Le dimissioni dei poveri

Erano nell’aria da mesi. Si sono concretizzate quando l’attenzione generale era tutta concentrata sul nuovo governo post-referendario. Mi riferisco alle dimissioni di Paola Muraro da assessore all’ambiente del comune di Roma. In odore di indagine in materia di reati ambientali, in particolare sulla gestione non autorizzata dei rifiuti, in periodo antecedente rispetto all’entrata in funzione della giunta capitolina guidata dal sindaco Virginia Raggi, ha aspettato, contravvenendo ad una regola interna del movimento cinque stelle, la convocazione in procura per un interrogatorio, prima di rassegnare le dimissioni. È una vicenda strana: non si è capito se Paola Muraro fosse stata iscritta nel registro degli indagati, da quando e se questa iscrizione fosse stata ufficializzata.Non essendo un giustizialista non trovo niente di clamoroso nell’atteggiamento attendista dell’interessata. Diverso il discorso a livello del movimento, che sembra applicare due pesi e due misure a seconda dei personaggi inquisiti (vedi Parma e Palermo): una ulteriore prova che non si può fare politica solo gridando “onesta! onesta!”: in questo modo si dà soltanto soddisfazione epidermica alle lamentazioni della gente , ma poi viene il bello della soluzione dei problemi.Ed è qui che restano molte perplessità. I casi sono due: o Virginia Raggi ha operato la scelta di assessori e collaboratori in modo a dir poco opaco o comunque lasciandosi, volontariamente o involontariamente, irretire dall’avvolgente rete di potere capitolina; oppure si è mossa e si sta muovendo alla cieca, senza un disegno e senza una squadra.In entrambi i casi emerge una preoccupante improvvisazione a giustificare la quale non basta l’inesperienza o l’ingenuità dei neofiti: ad un movimento che si candida a guidare il Paese è richiesto molto di più.Tutto sommato la tanto discussa esperienza parmense di Federico Pizzarotti, da tempo misconosciuta dai cinque stelle e ultimamente segnata dalla definitiva presa di distanza del sindaco di Parma dal movimento, il quale si avvia a concludere regolarmente il mandato, pur nella quasi disastrosa inconcludenza amministrativa, ha fatto in oltre quattro anni meno danni in casa grillina che non la giunta Raggi in quattro mesi.Resta, al di là degli insopportabili e vuoti toni protestatari, la forte perplessità rispetto ad una prospettiva di alternativa grillina nel governo del Paese.Due fatti si verificano contemporaneamente in questi giorni: la crisi di governo riconducibile alla crisi del Partito Democratico; la crisi dell’amministrazione capitolina riconducibile al movimento cinque stelle. Penso non sia un caso. Proviamo a rifletterci sopra un attimo.Lasciamo stare l’onda populista, non scomodiamo il discorso dell’antipolitica, stiamo a Grillo ed ai grillini e chiediamoci: è possibile che un elettore italiano su tre dia loro fiducia. Sono convinto che tutto rientri in un sentimento distruttivo, in una rappresentazione della società in cui la tragedia sfocia nella comica e viceversa.I poveri nel primo dopoguerra trovarono sciaguratamente risposte nel fascismo pilotato da ben altri interessi; nel secondo dopoguerra trovarono ospitalità e rappresentanza ideologica nel partito comunista e nella democrazia cristiana, che, partendo dalle “lamentazioni” di un popolo distrutto dalla guerra, seppero ricostruire un Paese democratico facendolo progredire su tutti i piani. Poi arrivarono il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e si chiuse questa fase, con il Pci e la Dc (messi in gravi difficoltà dal craxismo) alla ricerca di rigenerazione a livello di potere e di revisione ideologica. La macchina dei poveri aveva perso la benzina, i poveri c’erano ancora, ma cambiavano i loro bisogni e soprattutto non c’erano gli interlocutori. La politica si distaccava progressivamente dalla gente e andava per la propria strada senza freni etici: e fu tangentopoli…Arrivò Berlusconi, frutto bacato del craxismo e della modernità mediatica: i poveri (almeno una parte) ci cascarono, ci provarono e fu un disastro. I post-comunisti ed i post-democristiani si ripulirono col digiuno e con la battaglia dell’antiberlusconismo, ma non fu come per l’antifascismo che plasmò una nuova classe dirigente. Le macerie c’erano ma non c’era lo spirito del ricostituente. Tentarono il compromesso storico fuori tempo massimo: l’ulivo e poi il Partito democratico. Le due culture non riuscirono a fondersi e ridiedero vita a due visioni contrapposte di società: quella burocratica e monolitica della sinistra classica (i Bersani e i D’Alema) e quella confusionaria e provvisoria dei cattolici progressisti. Romano Prodi e Matteo Renzi hanno tentato in tempi e modi diversi il miracolo, che non è riuscito. I poveri sono tuttora vedovi di queste due culture e vanno alla disperata ricerca del salvatore. Da qualche anno si illudono di averlo trovato in Beppe Grillo. Quando si è disperati ci si attacca a tutto, ma poi finisce che ci si suicida. Siamo nella fase intermedia fra l’annaspamento sulle scialuppe di un impossibile salvataggio e il definitivo naufragio. Il partito democratico, nonostante tutto rimane l’unica possibilità di salvezza vera: chi vende salvezza finta lo ha capito e ne ha fatto il nemico. I poveri devono avere uno scatto di dignità fatto di pazienza e scegliere tra l’illusione di non affogare e l’attesa di una concreta ciambella di salvataggio. Scelta difficile, ma obbligata. La lamentazione affascina, Grillo diverte, Renzi non piace, Gentiloni traccheggia. Che sia Mattarella il punto d’attacco? E come? E quando? Non lo so.