrare.

È un ritornello largamente condiviso da esponenti politici di maggioranza e opposizione (lo sostiene da tempo Massimo D’Alema, che non saprei come definire, ma che non tace un attimo), da ex uomini di governo (Mario Monti ed Enrico Letta), da autorevoli opinionisti, da esperti economisti, etc. Sta diventando un luogo comune. È poi perfettamente inutile scandalizzarsi se qualcuno, a livello dell’establishment europeo, esprime più o meno lo stesso (pre)concetto ricorrendo a plastiche similitudini da osteria.

Matteo Renzi in una recentissima intervista rilasciata ad Avvenire contesta radicalmente questo giudizio ammettendo come sia più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Dice l’ex presidente del Consiglio: «Abbiamo fatto interventi organici sul fisco con l’Irap per il costo del lavoro, sulle tasse agricole, sugli 80 euro, sul ceto medio, sulle aziende e industria 4.0. Non c’è stata distribuzione a pioggia, ma la prima vera operazione di riduzione della pressione fiscale».

Ammetto che sulla opportunità ed efficacia di questi interventi governativi ci possano essere opinioni contrastanti, mancherebbe altro. Ciò che mi disturba è il volere a tutti i costi, come fa Enrico Letta, per motivi immaginabili, psicologicamente comprensibili ma politicamente assai discutibili, squalificare il tutto, bollandolo pregiudizialmente come strumentale all’accaparramento di voti al referendum. Come se la ricerca del consenso fosse vietata, come se andare incontro agli interessi dell’elettorato fosse anti-democratico, come se inserire le riforme costituzionali in una più complessiva manovra programmatica fosse sconveniente.

Cosa c’è di riprovevole, al di là dell’ormai storico “Enrico stai sereno…”, nel fatto che Renzi abbia voluto inviare agli elettori un messaggio del tipo: “Guardate che abbiamo fatto tante cose, giuste o sbagliate che siano, per aumentare il potere d’acquisto dei consumatori, per dare qualche risorsa in più da investire, per aiutare i soggetti deboli. Prima, dopo e durante questi discorsi ci stanno anche le riforme costituzionali…”.

Ma veniamo agli atteggiamenti verso la UE. Se Renzi taceva, era troppo remissivo e non si faceva sentire a dovere. Se si impuntava, era sconsideratamente aggressivo e rischiava di tirarsi addosso le pericolose ire europee. Se chiedeva flessibilità rischiava di sputtanarsi a priori, se la otteneva la doveva usare solo per diminuire i debiti. Se osava rimettere in circolo queste risorse aggiuntive, era uno spendaccione. Se le investiva, doveva finalizzarle meglio. Se ne chiedeva ancora, rischiava la procedura d’infrazione.

Una cosa è certa: Renzi in sede europea aveva conquistato per sé e per il nostro Paese una certa credibilità ed una notevole attenzione. Oggi, senza sottovalutare l’abilità diplomatica di Gentiloni, la competenza tecnica di Padoan, la pelosa moral suasion del Commissario Moscovici, questo piccolo patrimonio di considerazione e stima si sta assottigliando. Qualcuno scriteriatamente ci gode, qualcuno cerca motivazioni diverse, qualcun altro ritiene che tutto il mal non venga per nuocere.

So benissimo che alcuni mi definiranno tout court un renziano. Un tempo, nemmeno troppo lontano, quando non si sapeva come controbattere a certe argomentazioni piuttosto obiettive, si finiva col definire l’interlocutore come fascista (poi arrivò la volta del cartellino rosso: comunista) e tutto quindi doveva finire lì.

Oggi…cambiano le mode, ma i pregiudizi restano…

 

P.S. Ai lettori interessati ad approfondire la tematica europeista mi permetto di consigliare la consultazione dello studio “Indagine sulla Brexit e il rischio sfascio dell’Europa – È POPULISMO? – Agli europeisti l’ardua sentenza” contenuto nella sezione libri di questo sito.