L’imbarazzante identità leghista

Lo Ius Italiae presentato ufficialmente da Antonio Tajani irrompe sulla scena politica alimentando una violenta bagarre nel centrodestra, con i militanti della Lega che a Pontida attaccano il ministro con striscioni e cori dove viene definito “scafista” e mandato a quel paese. Matteo Salvini interviene direttamente dal pratone scusandosi per l’accaduto ma non cambia la linea: “la legge sulla cittadinanza va bene così e non è una priorità”, dice. Gli attivisti urlano anche cori scandendo dei ‘vaffa…’, lanciando slogan come “noi siamo i giovani padani” e invocando a gran voce “secessione, secessione”. (ANSA.it)

A fare notizia non è stata tanto la presenza di Orban al raduno leghista, ma lo sfogo padan-giovanilista dei militanti: i giovani hanno una grande virtù, non conoscono e non ammettono mezze vie, o tutto o niente, quindi non possono concepire ed accettare i minuetti di Tajani e i patriottismi di Meloni, non possono che tornare all’ideologia secessionista e alla verace ispirazione bossiana.

Tutto sommato mi stanno simpatici, perché hanno il coraggio di gridare nella luce quel che i maggiorenti bisbigliano nelle tenebre.  Loro hanno tirato il sasso e Matteo Salvini si è precipitato a nascondere la mano. Non so fino a qual punto si tratti di folclore o di goliardia, certamente è questione di apprezzabile sincerità.

Le reazioni imbarazzate degli alleati (?) forzisti e degli amici(?) fratelli d’Italia hanno messo ulteriormente in evidenza la debolezza ideologica di una destra troppo nostalgica ed estremista per essere liberale, troppo perbenista per essere innovativa.

La ruspante lezione dei giovani leghisti mette in crisi la politica balbettante della destra. In fin dei conti sempre meglio i sogni consistenti nel mandare affanculo Tajani e nell’invocare la secessione piuttosto che il delinquenziale ripiegamento sulle fanatiche riesumazioni fasciste.

 

Quando la protesta è un diritto-dovere

Roma, scontri tra manifestanti pro Palestina e forze dell’ordine. Sono scoppiati violenti scontri durante la manifestazione pro Palestina, tra attivisti e forze dell’ordine. I manifestanti, scesi in piazza nonostante il divieto della questura, hanno cercato di forzare il blocco su via Ostiense e sono stati respinti dagli agenti in tenuta antisommossa. Almeno 34 persone sono rimaste ferite, di cui 30 tra le forze dell’ordine, mentre una ragazza è stata colpita alla testa e soccorsa sul posto. Dei fotografi sarebbero invece stati bastonati da alcuni manifestanti.

Fin qui la cronaca, ma occorre ragionare e cercare di capire.

Nonostante si parli spesso di manifestazioni “autorizzate” e “non autorizzate” in Italia la legge non prevede che la polizia debba approvare questi eventi, dato che la Costituzione italiana riconosce il diritto a «riunirsi pacificamente». Questa regola ha però dei limiti: per prima cosa ogni volta che qualcuno vuole organizzare una manifestazione deve comunicare almeno 48 ore prima alla questura competente il luogo, la data, l’ora, la motivazione, una stima dei partecipanti e un eventuale percorso. Questa comunicazione non serve ad avere un’approvazione, bensì a dar conto che una manifestazione avverrà, ma è obbligatoria.

Gli unici casi in cui le autorità possono vietare una manifestazione sono quelli in cui è possibile identificare dei «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». In relazione alla manifestazione del 5 ottobre a Roma, la polizia nel suo comunicato aveva menzionato anche il rischio di scontri e disordini che avrebbero potuto creare problemi all’ordine pubblico, ma il problema principale, anche nelle dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, sembrava comunque quello ideologico. Sabato sono state organizzate manifestazioni in favore della Palestina anche in altre città del mondo: circa 40mila manifestanti hanno marciato nel centro di Londra, e migliaia di persone si sono radunate anche a Parigi, Manila e Città del Capo. (da “Il Post”)

Nella mia vita ho partecipato a molte manifestazioni politiche e (quasi) in tutte c’era il rischio di infiltrazioni violente. Ricordo per analogia quelle contro la guerra in Vietnam. La democrazia però non si difende vietando aprioristicamente le manifestazioni, ma semmai controllandone ed arginandone lo svolgimento.

Il divieto preventivo, oltre che essere legalmente e costituzionalmente inammissibile, risulta essere controproducente, diventando una sorta di indiretta istigazione. Il confine tra le motivazioni di ordine pubblico e quelle di ordine ideologico è molto labile: si può sempre trovare un pericolo a livello di disordine nelle manifestazioni di protesta su questioni peraltro caldissime. Allora che si fa? Si vietano tutte le manifestazioni scomode (tali sono le manifestazioni pubbliche che si rispettino)?

Mi sento di auspicare proteste, non violente ma forti, contro tutte le guerre in genere, ma nel caso specifico contro quella a cui stiamo assistendo tra Israele e il resto del mondo. Sì, perché Israele non si sta difendendo, ma vuole distruggere una volta per tutte, ciò che lo circonda e lo disturba. La vile aggressione patita non giustifica ciò che ne è conseguito, vale a dire la distruzione del territorio e del popolo palestinesi, l’attacco al Libano e quant’altro si sta verificando in un macabro balletto fra un attacco israeliano e un contrattacco arabo e viceversa.

Certo condanno con infinito sdegno i misfatti di Hamas, ma non accetto di giustificare tutto alla loro infernale luce. Non mi sembra che quanto Israele sta distruggendo e coloro che vengono uccisi dall’esercito israeliano siano riconducibili a basi e a sostenitori dei terroristi di Hamas (senza dimenticare che quando uno è disperato può arrivare anche a schierarsi con Hamas o roba del genere: lo diceva Giulio Andreotti, non certo un ingenuo pacifista).

Un cittadino italiano avrà oppure no diritto a far sentire la propria voce di protesta, schierandosi magari in difesa del popolo palestinese che, in questa guerra c’entra come i cavoli a merenda? In fin dei conti i manifestanti a favore della Palestina, in modo talora confuso, sbracato e violento, gridano, per lo meno in parte, quanto l’Onu e anche molti Paesi (fra cui gli Usa e finanche l’Italia) osano solo bisbigliare per non dare fastidio ad Israele, che può permettersi tutte le violazioni possibili e immaginabili, nascondendosi dietro una sorta di impunità conseguente alla Shoah.

Non credo proprio che in questo modo si onorino i martiri della colossale strage nazista, ma si finisca col vendicarla facendola ricadere su chi non ha colpe al riguardo. Il torto e la ragione non stanno mai da una parte sola: proprio per questo bisogna finirla con la legittimazione delle guerre che partono mettendo la ragione soltanto ed esclusivamente da una parte.

Dove è scritto che non si possa contestare con veemenza il comportamento dei governanti israeliani? Nella vomitevole realpolitik? Nell’assurdo gioco delle alleanze che peraltro fanno acqua da tutte le parti? Nell’omertoso e vergognoso atteggiamento statunitense preoccupato solo di non disturbare gli elettori di matrice israeliana? Nell’equilibrismo meloniano volto a nascondere la polvere dei problemi interni sotto il tappeto degli schieramenti internazionali? Nella subordinazione dei principi democratici agli striscianti e subdoli regimi in cui rischiamo di essere immersi?

Per me vale sempre e comunque quanto è scritto nell’articolo 11 della Costituzione italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Dal momento che, a mio giudizio, stiamo violando apertamente, seppure indirettamente, il dettato costituzionale, ben vengano le manifestazioni di protesta anche se portano in sé qualche rischio di faziosità e di ricorso alla violenza di piazza. So di dirla grossa, ma preferisco correre questi rischi piuttosto che voltarmi dall’altra parte di fronte ai massacri in atto per non disturbare i manovratori, tra i quali, è inutile negarlo, il governo di Israele ricopre un ruolo di assoluto rilievo.

 

La bilancia evangelica e il bilancino etico

La crescita della durezza nelle invettive papali ex volo è direttamente proporzionale a quella delle trasgressioni etiche della società ex convivenza incivile: evidentemente papa Francesco è stanco di dispensare consigli e punta a distribuire pensieri forti. Lo sta facendo con molta spontaneità, con grande coerenza personale e con ammirevole onestà intellettuale.

È proprio su quest’ultimo aspetto del suo comportamento (l’onestà intellettuale) che mi soffermo. Nell’ultima conferenza stampa concessa durante il viaggio di ritorno dal Belgio, su sollecitazione dei giornalisti al seguito, ha affrontato tre temi estremamente delicati, gravi e attuali: l’aborto ridotto a metodica anticoncezionale, l’abuso sessuale dilagante a tutti i livelli, la guerra considerata uno strumento di pace.

A questi tre argomenti applico tre precisazioni fatte dal Papa. Inizio dall’aborto: la diversa valutazione etica fra il controllo delle nascite, vale a dire il più che accettabile preventivo modo di evitare il concepimento e l’inaccettabile modo di eliminare il concepito. Sul primo aspetto si può ragionare in una logica di maternità e paternità responsabile, sul secondo il discorso cambia e diventa purtroppo il cercare di rimettere nella bottiglia il latte versato senza nemmeno una lacrima di inquietudine. La piaga dell’aborto dovrebbe trovare un freno nelle scelte appropriate dei metodi anticoncezionali, nella valutazione attenta e solidale della drammaticità dei casi e nella responsabilizzazione della coppia genitoriale. Probabilmente papa Francesco sta prendendo atto della superficialità con cui il problema viene affrontato nell’ambito meramente burocratico della difesa sic et simpliciter della volontà della donna. Di qui la sua indignata considerazione dell’aborto come omicidio e conseguentemente, anche se un po’ spregiudicatamente, della complicità in omicidio di chi lo procura sul piano medico.

Non entro nel merito, l’ho già fatto tante volte, distinguendomi coraggiosamente dall’atteggiamento giustizialista della Chiesa cattolica. Mi basta in questa sede sottolineare l’onestà intellettuale del Papa, anche se sacrifica, almeno in parte, alla propria coerenza morale la compassione pastorale. Francesco non è un bigotto, non è un dogmatico, è un sofferto difensore della vita, a cui però sfugge qualche possibile passaggio problematico nell’esistenza delle donne chiamate a scegliere.

Riguardo agli abusi sessuali commessi da uomini di Chiesa ho apprezzato molto il rifiuto di nascondersi dietro il dito statistico, che mette la famiglia al primo posto della classifica degli abusatori. Anche un solo abuso, dice papa Francesco, grida vendetta al cospetto di Dio e richiede ferma e aperta condanna del responsabile, aiuto concreto all’abusato, accurato impegno ad evitare il protrarsi del pericolo. È un bel passo avanti rispetto al vittimismo rovesciato degli inizi, al salvataggio del salvabile con omertose coperture, al ridimensionamento del problema al fine di non affrontare tutti gli aspetti della tematica sessuale in capo ai componenti carismatici della Chiesa. Resta molto da fare per rimuovere alla radice l’esorcismo sessuale che fa rientrare il demonio dalla finestra della trasgressione dopo averlo fatto uscire dalla porta della casta costrizione.

Infine la guerra. Sempre immorale anche se considerata difensiva, sempre condannabile perché inevitabilmente la difesa diventa sproporzionata rispetto all’offesa. Non si può giudicare una guerra col bilancino, ma bisogna introdurre la bilancia a piatto unico della pace. Il Papa è l’unico capo religioso che prescinde totalmente dalla realpolitik, che non riserva trattamenti di favore, che non spacca il capello in quattro per non dispiacere troppo allo Stato X o Y. Nessuno lo ascolta sul serio e lui lo sa benissimo. Ciò non toglie che parli forte alle coscienze di tutti in modo che nessuno possa mai dire che la Chiesa ha taciuto come è purtroppo successo nella storia, lasciando solo ai volonterosi e ai martiri tenere accesa la lampada della pace.

Qualcuno si chiederà: non sarebbe meglio che il Vaticano operasse sotto traccia a livello diplomatico, facesse un po’ di laico silenzio e si guardasse in casa.

Il primo ministro dimissionario del Belgio, Alexander De Croo, ha annunciato che richiederà un colloquio con il nunzio apostolico in seguito alle dichiarazioni di papa Francesco sull’aborto durante la sua recente visita nel Paese. «Il mio messaggio sarà chiaro. Ciò che è successo è inaccettabile», ha detto De Croo in una sessione al Parlamento federale belga. L’appuntamento è stato già fissato, ma non è chiaro se si tratta di una “convocazione” ufficiale (che di solito però viene formulata dal ministero degli Esteri del Paese ospitante) o di un colloquio meno formale. Comunque sia, si tratta di una decisione forte da parte del politico belga. E non è la prima. Quando il Papa, durante la sua visita apostolica, ha incontrato le autorità belghe è successo infatti che De Croo, anche se era previsto solo quello del Re, ha voluto comunque rivolgere un saluto al Papa, esprimendo nell’occasione giudizi particolarmente duri sull’atteggiamento della Chiesa riguardo alla gestione degli abusi perpetrati da chierici («La dignità umana è prioritaria e non gli interessi dell’Istituzione. Per poter rivolgere lo sguardo in avanti, la Chiesa deve chiarire il suo passato»). (dal quotidiano “Avvenire” – Gianni Cardinale)

Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla? È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Concludeva rassegnato: Con chil bàli chi, mi an so mai…».

La gag paterna si attaglia anche allo scontro fra clericalismo e laicismo: se il Papa tace vuol dire che non ha il coraggio di pronunciarsi, se si pronuncia sarebbe meglio che tacesse. É sempre la solita fola: c’è sempre un motivo per tacere. Papa Francesco ha scelto di parlare spiazzando un po’ tutti, come del resto faceva Gesù, anche se Gesù anziché partire dai principi si muoveva sul terreno onnicomprensivo dell’amore innanzitutto e dopo tutto. L’attuale papa non pretende di essere Gesù, anche in Belgio ha ammesso sinceramente di ritenersi il più grande dei peccatori. Quanto all’amore evangelico ce la sta mettendo tutta e la cosa mi commuove fino alle lacrime.

 

In volo coi giovani iraniani

«Ogni momento che passa il regime sta portando voi, il nobile popolo persiano, più vicino all’abisso, e la stragrande maggioranza degli iraniani sa che al loro regime non importa nulla di loro», ha scritto il premier israeliano nei giorni scorsi. Nella giovane dissidenza il commento a queste parole va dalla derisione all’insulto. Pochi credono alla buona fede del capo israeliano. «Parla come un tizio che si preoccupa dei suoi dirimpettai, ma poi continua ad uccidere quelli che abitano sullo stesso pianerottolo», commenta una ragazza che si fa chiamare “Nada”. La logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico», anche per le questioni iraniane è come cibo a breve scadenza. Se davvero a Israele sta a cuore la sorte degli iraniani, «non dovrebbe eseguire una reazione che danneggi la gente», scrive un altro studente: «Dovrebbero colpire solo i Pasdaran e le basi militari. Come pensa Netanyahu di ottenere la nostra considerazione se poi promette di lasciarci senza energia e anche senza casa come fa in Libano?». (dal quotidiano “Avvenire” – Nello Scavo)

Ammiro sinceramente il coraggio e la lucidità dei giovani dissidenti iraniani. Condivido la loro posizione. Evidentemente non vogliono ripetere a rovescio gli errori storicamente commessi dal loro popolo. Quando l’Iran passò dallo Scià di Persia alla guida suprema Khomeini, cadde dalla padella alla brace. Ora c’è il rischio opposto, vale a dire di cadere dalla padella di Khamenei alla brace di Netanyahu.

Ammesso e non concesso che possa aprirsi una fase nuova nella vita dell’Iran – anche se è difficile, ma non impossibile, che dal male di una guerra possa uscire il bene della libertà -, gli iraniani dissidenti dovranno fare i conti con problemi economici enormi che li potranno indurre a cedere alle lusinghe degli israeliani e dell’Occidente, nonché con problemi religiosi  nel senso di reagire scompostamente al regime teocratico che li ha asfissiati, illudendosi di respirare aria di libertà nell’ateo materialismo capitalista. Non so se in Iran ci sia pronta una classe dirigente capace di governare una transizione difficilissima: Cina e Russia sono pronte a blandire l’eventuale nuovo corso ed ecco una ulteriore alternativa brace in agguato.

Ci sarebbe spazio per un ruolo democratico europeo: da qualcuno bisognerà pure farsi aiutare e allora fra i tanti lupi che si aggirano nel mondo, tanto vale affidarsi a quelli coi denti meno aguzzi. E poi le donne: che ruolo potranno avere in una svolta democratica iraniana? Attenzione a non rovinare tutto sposando lo sbracato femminismo occidentale. Ci potrà essere una via iraniana al femminismo?

Forse sto mettendo il carro davanti ai buoi, ma bisognerebbe evitare i rischi di una pseudo-pace che sciolga i fermenti positivi del mondo arabo nella melassa consumistica del mondo occidentale. Ci vorrebbe la lungimiranza economica di un Enrico Mattei, l’apertura etico-religiosa di un Giorgio La Pira, la capacità politica di un Aldo Moro per resistere all’agguato di un colonialismo riveduto e scorretto, di un capitalismo dal volto disumano, di un laicismo reazionario e di un falso terzaforzismo.

Per costruire la pace bisogna volare alto: vale per tutti. Potrebbe essere il turno degli iraniani, che dovranno comunque evitare di bruciarsi le ali prima ancora di spiccare il volo.

 

Gli intellettuali organici al regime bellicista

Nel bel mezzo delle bufere belliche che stiamo attraversando sono tentato di bypassare i numerosi quanto insipidi commenti snocciolati dai media, tanta è la loro routinaria e pigra superficialità.

L’invasione dell’Ucraina è bloccata sulla criminalizzazione di Putin, sulla indispensabilità della difesa di Zelensky e sul meritorio quanto strumentale appoggio occidentale alla reazione resistenziale dell’Ucraina. Le cause che hanno portato all’odierna situazione si sono perse per la strada, la mancanza di prospettive in uscita dal tunnel non vengono nemmeno prese in considerazione: prevale la rassegnazione bellicista.

Sulla drammatica situazione arabo-israeliana, anche i migliori e più obiettivi esperti di geopolitica si fermano alle soglie dei problemi, non osano affondare la lama e si limitano a due argomentazioni lapalissiane: l’orrore provocato dall’aggressiva, sproporzionata e sconclusionata vendetta israeliana nonché l’auspicio per un intervento americano che possa mettere in riga Netanyahu e c. Nessuno va oltre l’orrore di cui i bambini palestinesi e libanesi non sanno che farsene e nessuno tenta di capire perché gli Usa si limitino a qualche puntura diplomatica di spillo nei confronti della follia israeliana.

Per non parlare della irrilevanza europea sullo scenario internazionale, data per scontata e considerata, con ironica quanto stucchevole supponenza, come un male insuperabile e inguaribile. Nessuno prova a cercare il filo dell’ingarbugliata matassa europea come se noi fossimo marziani capitati sulla terra per puro caso in fervente attesa di fare ritorno su un altro pianeta.

In filigrana si intravede il leitmotiv delle sbrigative analisi: la vergognosa omertà statunitense di cui però non si prendono in considerazione i perché. Nessuno osa approfondire il discorso affaristico-massonico che lega Israele a tutto il mondo occidentale: guai a parlar mal di Israele! Prevale una sorta di complesso della Shoah, che porta a legittimare i crimini di guerra di chi ne ha subiti troppi in passato. Si arriva persino a proibire le pubbliche manifestazioni che possono disturbare la narrazione filo-israeliana. Nessuno stigmatizza la dipendenza elettorale statunitense dalla fortissima lobby ebrea, meglio attestarsi sulla sclerosi galoppante di Biden e sulle improbabili novità del suo successore chiunque esso sia.

Il più bell’orror non fu mai detto e scritto: l’omertà non è l’anticamera della complicità? E allora smettiamola di versare lacrime di coccodrillo e andiamo al sodo delle responsabilità occidentali dirette e indirette, coperte dal lenzuolo della Nato sotto il quale si sono svolte e si svolgono le più vergognose porcherie.

L’Europa non conta niente! Perché? Forse a troppi soggetti viene bene così: agli Usa, alla Cina, alla Russia, a Israele.  Forse gli europei non credono all’Europa e, se non ci credono loro, chi mai ci potrà credere. Per favore, queste cose diciamole apertamente prima che sia troppo tardi. Possibile che non si possa fare niente al riguardo? Ne va del futuro dell’umanità!

Chi ha la responsabilità di influire sul dibattito politico-culturale si smuova dalla narrazione di comodo che ci viene propinata. La critica deve superare lo scetticismo; la denuncia deve scombinare lo status quo; gli intellettuali devono smettere di essere organici al regime bellico che ci sta distruggendo, abbiano il coraggio di dire un pezzetto di verità. Non manca infatti solo la leadership politica, manca anche quella culturale: le due mancanze si tengono assieme e si sostengono a vicenda.

L’unica voce fuori dal coro è quella di papa Francesco: troppo onesto per essere ascoltato, troppo scomodo per essere seguito, troppo in linea con il suo “bimillenario predecessore”, che, per aver detto la verità sul potere giudeo, finì in croce accompagnato dall’omertà del regime romano. Che differenza c’è fra la realpolitik del Sinedrio di Caifa e c. e quella della Knesset di Netanyahu e c.? Che differenza c’è fra l’omertoso Pilato che si lava le mani e il tira e molla del barcollante Biden? Che differenza c’è fra gli Zeloti della Palestina del primo secolo e gli odierni seguaci di Hamas e Hezbollah? Che differenza c’è fra i farisei scrupolosi osservanti della legge mosaica e i difensori dell’attuale equilibrio (?) internazionale? Che differenza c’è fra i Nicodemo e i Giuseppe d’Arimatea e gli intellettuali di oggi che criticano ma non si schierano? Che differenza c’è fra gli apostoli che scappano quando si fa brutta e i cristiani che sanno solo bisbigliare parole del vogliamoci bene.

In estrema sintesi il segno della più assoluta continuità storica consiste nella strage degli innocenti. Anche allora la gente era manipolata e non ci capiva niente. Che cosa è la verità? Meglio continuare la menata delle balle che occupavano e occupano tutto il posto a disposizione.

 

I brividi per una guerra infreddolita

La Cina è pronta a “espandere” la cooperazione con la Russia. É quanto ha detto il presidente Xi Jinping al suo omologo Vladimir Putin, negli scambi di messaggi legati alle celebrazioni dei 75 anni delle relazioni diplomatiche bilaterali. Xi, ha riferito l’agenzia statale Xinhua, ha sottolineato che la Cina è “pronta a unirsi a Putin per espandere costantemente la cooperazione pragmatica a tutto tondo tra i nostri due Paesi”. (ANSA.it)

Con il termine guerra fredda si indica la contrapposizione politica, ideologica e militare che venne a crearsi intorno al 1947, e che si protrasse fino al 1989, anno in cui crollò il muro di Berlino, tra le due principali potenze vincitrici dalla seconda guerra mondiale: gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Questa guerra viene chiamata “fredda” perché non si concretizzò mai in un conflitto militare diretto.

Cercare il freddo per il letto è un detto popolare che significa cercare inutili complicazioni, complicarsi la vita. Ebbene la narrazione geopolitica altro non è che una continua e disperata registrazione della ricerca del freddo per il letto da parte delle potenze sempre più impotenti. Con la caduta del muro di Berlino sembrava che si aprisse una nuova era di coesistenza pacifica, invece la situazione si è ulteriormente complicata in vista di nuovi equilibri tuttora assai vaghi e precari.

La mia personale sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron è che tre galli nel pollaio possano lasciare un po’ in pace le galline. Invece tirano brutte arie, perché il gallo cinese e quello russo stanno stipulando un’alleanza di fatto che mette in ulteriori gravi difficoltà lo spennacchiato gallo occidentale peraltro già in vena di auto-beccata.

Gli Usa sono in cerca di leadership e si limitano a difendere la gallina ucraina dall’attacco proditorio del gallo russo e a fare il pesce nel barile israeliano, facendo finta di appoggiare la scriteriata e fastidiosa resa dei conti con il mondo arabo.

Nel ginepraio medio- orientale una cosa si è capita, vale a dire che Israele ha colto al balzo la palla offerta dall’attacco di Hamas e intende chiarire una volta per tutte la propria posizione dominante, cancellando la Palestina, ridimensionando militarmente Hamas e Hezbollah e mettendo in riga tutti i Paesi arabi, confidando anche nelle loro divisioni religiose tra sciiti e sunniti.

L’Europa dà un colpo al cerchio e uno alla botte, confermando giorno dopo giorno la propria irrilevanza geopolitica: in buona sostanza il mondo occidentale ha rinunciato a fare politica e a prendere serie iniziative diplomatiche, delegando tutto alla Nato in una logica di mera contrapposizione bellica.

Per me però il dato più inquietante è la strisciante alleanza russo-cinese: non so fino a che punto corrisponda alle reali intenzioni della Cina, che probabilmente considera la Russia un alleato usa e getta, mentre la Russia ha bisogno assoluto e a qualsiasi costo dell’appoggio cinese.

I missili iraniani rientrano perfettamente nel teatro bellico. Speriamo che qualche missile non trovi la strada europea e magari italiana. A tale riguardo mi viene spontanea una cinica e spannometrica riflessione: se ci salveremo dagli attacchi di qualche Paese arabo impazzito o dagli attentati di qualche terrorista musulmano in vena di protagonismo, lo dovremo alle avvedute e prudenti politiche estere dei democristiani al governo nella cosiddetta prima repubblica, i Fanfani, i Moro e, ancor prima, gli Enrico Mattei, aggiungo in extremis anche i D’Alema. Questi illustri signori hanno sempre tenuto un atteggiamento dialogante e comprensivo verso il mondo arabo pur tenendo fede alla collocazione italiana nello schieramento occidentale. Un capolavoro ben lungi dall’insopportabile e controproducente multilateralismo meloniano, dallo smaccato opportunismo tajaniano e dal farneticante neutralismo salviniano.

 

 

 

 

 

Il pochettino europeo e il parecchio italiano

È nota ed emblematica la storiella di quella mamma perbenista, che, di fronte alla imbarazzante gravidanza della figlia ancora nubile, a chi, incuriosito dall’evidente stato interessante della ragazza, le chiedeva maliziosamente se la giovane fosse in dolce attesa, rispondeva “sì, mia figlia è incinta, ma solo un pochettino!”.

Le estreme destre in Europa, in Francia, in Austria, un po’ dovunque aumentano clamorosamente i consensi elettorali, però, quando si arriva al dunque, vale a dire alla formazione di maggioranze di governo, restano a bocca asciutta: scatta una sorta di conventio ad excludendum da parte degli altri partiti, che non se la sentono di imbarcarsi in avventure di governo con forze politiche estremiste, antieuropee e antiliberali (diciamo neofasciste per meglio intenderci).

L’aria che tira, per tutta una serie di motivi fra i quali spicca l’avversione agli immigrati, è di destra, ma solo un pochettino, un po’ tanto ma… Le forze politiche di centro e di sinistra fanno quadrato e resistono alla spinta populista proveniente dalle urne. In Austria la prima forza politica a livello di consensi elettorali rischia di rimanere in un oscuro isolamento. Meno male che scatta questo riflesso pavloviano antifascista.

L’Italia purtroppo sta facendo eccezione. L’estrema destra è al governo non sola, ma addirittura male accompagnata. L’elettorato si è pronunciato, seppure con i se ed i ma provenienti dall’astensionismo e dall’inconcludenza delle sinistre e del centro ad esse collegabile, a favore di un governo fortemente connotato a destra. Da dove proviene questa anomalia?

Oltre ai due fattori già citati, vale a dire il ricorso massiccio all’astensionismo da parte degli elettori e la debolezza non solo strategica ma persino tattica delle forze in qualche modo riconducibili al centro-sinistra, rimane il dubbio che gli italiani non abbiano fatto e non intendano fare pienamente i conti con la storia.

Un lunghissimo applauso, ritmato e continuato, con tutti i partecipanti alla commemorazione dell’80/o anniversario della strage di Monte Sole e Marzabotto in piedi, ha accompagnato il passaggio dell’intervento del presidente della Repubblica federale tedesca, Frank-Walter Steinmeier, in cui, rivolto alla platea ha scandito: “come Presidente Federale tedesco provo solo dolore e vergogna. Mi inchino dinnanzi ai morti. A nome del mio Paese oggi Vi chiedo perdono”. Al termine delle parole del presidente tedesco e della commemorazione, la banda municipale ha fatto partire le note di ‘Bella Ciao’. (ANSA.it)

Questa lezione dovrebbe dare uno scossone etico-politico agli italiani in vena di “scherzare” con la storia, invece vince la vergognosa attualità: evviva Giorgia Meloni, evviva Matteo Salvini che la scavalca a destra, evviva Antonio Tajani che le fa da paraninfo.

 

La destra propone l’ordine nuovo, cioè il disordine vecchio

C’è bisogno di sicurezza. Impossibile negarlo, tra spaventose minacce di guerra e inedite inquietudini come quelle suscitate dall’intelligenza artificiale. Il disegno di legge sicurezza, appena approvato dalla Camera, risponde a questo bisogno? Promette ordine, ma crescono le proteste contro un provvedimento da molti definito liberticida. Non si tratta infatti – come spiegano Antigone e Asgi, due importanti associazioni in difesa dei diritti umani – di un’ennesima espressione di panpenalismo (creazione di nuovi reati, accrescimento delle pene, introduzione di aggravanti ecc.) ma di un salto di qualità nelle forme e tecniche di controllo sociale.

A giudicare da questo disegno di legge sembrerebbe che grandi pericoli vengano oggi dalla resistenza passiva o dalla protesta non violenta. Mentre la violenza, in tante forme diverse, è al centro della comunicazione, corpi volutamente disarmati trasmettono principi, valori, idee con una forza straordinaria, specie se si uniscono ad altri ugualmente disarmati. Ora si cerca di fermarli. (dal quotidiano “Avvenire” – Agostino Giovagnoli)

Questo articolo, che consiglio di leggere con grande attenzione, mette il dito in una piaga emergente con insistenza dall’indirizzo politico dell’attuale governo e della sua maggioranza di destra. Debuttarono con la polizia a manganellare gli studenti universitari, hanno continuato su questa strada e ora presentano un disegno di legge, in via di approvazione parlamentare, che rappresenta il subdolo tentativo di criminalizzare la protesta non violenta.

In un andazzo governativo incensato vergognosamente dai media mancava l’altro braccio della tenaglia, volto a preservare e controllare l’opinione pubblica rispetto ad ogni pur minimo azzardo di protesta.

La filosofia è quella della famosa fiaba del lupo e dell’agnello: chi crea insicurezza? La casistica la prendo dal pezzo succitato. Tutti coloro che, anche senza alcun ricorso alla violenza, osano opporsi al “disordine” regnante nella società e protestano contro sua maestà l’ingiustizia. I giovani che si mobilitano contro il dramma delle guerre; coloro che richiamano vigorosamente l’attenzione sull’emergenza ecologica; quanti ostacolano la realizzazione di opere pubbliche in contrasto con l’integrità ambientale; i detenuti che, per richiamare l’attenzione sulle loro disumane condizioni di vita, fanno proteste come ad esempio uno sciopero della fame; i ricoverati nei centri di accoglienza per migranti che protestano per il degrado in cui sono costretti a vivere; chi è senza casa e occupa un appartamento vuoto; gli accattoni che inquinano i centri storici delle città. Un agghiacciante elenco di intenti chiaramente e vergognosamente repressivi.

Il disegno di legge sicurezza sembra esprimere una grammatica del potere che si piega ai forti e opprime i deboli. Se sarà approvato definitivamente, rischia di portare più dolore e sofferenze che provocheranno rabbia, odio, violenza contro gli altri e contro sé stessi. E, quindi, meno sicurezza. Molti costituzionalisti sono convinti che in questo ddl diverse disposizioni contraddicano la Costituzione. Appare soprattutto incostituzionale l’impianto di fondo, perché respinge la centralità della persona, che è alla base della Carta. C’è davvero da sperare che il Senato cambi profondamente questo disegno di legge. (è la conclusione dell’articolo di Agostino Giovagnoli)

E la chiamano sicurezza! Io preferisco chiamarla repressione!

A proposito di tenaglia antidemocratica, ricordo che mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati Luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così ed è così, in forme e modi più moderni ma forse ancor più imponenti e subdoli, anche oggi in Italia.

Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti.

Se, per tenere puliti i muri e per tenere indenne la quiete pubblica, siamo disposti anche oggi a cose simili, non mi resta che diventare graffitaro, che unirmi a tutti gli agnelli, i quali, in modo pacifico e partendo dal basso delle ingiustizie, inquinano l’acqua del lupo che staziona nell’alto del potere.

Lo chiamavano fascismo e oggi come lo chiamiamo?

 

Tra migranti da salvare e violazioni umanitarie da evitare

La Chiesa celebra ogni anno, nell’ultima domenica di settembre, la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, una tradizione iniziata nel 1914 e giunta quest’anno alla sua 110ª edizione. Questa giornata rappresenta un’occasione significativa per esprimere vicinanza e solidarietà a tutte quelle persone che, per molteplici ragioni, sono costrette a spostarsi e a vivere in condizioni di vulnerabilità.

L’occasione è propizia per tornare su un fatto che sarà certamente sfuggito a molti anche perché fortemente provocatorio rispetto all’approccio e all’andazzo meramente “difensivi” adottati riguardo al fenomeno migratorio.

Erano partiti da poche ore dal porto di Trapani quando si sono imbattuti in un barcone alla deriva, stracarico di migranti in pericolo e ne hanno portato in salvo almeno 67, grazie alla cooperazione con la Guardia costiera italiana.

«Stiamo cooperando con la motovedetta della Guardia Costiera Italiana a cavallo tra zona Sar maltese e zona Sar tunisina – racconta don Mattia Ferrari a bordo della nave Mare Jonio – nel soccorso di 67 persone tra cui 16 donne e 15 bambini a bordo di una barca di legno sovraffollata che stava pericolosamente imbarcando acqua. Abbiamo stabilizzato l’imbarcazione e distribuito i giubbotti di salvataggio, poi le persone le ha caricate a bordo la Guardia Costiera».

«Prego per voi e per la vostra testimonianza», papa Francesco ha inviato, per tramite proprio di don Mattia Ferrari un messaggio all’equipaggio della Ong Mediterranea e del veliero di Migrantes, in missione nel Mediterraneo da poche ore per salvare vite umane. L’operazione è partita venerdì sera dal porto di Trapani. «Una missione di particolare rilevanza» perché per la prima volta la nave è accompagnata lungo la sua rotta da una barca a vela di supporto organizzata dalla fondazione Migrantes della Chiesa cattolica italiana, «con funzioni di osservazione e documentazione, informazione e testimonianza», afferma la Ong. Le due imbarcazioni hanno raggiunto ieri pomeriggio l’area di operazioni Sar a sud di Lampedusa.

«Siamo tornati di nuovo là dove bisogna essere: nel Mediterraneo per soccorrere le persone in fuga da tortura, violenze e violazioni dei diritti umani e contrastare le intercettazioni e le deportazioni in Libia e Tunisia», scrive sui social l’organizzazione umanitaria.

All’obiettivo prioritario della missione di salvaguardare a ogni costo ogni singola vita umana in pericolo in mare, spiega Laura Marmorale, presidente di Mediterranea Saving Humans, si aggiunge infatti quello di impedire intercettazioni e respingimenti delle persone migranti «verso porti e Paesi “non sicuri”, dove i diritti fondamentali sono negati e la stessa incolumità delle persone è quotidianamente a rischio. Intercettazioni e respingimenti che sono aperte violazioni del diritto internazionale, umanitario e marittimo. (dal quotidiano “Avvenire” – Daniela Fassini)

Penso si possa affermare che il problema dei migranti si potrebbe e dovrebbe affrontare e risolvere se tutte le parti in causa facessero il proprio dovere: le organizzazioni umanitarie svolgere il loro benemerito ruolo di intervento e di testimonianza; le strutture pubbliche il compito istituzionale di soccorrere e portare in salvo; i pubblici poteri dovrebbero (il condizionale e d’obbligo) non limitarsi ad intercettare e respingere, ma dovrebbero programmare e gestire l’accoglienza e l’integrazione.

Invece purtroppo la programmazione consiste in un macabro gioco allo scaricabarile tra Ue e Stati membro, tra Stati membro, tra Paesi europei e Paesi di partenza e di transito; l’accoglienza è fatta con la riserva mentale di rispedire al mittente i disperati; la gestione non riguarda l’integrazione ma il rimpatrio, peraltro impossibile, sulla base della distinzione di lana caprina fra richiedenti asilo e migranti generici.

Il diritto internazionale conta assai poco e oserei dire che tutto avviene in aperta o subdola violazione delle norme umanitarie. Da una parte le analisi più sofisticate dicono che abbiamo bisogno della presenza degli immigrati per motivi di carattere demografico ed economico, ma dall’altra parte il discorso non abbiamo il coraggio di accettarlo e ci illudiamo di considerare gli immigrati alla stregua di profittatori delle proprie disgrazie in attesa di delinquere a danno di chi non riesce a disfarsi di loro.

Non riusciamo a capire che non si tratta di emergenza, ma di drammatica routine. Chi cerca di fare qualcosa di concreto al riguardo viene ostacolato o addirittura criminalizzato. Paradossalmente le ong vengono considerate come le amiche del giaguaro scafista. I voti elettorali vanno a chi vaneggia e propone impossibili linee dure. Persino il Papa viene considerato un rompiscatole che predica bene, ma razzola male. Cosa dovrebbe fare per razzolare bene non è dato saperlo: forse trasformare il Vaticano e tutte le aree rientranti nella giurisdizione cattolica in un mega campo-profughi? Qualcosa di più in tal senso si potrebbe fare, ma non scarichiamo sulla Chiesa responsabilità che riguardano ben altri soggetti. Ognuno si prenda la sua parte e nessuno faccia il finto tonto.

 

 

I sogni oltre la palude

“Finché Hezbollah sceglierà la via della guerra Israele non avrà scelta, abbiamo tutto il diritto di rimuovere questa minaccia e di riportare i nostri cittadini alle loro case in sicurezza. Abbiamo tollerato questa situazione intollerabile per quasi un anno ma quando è troppo è troppo”.

Accolto alla vigilia dalle proteste di migliaia di manifestanti a New York e boicottato da varie delegazioni che hanno lasciato l’aula prima che intervenisse, Benjamin Netanyahu ha lanciato questo messaggio perentorio all’assemblea generale dell’Onu fustigando il Palazzo di vetro come “una palude antisemita”. “Continueremo a indebolire Hezbollah finché non saranno raggiunti tutti i nostri obiettivi”, ha dichiarato all’assemblea delle Nazioni Unite.

Un discorso di 35 minuti, non una sola parola sulla proposta Usa-Francia di una tregua di 21 giorni in Libano, nonostante la precedente apparente apertura in cui affermava di condividere gli obiettivi dell’iniziativa.

“Non intendevo venire qui perché il mio paese è in guerra, sta combattendo per la sua sopravvivenza. Ma dopo aver sentito le bugie e le calunnie contro Israele da molti oratori su questo podio, ho deciso di venire e di ristabilire la verità”, ha esordito tra gli applausi e gli incitamenti della sua delegazione, mentre quelle di Iran, Turchia, Arabia Saudita, Palestina e Libano lasciavano la sala. “Continueremo a indebolire Hezbollah finché non saranno raggiunti tutti i nostri obiettivi”, ha promesso. Bibi ha avuto un messaggio preciso per tutti, non solo per Hezbollah, ma anche per il suo sponsor iraniano e per Hamas. “Ho un messaggio per i tiranni di Teheran: se ci colpite, noi vi colpiremo”, ha promesso. “Non c’è posto in Iran che il lungo braccio di Israele non possa raggiungere. E questo vale per tutto il Medio Oriente”, ha minacciato. Il primo ministro israeliano ha anche sollecitato misure più severe nei confronti del programma nucleare iraniano, chiedendo al consiglio di sicurezza di ripristinare le sanzioni Onu – revocate nel 2015 in base all’accordo sul nucleare con le principali potenze mondiali – “perché dobbiamo tutti fare tutto ciò che è in nostro potere per garantire che Teheran non ottenga mai armi atomiche”.

Monito anche per Hamas: dopo quasi un anno di guerra nella Striscia di Gaza, Netanyahu ha detto che il movimento islamico palestinese “deve andarsene”. “Questa guerra – ha proseguito – può finire. Tutto ciò che Hamas deve fare è arrendersi, deporre le armi e liberare gli ostaggi (alcuni famigliari erano presenti in aula, ndr). Se non lo farà, combatteremo finché non otterremo la vittoria, la vittoria totale. Non c’è alternativa”. L’alto dirigente di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha condannato il suo discorso “pieno di bugie e contraddizioni: il ritiro di molte delegazioni dall’aula è un messaggio che alle bugie di Netanyahu non crede più nessuno”. “L’appello di Netanyahu alla resa di Hamas è una sciocchezza; la resa non è nel vocabolario del movimento e il problema risiede nell’occupazione, non in coloro che si difendono”, ha aggiunto.

Affermando che “Israele è stato costretto a difendersi su sei fronti sostenuti dall’Iran”, Bibi ha mostrato anche due mappe, una della “maledizione” e l’altra della “benedizione”, spiegando che “la domanda davanti a noi è quale delle due disegnerà il futuro: il futuro dove Teheran e suoi alleati diffonderanno il caos e la distruzione o quella in cui Israele e gli altri paesi vivranno in pace?”. “Israele ha già fatto la sua scelta”, ha aggiunto, sostenendo che “dobbiamo continuare il percorso che abbiamo lastricato con gli accordi di Abramo, raggiungendo lo storico accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita” che Hamas ha fatto saltare col suo attacco del 7 ottobre.

Dopo aver duramente accusato l’Onu di essere una “palude antisemita”, una “società terrapiattista anti-israeliana” e una “farsa sprezzante”, Bibi ha concluso con tono di sfida dicendo di avere “un altro messaggio per questa assemblea e per il mondo fuori da questa sala: stiamo vincendo”. (da ANSA.it)

Ho provato sconcerto di fronte alla ignobile pantomima di Netanyahu alle Nazioni Unite: stiamo veramente toccando il fondo bellico e che ciò avvenga anche per il comportamento del capo di governo di un Paese come Israele, simbolo della più grande persecuzione subita dall’uomo, è veramente un fatto paradossale. Stiamo vivendo un periodo paradossale!

Ma chi è questo signore che si permette di insolentire l’Onu? Continuo a chiedermi come sia possibile che i suoi alleati occidentali lo sopportino. Evidentemente fa il loro gioco, altrimenti lo avrebbero già ridimensionato. Fa comodo agli sporchi equilibrismi mondiali: da una parte Israele con l’Occidente a fare da paraninfo, dall’altra parte il mondo arabo-musulmano con Russia e Cina a soffiare sul fuoco, in mezzo Hamas e Hezbollah a lavare il cervello a palestinesi e libanesi massacrati a più non posso. Le istituzioni internazionali assistono impotenti e si fanno prendere in giro dai contendenti, soprattutto da Israele.

Il Papa sta alzando la voce e fa benissimo, anche se a volte può apparire esagerato. Bisogna scuotere le coscienze, visto che i governanti non si lasciano scuotere. La diplomazia è afona, non si intravedono vie d’uscita. La narrazione mediatica è a senso unico nel presentare come inevitabile e stabile lo scenario bellico. Se qualcosa di nuovo non parte dalle genti…

Ma come possono fare gli individui e le popolazioni a reagire, a liberarsi dalla cappa bellica che li sovrasta? La nuova presidenza Usa sembra ininfluente, la nuova Commissione Ue sembra ripetente, la nuova Onu sembra inevitabilmente e ritualmente la stessa, la subdola alleanza tra Cina e Russia sembra addirittura allargarsi alla versione riveduta e scorretta dei Paesi non allineati, l’Africa sembra nelle grinfie di Cina e Russia, per la verità più dei cinesi che tengono in pugno Putin che viceversa. Nemmeno la paura del nucleare sembra sbloccare le opinioni pubbliche. Non esistono fermenti culturali che possano fare aprire gli occhi foderati di prosciutto sparsi in tutto il mondo. Non c’è all’orizzonte nemmeno uno straccio di nuova classe dirigente che lasci sperare qualcosa.

Quando mi perdo a “sognare” un futuro di pace, mi sento quasi in colpa: eppure è solo dai sogni che può nascere la spinta a cambiare la realtà. I have a dream… Nella supplica per la pace alla Beata Vergine Assunta al Cielo si prega così: “Che si compia la tua profezia: i superbi siano dispersi nei pensieri del loro cuore; i potenti siano rovesciati dai troni e finalmente innalzati gli umili; siano ricolmati di beni gli affamati, i pacifici riconosciuti come figli di Dio e i miti possano ricevere in dono la terra”.

Non resta che sognare pregando, che pregare sognando. Lo faceva don Andrea Gallo: «Domani, se Dio mi dà salute, voglio essere più uomo, sognatore di un mondo migliore, voglio farmi coinvolgere e travolgere, sporcarmi le mani, contaminarmi con gli altri, impastarmi di questa realtà che sa essere insieme Inferno e Paradiso. Gli ultimi minuti della mia vita vorrei cantare un inno alla gioia per tutto quello che mi è stato concesso di conoscere».