La (Pisa)pia illusione a sinistra

Nel farraginoso panorama italiano della sinistra politica da qualche tempo si aggira un personaggio relativamente nuovo, che ha bazzicato culturalmente gli ambienti più radical chic, un giurista di alto livello, un alto borghese prestato al proletariato, un sindaco di saldatura di un’area che va dal ceto medio al sottoproletariato, un uomo moderato nei toni ma di forte ispirazione laico-progressista. Si tratta di Giuliano Pisapia.

Si aggira come un fantasma nelle attuali stanze della sinistra, tenendosi in disparte da tutti, ma dialogando con tutti e dando l’illusione di essere con loro; tiene aperto un canale di collegamento con i fuoriusciti dal PD (non mi sono ancora abituati a chiamarli Movimento dei Democratici Progressisti), ha agganciato i frazionisti di Sel e Si, piace un po’ a tutti (Landini compreso, la Camusso non si sa perché è troppo indaffarata a disfare quanto ha fatto il governo negli ultimi anni), non si pone in conflitto col PD, anzi lo ritiene un interlocutore obbligato e di questo partito coinvolge, a livello di dialogo, parecchi personaggi di primo piano oltre ai candidati alla segreteria in opposizione a Renzi, ha l’appoggio dei camali di porto, degli studenti arrabbiati, dei giovani disperati, dei borghesi illuminati, del terzo settore, degli intellettuali sfaccendati, degli artisti interessati, dei cattolici (non solo di sinistra) e dei laici. In molti guardano a lui (un po’ troppi, secondo me). Ha, seppure con altro stile e spunto, e con tendenza a segnare nettamente il territorio sulla destra, qualcosa in comune col maanchismo veltroniano.

Ha il suo brand e il suo movimento, “Campo progressista”: lo ha pensato con calma olimpica, dopo il gran rifiuto a ricandidarsi sindaco di Milano, e intendendo riproporre a livello nazionale l’ampia ed articolata esperienza milanese. Tutti i senza casa di sinistra guardano a lui con speranza e sollievo, perché in teoria riesce a coniugare identità, storia, lotta, governo, uguaglianza, modernità.

Nella sua strategia, peraltro ancora piuttosto vaga e (quasi) tutta da costruire, in pratica, si intravedono, assieme a prospettive interessanti, alcune latenti contraddizioni politiche e anche sociali. Giuliano Pisapia non è indenne dalla sindrome autoreferenziale e purista della sinistra: ha (im)posto infatti al PD un confine a destra verso quelle forze che si autodefiniscono di centro moderato, un vespaio di ex berlusconiani che hanno sostenuto in questi anni il governo (prima assieme a Berlusconi, poi senza) e che potrebbero essere ancora disponibili, soprattutto qualora il sistema elettorale ci consegnasse un Italia frammentata e ingovernabile. Qui Pisapia è in una certa controtendenza rispetto alla “sua”operazione milanese. Pisapia ha vinto le elezioni amministrative milanesi del 2011 saldando la sinistra tradizionale con gli ambienti della borghesia e financo con ambienti cattolici vicini a Comunione e Liberazione, senza farsi giustamente scrupolo di imbarcare uomini provenienti da esperienze politiche diverse dalla sua, come ad esempio Bruno Tabacci. Non capisco perciò questa conversione puritana. Probabilmente ritiene di recuperare socialmente certe fasce moderate di elettorato senza bisogno di blandirne i target partitici. Non vorrei fosse il condizionamento psicologico della sinistra anti-renziana a tutti i costi. Probabilmente paga un prezzo, che però potrebbe rivelarsi pericoloso e controproducente.

Una seconda difficoltà la sta incontrando con i progressisti ex PD: rischia di ascoltarli troppo e di essere risucchiato dai D’Alema e dai Bersani, che strumentalmente gli stanno dando corda, ma hanno in testa ben altre idee. In effetti Giuliano Pisapia è stato preso in contropiede dalla scissione PD, di cui voleva essere l’esorcista esterno, e quindi la sua manovra ha preso ancora più indeterminatezza e confusione rispetto alle intenzioni iniziali.

Su tutto poi, a breve termine, grava l’incertezza del sistema elettorale, che potrebbe aiutare, ma anche mettere in seria difficoltà il “federalismo” di sinistra, o consacrandone la deriva frazionista spinta dal sistema proporzionale o soffrendo la forzata necessità di un aggregazione nel sistema maggioritario senza coalizione.

Da ultimo Pisapia ignora il movimento cinque stelle: punta a recuperare la sfiducia “di sinistra” albergata provvisoriamente in esso. Grillo, ai tempi dell’operazione Milano, lo chiamava “Pisapippa”. Oggi, per il momento tace, perché di “pippe” ne ha già abbastanza tra le sue file.

Se ho ben capito, Giuliano Pisapia, tra un dubbio amletico e l’altro, punta alla riaggregazione dell’area a sinistra del PD, senza conflittualità ma addirittura con attenzione collaborativa verso il PD. Auguri!

 

Il gioco politico del lotto punta su Lotti

Ho ascoltato con grande attenzione, sgombro da ogni pregiudizio, l’intervento del ministro Luca Lotti in Senato al termine della discussione sulla mozione di sfiducia verso di lui, presentata dal movimento cinque stelle.

La questione si pone a tre dimensioni e livelli. Sul piano giudiziario è in atto un’indagine che, mi pare, non abbia raccolto grandi prove contro il comportamento di Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento: tutto ruota infatti attorno alla testimonianza di un manager di Stato che avrebbe rivelato di essere stato informato dal ministro dell’inchiesta in atto e della installazione di microspie nel suo ufficio. Della serie “stai attento perché ti stanno spiando nell’ambito di una indagine riguardante episodi di corruzione nelle procedure sulle gare d’appalto adottate dall’azienda di cui sei amministratore delegato”. Il ministro avrebbe avuto queste indiscrezioni da ambienti delle forze dell’ordine, tanto che risultano indagati anche alti esponenti dell’arma dei carabinieri.

La giustizia farà il suo corso. Il ministro Lotti dice di avere fiducia nella magistratura e di collaborare con essa. Nega con assoluta decisione di avere mai e poi mai violato segreti e favorito con informazioni riservate persone coinvolte nell’inchiesta di cui sopra.

Si profila un caso classico di due verità che si scontrano: o sono magari mezze verità oppure una delle due è una falsità. Probabilmente non se ne uscirà. Ricordo come durante un processo tenutosi al tribunale di Parma proprio in materie simili, chiesero al Presidente di procedere ad un confronto fra due persone che si smentivano a vicenda clamorosamente. Il Presidente non ammise alcun confronto, perché sostenne saggiamente che processualmente non serviva a nulla: ognuno avrebbe mantenuto la sua posizione e tutto sarebbe stato teatralmente interessante, ma giudizialmente inutile. Non esistono quindi allo stato motivi che a termini di legge comportino incompatibilità o decadenza dalla carica di ministro. Principio di garanzia che dovrebbe valere sempre e per tutti.

Dal punto di vista politico non vedo sinceramente come si possa dimostrare che sia venuta meno la fiducia sulla base di accuse categoricamente smentite dall’interessato. Siamo, caso mai, nel campo dell’opportunità o meno che un ministro sottoposto ad indagini si dimetta in quanto anche solo il dubbio potrebbe compromettere la credibilità e la trasparenza dell’azione di governo: ecco infatti che i più “smagati” politici, a livello parlamentare, hanno ripiegato su una mozione di richiesta di dimissioni e/o di invito al Presidente del Consiglio a ritirare la delega al ministro. Il secondo discorso fatto in aula dal Ministro è stato proprio questo: dopo aver chiarito la correttezza del suo comportamento anche sul piano politico, ha giudicato meramente strumentale l’attacco, in quanto utilizza solo un dato giuridico provvisorio, e quindi irrilevante, per arrivare in realtà a formulare giudizi politici riguardanti l’azione di governo, della serie “attacco nuora (Lotti) perché suocera (Gentiloni e Renzi) intenda”.

Arriviamo per gradi al piano della sensibilità individuale. Tutto alla fine si risolve lì. Se Lotti cioè ritenga opportuno, pur senza la benché minima ammissione di colpa, farsi da parte per, come si suol dire, agevolare il corso della Giustizia, per potersi meglio difendere, per sgombrare il campo da ogni e qualsiasi ombra sul suo operato e sulla credibilità del governo di cui fa parte. Evidentemente non lo ritiene opportuno né dal punto di vista personale (ammissione indiretta di colpa), né dal punto di vista politico (indebolimento del governo). Altrimenti lo avrebbe già fatto, senza aspettare le inutili e poco credibili spallate degli avversari storici e di quelli anti-storici. Inutile e pretestuosa è la ricerca di analogie col comportamento di altri ministri, in altre situazioni, in altri momenti storici: se si tratta di valutazioni personali e politiche, ogni caso fa storia a sé.

Un’ultima riflessione (in cauda venenum). Pierluigi Bersani avrebbe deciso di presentare, assieme agli amici scissionisti del PD (mi viene spontaneo definirli così, prima o poi mi abituerò a chiamarli col nuovo nome che hanno assunto, vale a dire MDP), una mozione, come detto sopra, che chiede a Gentiloni di ritirare le deleghe a Lotti. Bersani aggiunge con la sua solita lapalissiana verve da bottegaio in pensione: «Qui o ha ragione Lotti o ha ragione Marroni». Deduzione di altissimo spessore giuridico, politico ed etico: ragionamento tendente alla scoperta dell’acqua calda. Forse, effettivamente e tutto considerato, ha ragione Lotti a rimanere al suo posto, anche se io, al suo posto, me ne sarei andato al primo accenno di indagine a mio carico. Ma questo fa parte della mia cronica “dimissionite” e non fa testo.

Se si strappassero tutti i veli…

In questi giorni è tornato d’attualità il dibattito sul velo quale simbolo religioso indossato dalle donne musulmane. L’occasione per ritornare su questo argomento, spesso affrontato con uno stupido contorno di ironiche supponenze occidentali, è data dalla sentenza della Corte di giustizia europea, che ha ritenuto legittimo interrompere il lavoro con una dipendente che indossa il velo, purché esista una norma interna all’azienda che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso.

Una sentenza piuttosto pilatesca, che sposta il problema e non lo risolve, che crea ulteriore divisione, che rischia indirettamente di alimentare ulteriori discriminazioni, che offre scappatoie alle emarginazioni di vario tipo.

La scorsa estate si era discusso parecchio sul burkini, la versione light del burka. Anche per quel caso erano scattati dei divieti a livello pubblico (spiagge, piscine ,etc). Fortunatamente, almeno in queste vicende l’Italia non è in prima linea.

Sono due (false) questioni piuttosto simili. Abbiamo sempre bisogno di simboleggiare i problemi, senza preoccuparci di ridurli a mere contrapposizioni teatrali, senza evitare la banalizzazione su cui scatenare infiniti, vuoti e mercantili dibattiti.

Forse tutto serve a (non) affrontare i problemi veri. Tuttavia anche l’adozione di certi usi ha o può avere un suo significato. Vietare   alle donne islamiche di indossare sul luogo di lavoro o negli uffici pubblici il velo, così come vietare in spiaggia una sorta di calzamaglia per potersi immergere in acqua senza mostrare le proprie nudità (lasciandole solo immaginare: a volte potrebbe avere una maggior carica erotica, quello che i musulmani vorrebbero evitare) viene interpretato in due modi.

In senso positivo quale impulso a interrompere la subdola e pretestuosa continuazione della deriva sessuofobica, maschilista e ipocrita dell’Islam nei confronti della donna. In senso negativo quale ulteriore discriminazione verso i musulmani, che finisce con l’implementare l’imposizione sulle donne costrette da obblighi duali, uguali e contrari.

Ho avuto modo di definire “pirandelliana” questa diatriba, perché ci sono versioni diverse e tutte ugualmente fondate e motivate. Nell’un caso ci si insinua nei comportamenti religiosi pretendendo di giudicarli e vietarli sulla base del principio della laicità o sulla scorta del principio di uguaglianza fra uomo e donna; nell’altro caso si vorrebbe evitare ogni e qualsiasi discriminazioni su base religiosa rispettando le culture, le tradizioni, che si esprimono anche nel modo di vestire.

Sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo o sotto il burkini quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile? Sarà una cosa seria impuntarci laicamente a vietare questi usi che peraltro stanno assumendo persino un pizzico di sana civetteria islamica?

Come spesso accade, mi pare lo avesse teorizzato Dante Alighieri, ci concentriamo sull’aspetto più superficiale di un problema per evitare di affrontarlo in profondità. La questione infatti non è burkini sì burkini no, velo sì velo no, ma il rapporto tra le religioni, tra stato e religione, tra uomo e donna in tutte le religioni, ma l’uso della religione per discriminare la donna, la presenza del laico antifemminismo, con diversi connotati e diverse intensità, in tutte le società di questo mondo.

La laicità dello Stato non si difende vietando i simboli religiosi che a volte stanno proprio a significare un forte richiamo al rispetto reciproco, alla tolleranza e alla pace, ma togliendo di mezzo comportamenti concreti discriminatori e razzisti.

Se ad esempio in un’azienda privata o in un ente pubblico si vieta l’esposizione ambientale e personale dei simboli religiosi e poi si trattano le donne come lavoratrici di serie b, si discriminano i musulmani o viceversa si discriminano i cristiani, si sopportano comportamenti lesivi della dignità delle persone, le donne in particolare, si licenziano i portatori di handicap perché non producono a sufficienza, ci prendiamo in giro tutti con o senza velo, con o senza croce al collo.

In conclusione voglio rilanciare un mio provocatorio e atroce dubbio, che fa arrabbiare tutti e che, proprio per il mio innato gusto di andare controcorrente, voglio riportare, senza tanti fronzoli e distinguo: siamo così sicuri che siano più emancipate le donne occidentali che esibiscono il loro corpo al limite dell’autocompiaciuta indecenza a confronto delle donne islamiche che nascondono il proprio corpo al limite dell’autocolpevolizzante rigore etico-religioso? Accetto pareri, obiezioni e persino contumelie.

 

Biotestamento tra assenteismo, bizantinismo e bigottismo

La discussione alla Camera dei Deputati sul biotestamento o sulla dichiarazione anticipata di trattamento è partita col piede sbagliato, non tanto per la sparuta presenza dei parlamentari nella seduta che ne prevedeva la discussione generale, ma per la contrapposizione tra chi considera nutrizione e idratazione cure rinunciabili e chi le considera trattamenti vitali e non atti medici e quindi irrinunciabili, nonché tra chi vuole che sia il paziente a decidere sulle cure e chi intende assegnare al medico una forte interferenza sulle decisioni del paziente.

Tutte le volte che mi capita di vedere le aule parlamentari deserte o semi-vuote mi sento profondamente ferito nello spirito democratico. Ricordo nitidamente quando ancora ragazzino ebbi l’occasione di visitare le aule parlamentari: l’emozione era grande, sentivo che in quei luoghi si era fatta e si faceva la storia istituzionale e politica italiana. Non ho cambiato idea. Voglio essere buono e comprensivo: forse le tante assenze sono dovute all’eccedenza quantitativa nel numero dei deputati e senatori, che riduce a mero mortificante votificio la vita dei due rami del Parlamento; forse sono troppe e ripetitive le funzioni, tali da creare confusione e smarrimento. Ma gli Italiani con il referendum costituzionale non hanno detto che il Parlamento andava bene così com’è? Allora…

Vengo invece ai bizantinismi dei difensori ad oltranza della (non) vita. Se per nutrirmi mi devono fare un buco nello stomaco o mettere un sondino naso-gastrico, chi mi vuol far credere che non siamo in presenza di atti medici? Questo è fariseismo puro. Perché non deve essere il paziente a decidere sulle cure? Non è sua la vita che è in gioco? Finito il suo turno il medico se ne torna a casa, mentre il malato resta inchiodato alla sua sofferenza insopportabile. Finiamola con questi assurdi atteggiamenti, che finiscono inevitabilmente in un concetto dolorista della vita a tutti i costi. La coscienza civile del Paese è nettamente favorevole ad una impostazione che va ben oltre i contenuti nel testo in discussione alla Camera; si approvi almeno quello che mi sembra già frutto di sufficienti mediazioni al ribasso.

Il biotestamento non è un obbligo, può essere cambiato in ogni momento; il medico resta sempre e comunque un punto di riferimento per il malato, i suoi familiari, il fiduciario, al punto che può intervenire con la sua decisione qualora siano intervenute nuove terapie non prevedibili al momento della sottoscrizione del biotestamento; questa legge non può dare adito a equivoci e non è l’anticamera di niente, se non un piccolissimo passo avanti nell’affrontare le problematiche del fine-vita.

Non è in gioco alcun serio contrasto tra sensibilità laica e cattolica, ma solo la bigotta difesa di principi astratti sulla pelle di chi soffre. Paola Binetti parla di eutanasia passiva e omissiva: adesso basta! Il Papa è Francesco e non Pio XII e poi il papa non c’entra niente. Questi rappresentanti del cosiddetto mondo cattolico devono capire e rendersi conto di essere membri del Parlamento Italiano e non della Confraternita xyz, anche perché con ogni probabilità ci sono preti e suore con idee molto più laiche, aperte e avanzate di loro.

Valga per tutti quanto scrive Enzo Bianchi Fondatore della Comunità monastica di Bose, che mi pare sgombri il campo da ogni appiglio dottrinale: «Ogni cristiano non contempla l’ipotesi di mettere fine alla propria vita né che altri lo decidano al posto suo, ma conserva la libertà di rifiutare ogni accanimento terapeutico e il ricorso a mezzi straordinari gravosi, come interventi chirurgici, che provocano maggiori sofferenze e non ottengono risultati. Alleviare le sofferenze del morente, anche a rischio di accorciare le ore di vita restanti, è non solo comprensibile, sia umanamente che cristianamente, ma anche necessario. La preoccupazione sovrana dovrebbe essere assicurare la miglior qualità di vita possibile anche nel morire».

Chiedo scusa a tutti, ma non ne posso più degli atteggiamenti dogmatici, nella vita della Chiesa, figurarsi in politica. È dal 1974 che mi scontro con queste mentalità e sarebbe ora di finirla. Sono seriamente intenzionato a fare il biotestamento e non voglio che sia Paola Binetti a rompermi i coglioni con dissertazioni sui sondini e roba del genere. Posso, onorevole Binetti, decidere in autonomia se accorciare la mia vita per evitare situazioni che provocano solo sofferenze? Nessuno imporrà a lei il testamento, ma pretendo che nessuno tolga a me il diritto di sottoscriverlo, in base, spero, ad una legge, che interpreti il comune sentire degli italiani e abbia il voto dell’auspicabile maggioranza dei parlamentari.

In potere di un Mandrake qualsiasi

Della tempestosa vicenda grillin-capitolina non mi stupiscono la clamorosa inesperienza (era quasi scontata), la notevole impreparazione (non ci si improvvisa amministratori pubblici a certi livelli), l’incertezza nel muovere i primi passi (è più che normale quando si comincia a camminare sulle proprie gambe), gli errori iniziali (al primm cavagn al vôl bruzä). Che mi lascia interdetto è la debolezza del sistema immunitario rispetto alle manifestazioni infette del potere.

Raffaele Marra, uomo indiscutibilmente legato al divenire del potere capitolino, riesce, con la collaborazione di Salvatore Romeo, altro chiacchierato personaggio, con una facilità estrema, stando alle carte dell’inchiesta in cui è coinvolto in prima persona, a diventare il burattinaio del grillismo romano, il suggeritore di Virginia Raggi, il play maker del nuovo (?) corso politico in Campidoglio.

«Ho messo in fila le cose per lo staff del sindaco. Ho segnalato incarichi e possibili retribuzioni. Ho lasciato tutto a Virginia Raggi»: questo scriveva Marra in vista delle elezioni. E pochi giorni prima del trionfo grillino mandava un messaggio a Romeo: «Domani ti mando un foglio Excel con i provvedimenti da adottare subito ed un foglio Word in cui ci sono i possibili incarichi e le possibili retribuzioni».

Ma chi era questo potentissimo soggetto? Il Mandrake della situazione? E Grillo dov’era? Il movimento cinque stelle si apprestava a curare l’epidemia capitolina affidandosi ad un portatore sanissimo della malattia? Il tutto ha dell’incredibile, anche se spiega quanto è capitato successivamente.

Qualcuno sospetta che l’ingenuità sia stata eccessiva e che ci possa essere stato qualcosa di più: un patto sporco per occupare il potere con disinvoltura ed amministrare senza scrupoli. Non arrivo a tanto, ma forse se si resta sulla mera ingenuità è ancor peggio. Della serie buoni ma stupidi, ben peggio che cattivi e intelligenti.

A Roma è partito infatti un tormentone che temo non finirà mai: c’è il punto critico nella radice e quindi…La capitale italiana in mano a un manipolo di imbecilli, manovrati da uno spregiudicato uomo d’apparato.

E questi signori vorrebbero governare l’Italia? Sappiano che nell’alta burocrazia ministeriale c’è ben più di un Marra qualsiasi. Gente capace di stritolare Grillo, Casaleggio, Di Maio, Di Battista e chi più ne ha più ne metta. Ma mi facciano il piacere. Il grave è che la gente non riesce a scoprire il gioco di prestigio. È talmente prevenuta da affidarsi a questi sprovveduti catapultati in politica per puro caso, che oltretutto cominciano a prenderci gusto.   E si pensava che potessero fare da argine per incanalare e rappresentare l’irruenta e generale spinta al nuovo. Andiamo proprio bene.

Ovviamente…non c’è niente di ovvio

Avevo un compagno di classe che, quando veniva interrogato a sorpresa, senza essere adeguatamente preparato, sciorinava dei “diciamo così” a tutto spiano, suscitando l’irritazione degli insegnanti e l’ilarità degli alunni.

Una cara amica di mia madre era invischiata in una serie interminabile di intercalari dialettali, che compromettevano gravemente il filo del discorso: “al fa’”, “al dis”, “at capì”, “al g’ha ditt”.

Molte persone più colte e raffinate si rifugiano in “è vero”, “mi spiego” e roba del genere.

Da qualche tempo va di gran moda “ovviamente”: non c’è personaggio rispettabile che non vi faccia ricorso con una frequenza assurda e irritante. Anche perché, mentre gli altri intercalari sono abbastanza neutri, questo assume un rilievo provocatorio: per il fatto che non c’è proprio niente di ovvio sotto il sole.

Giornalisti, commentatori, conduttori, attori, cronisti, politici, ministri, presidenti, chiunque insomma prenda in mano un microfono o se lo veda sbattere sotto il naso, ripiega su questa litania di “è ovvio”, “ovviamente” etc. etc.

Credo che le scelte a livello di linguaggio abbiano sempre un loro significato, al di là dell’effetto emulazione: se un grande e importante personaggio televisivo fa uso frequente di questi termini, finisce che chi ascolta, per non essere da meno, si lascia influenzare e ripete a macchinetta questo assillante “ovviamente”.

Partiamo dal vero significato dell’aggettivo “ovvio” con la sfilza dei suoi sinonimi: ciò che si presenta subito alla mente, di immediata comprensione, evidente, logico, naturale, patente, lampante, comprensibile, chiaro, facile, banale, lapalissiano. Innanzitutto quindi si potrebbe ogni tanto, almeno per rompere la monotonia, fare ricorso a uno di questi sinonimi: ne guadagnerebbe la brillantezza del discorso.

Credo però ci sia nel subconscio personale e collettivo la voglia di atteggiarsi a chi la sa lunga e che quindi può dare per scontato tanti concetti. Faccio un esempio: “questa legge in discussione dovrà, ovviamente, essere approvata dai due rami del Parlamento prima di entrare in vigore. Una volta entrata in vigore, ovviamente, dovrà essere rispettata dai cittadini e, ovviamente, applicata dai giudici.

Non è affatto ovvio che una legge presentata in Parlamento venga discussa e tanto meno approvata. Ammettiamo che succeda. In quel momento non è per niente ovvio che i cittadini la osservino: probabilmente è più ovvio il contrario, se vale il detto “fatta la legge, fatto l’inganno”. E i giudici? Tra lentezze, interpretazioni cavillose, punti controversi, contrasti con la Costituzione, prassi, giurisprudenza e dottrina, quella legge avrà ottime probabilità di finire nel conto delle tante fonti del diritto di cui (non) tenere conto.

Voglio raccontare in forma anonima un episodio effettivamente capitatomi durante   l’attività professionale. Stavo aspettando con ansia il varo di un provvedimento che esentasse le cooperative dall’imposta di registro in caso di aumento del capitale sociale.   Finalmente ebbi la certezza della sua approvazione dalle pagine del sole 24 ore: aveva pubblicato integralmente il decreto che entrava immediatamente in vigore. Dovevo procedere al deposito di un atto di aumento del capitale e quindi con una certa tranquillità informai il collega addetto all’esecuzione di queste pratiche. Dopo un paio d’ore ritornò e mi chiese: «Sei sicuro che questa norma sia stata approvata e sia in vigore? Perché   il funzionario addetto mi ha categoricamente smentito e allora per evitare guai ho ritirato la pratica e chiederei gentilmente a te di seguirla direttamente». Capito, ci penso io. Contemporaneamente mi chiamò il direttore di questa cooperativa che doveva presentare l’atto, dopo la sua registrazione, nell’ambito di una urgente e importantissima pratica di finanziamento pubblico. Gli spiegai l’inghippo e lo pregai di pazientare un minimo di tempo affinché potessi recarmi direttamente all’ufficio competente e sbrigare la faccenda. L’esenzione in ballo riguardava una cifra tutt’altro che insignificante, però alla cooperativa stava a cuore la pratica principale per cui, al limite, mi dissero, siamo disposti a pagare l’imposta pur di sveltire i tempi e le procedure. Capii il ragionamento, ma insistetti e mi recai immediatamente, con la documentazione necessaria, all’ufficio competente in materia fiscale.

Il funzionario mi disse innanzitutto, con una certa presunzione burocratica, che gli uffici pubblici dialogano con i pubblici poteri non tramite il Sole 24 ore, ma con le circolari applicative: fino a quel momento non era arrivato nulla al riguardo e quindi… Mi irritai immediatamente, anche perché pensai, senza dirlo, che al cittadino non è permessa l’ignoranza della legge, mentre al burocrate evidentemente sì. Non trattavo una mia pratica personale e quindi cercai di rimanere calmo e dialogante.

Spiegai che la legge era già in vigore e gliene porsi il testo, illudendomi che andando alla sostanza si sarebbe potuto superare la forma. Nemmeno per sogno. Il funzionario lesse attentamente il testo e mi disse che la mia interpretazione era sbagliata e che quindi la cooperativa, in quel momento da me rappresentata, doveva pagare l’imposta. La calma cominciava a farmi difetto, ma provai a spiegare la cosiddetta “ratio” del provvedimento che conoscevo da tempo, ben prima che fosse approvato definitivamente. Niente da fare, trovai il muro. Mi allontanai dalla scrivania di questo impiegato e uscii. A quel punto, per orgoglio personale, per rispetto dei diritti e per convenienza, decisi di andare a parlarne con il capo in testa. Per fortuna era presente e, seppure in modo molto freddo, mi accolse e mi fece descrivere la questione. Gli spiegai l’accaduto, gli misi sotto il naso il testo della legge, lo prese e lo lesse attentamente e pignolamente, più di una volta. Me lo restituì e mi disse: «Ha ragione lei!». Rinfrancato da questo primo risultato ebbi comunque l’ardire di chiedere il suo intervento sul funzionario in questione, dal momento che la pratica non poteva essere sbrigata dal capo, ma da quel suo testardo sottoposto.

«Mi faccia la cortesia, dottore, di informare il suo funzionario e di convincerlo al riguardo» gli chiesi con molto garbo. Capì, accettò, sollevò il telefono è parlò con l’impiegato del No. Niente da fare, compresi che anche lui stava trovando del duro, al punto che si alzò e mi disse di seguirlo: andavamo direttamente in bocca al “leone”. Dentro di me dicevo: “Sono curioso di vedere come va a finire…”. Il direttore spiegò il significato della legge, ma non riuscì a convincere il suo collaboratore, certamente irritato dal fatto di essere stato da me bellamente scavalcato. Cosa che non mi piaceva, ma a cui avevo dovuto fare ricorso: ad estremi mali, estremi rimedi.

Il direttore insistette, garantì di prendersi lui la responsabilità di questa decisione e finalmente la questione si sbloccò, l’atto venne regolarmente registrato in esenzione da imposta. Il direttore mi salutò con un piccolo accenno di sorriso e, se ben ricordo, aggiunse: «Ci vuole molta pazienza…». Ricambiò cordialmente il saluto e ringraziai.

Uscendo comunicai con un pizzico d’orgoglio l’esito della mia missione alla cooperativa, che incassò il risultato senza concedermi (giustamente dal suo punto di vista) nessun particolare merito.

Arrivai in ufficio, chiamai il collega che aveva iniziato la trafila di quella sofferta pratica e lo invitai caldamente a non rivolgersi più, per altre eventuali situazioni difficili, a quel funzionario testardo: i motivi li lascio intuire a chi avrà la pazienza di leggere questo raccontino.

Penso di essere stato chiaro e di avere reso l’idea del perché mi irrito, quando sento abusare dell’intercalare da cui siamo partiti. Non c’è niente di ovvio, prendiamone atto e soprattutto finiamola con questo pedante “ovviamente”. Caso mai, torniamo al classico “vero…”. Da ovvio a vero: forse è ancora peggio. Beh, allora, lasciamo stare e parliamo come mangiamo e come dice il Vangelo: Sì, sì’, No, no. Il resto viene dal maligno!

 

 

Il populismo alla viva il…sindaco

Il famoso musicologo Rodolfo Celletti, a proposito del pubblico e del loggione del Teatro Regio, diceva: «Quando strigliate qualche grosso cantante dimostrando di non avere timore reverenziale verso i mostri sacri dell’opera lirica, confesso che, sotto-sotto, ci godo; ma forse vi piacciono un po’ troppo gli acuti sparati alla “viva il parroco”…».

Nei giorni scorsi in concomitanza con le colorite, stizzite, orgogliose intemperanze napoletane verso la presenza del comiziante Matteo Salvini, precipitosamente convertito ai problemi meridionali dopo anni di insulti alla gente del sud, ho provato le stesse sensazioni che Celletti riservava al loggione di Parma: sotto sotto, pur capendo che il diritto di parola è sacrosanto e non lo si può certo negare ad un parlamentare della Repubblica, godevo nel vedere fortemente strigliato e sbeffeggiato un personaggio, che non è un mostro sacro della politica, ma che va per la maggiore e, come si suol dire, vuol far credere che Cristo è morto per il freddo ai piedi.

Poi però sono purtroppo arrivati gli acuti sparati alla viva il sindaco: sì, perché Luigi De Magistris si è talmente investito della parte da finire col fomentare, seppure indirettamente e involontariamente, i violenti, gli sfasciacarrozze, i quli hanno colto al volo l’occasione per scatenare la guerriglia urbana, finendo col fare un sommo piacere a Salvini, pronto a sciorinare il suo vittimismo ed a trasformare la meritata e sacrosanta contestazione in discriminazione e in comportamento anti-democratico. Si fa presto a passare dalla ragione al torto e viceversa.

Un populista che fa del sistematico ricorso alla pancia degli Italiani (li invitò a votare al referendum seguendo questi istinti intestinali) il proprio stile politico, non può scandalizzarsi e gridare al lupo quando il lupo si è stufato di essere preso per i fondelli e reagisce da lupo. Quindi non mi commuovo di certo alle lamentazioni strumentali di Salvini: è stato ripagato con la sua moneta. Punto e stop.

Mi sono invece stupito dell’eccesso di zelo dei Napoletani: non sono soliti fare ricorso alla violenza, preferendo generalmente lo sberleffo alla spranga di ferro. Evidentemente le infiltrazioni erano tali e tante da perdere il controllo della situazione. Vale anche per loro un richiamo: se si spinge troppo sull’acceleratore è fatale perdere il controllo della macchina e finire fuori strada. Posso capire l’insofferenza, l’orgoglio, la forte contestazione, ma non capisco e rifiuto categoricamente la violenza.

Un discorso a parte merita il sindaco di Napoli. Va bene che un sindaco debba stare dalla parte dei suoi concittadini, va bene che debba difendere l’onore e la dignità della sua città, va bene che si opponga strenuamente a chi vuole strumentalizzare i problemi del meridione per cavalcarli indegnamente, va bene che sia infastidito dal comizio di un politico che si è sempre dichiarato nemico delle genti del sud, va bene e posso capire. Da qui a cadere nella trappola degli sfascisti, dando la colpa al ministro degli Interni (cosa doveva fare?), c’è un bel pezzo di strada. Un sindaco non può comportarsi così: prima delle convenienze politiche viene la Costituzione Italiana, prima dei Napoletani vengono tutti gli Italiani (Salvini e c. compresi), prima di Napoli e dei suoi problemi viene l’Italia che fra i tanti problemi deve mettere anche quelli di Napoli. De Magistris ha risposto, in buona fede (glielo concedo sinceramente), al populismo leghista con il suo populismo, certo meglio di quello alla Salvini, ma sempre populismo è.

Mi sono ricordato dei tempi in cui a Parma negli anni cinquanta e sessanta non si accettavano i comizi dei missini: una volta aprirono il gas dell’impianto dell’ex Cobianchi in piazza Garibaldi e Giorgio Almirante fu costretto a interrompere il suo discorso ed a fare fagotto. Il missino Romualdi   non si azzardò mai a mettere piede in quel di Parma, dati i suoi trascorsi drammaticamente intersecanti la nostra città e le sue vittime dell’antifascismo. Anche allora si poneva il problema se certi personaggi politici potessero o meno vantare diritti costituzionali essendo nemici della Costituzione. Non è proprio il caso di Salvini, ma quasi. I sindaci parmigiani riuscirono però sempre a restare fuori dalla peggiore mischia, che tuttavia non arrivava ai livelli della guerriglia napoletana di questi giorni.

In conclusione, se è vero che De Magistris ha politicamente esagerato e sbagliato, e che quindi bisogna essere intransigenti verso di lui, bisogna essere molto più attenti e intransigenti verso chi sta portando il nostro Paese su una pericolosa deriva anti-democratica. Come fare? Tolleranza e rispetto sì, ingenuità e buonismo no.

Don Andrea Gallo diceva: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista! ». E Salvini non è molto lontano dal fascismo. De Magistris non si senta Dio. Noi però non dormiamo da piedi, per favore. Prima che sia troppo tardi.

 

Le primarie e le primine

Il tormentone del congresso PD è partito in quarta. Non si capisce bene se sia un congresso o se sia una campagna elettorale in vista delle primarie. Certamente un’altra cosa rispetto alle comunarie social indette dai grillini a Monza e in altri siti: candidature strappate sul filo delle poche decine di preferenze espresse sul web.

Paese strano l’Italia, dove chi è accusato di essere antidemocratico non finisce mai di discutere, consente una libertà di comportamento quasi paradossale ai propri parlamentari (non voto di fiducia al governo, campagna elettorale per il No al referendum, etc.), fa una conta dietro l’altra a tutti i livelli, mentre chi si atteggia a difensore della democrazia vive in regime autoritario (comanda uno solo, il resto è fuffa), non accetta contestatori, che al primo accenno vengono poco educatamente invitati a togliere il disturbo, candida a ricoprire cariche pubbliche i propri rappresentanti scelti in base a gassose consultazioni.

I casi sono due: o il partito democratico è tutto fumo e niente arrosto, tutta forma e niente sostanza, tutta scena e niente dramma oppure è una formazione politica che, seppure faticosamente e contraddittoriamente, cerca un contatto con la base degli iscritti e degli elettori; o il movimento cinque stelle è talmente carismatico da essere tutto arrosto e niente fumo, tutta sostanza e niente forma, tutto dramma e niente scena oppure è una formazione politica che non cerca il contatto con la base dei propri aderenti e dei propri elettori, ma dà ragione agli scontenti raccattandoli tutti e quindi non ha bisogno né di contarli né di farli discutere, anche perché aprendo il dibattito la ragione e il torto potrebbero diventare concorrenziali.

Le primarie del PD, un partito immaturo e lacerato, rischiano di radicalizzare all’italiana le contrapposizioni, creando lacerazioni difficilmente rientrabili all’indomani del voto, quando occorrerà ricompattarsi per andare alle successive istituzionali gare elettorali. Sinceramente, stando a quanto emerge dalla dialettica in atto, faccio fatica a capire se le differenze politiche fra Renzi i suoi competitor interni non siano l’anticamera di veri e propri partiti diversi. Non so se lo strumento delle primarie si attagli al nostro sistema partitico ed alla nostra tradizione politica: in teoria dovrebbe essere un passo avanti nel confronto e nel dibattito, temo che in pratica possa aggiungere solo benzina sul fuoco polemico; sulla carta dovrebbe essere un modo per ancorare la politica ai problemi concreti ed alle loro soluzioni, vedo invece che diventa l’occasione per rituffarsi negli scontri ideologici e nelle disperate ricerche di identità storiche e culturali; culturalmente parlando dovrebbe essere il marchingegno per fondere a caldo democrazia e leaderismo, mentre spesso diventa la fuga in avanti dei personalismi.

Gli strumenti non sono mai buoni o cattivi di per sé, dipende dall’uso che se ne fa. Se le primarie vengono celebrate all’acqua di rose (riservate agli iscritti) finiscono nel tritacarne degli apparati di partito che se le giocano dall’alto orientando la base; se si fanno sul serio scatenano una bagarre da cui i partiti possono uscire a brandelli.

L’overdose di democrazia può essere antidemocratica tanto quanto un’astinenza dai meccanismi democratici.   Tutto è relativo. Io tuttavia preferisco rischiare giocando all’attacco che chiudermi in difesa: meglio perdere quattro a tre che uno a zero all’ultimo minuto. Come nel calcio però, sono convinto che non si vince con gli schemi, con le tattiche, ma con giocatori validi, preparati, esperti e seri. Le primarie restano cioè solo un’opportunità, possono addirittura diventare delle “primine”, dipende da come e da chi le pratica.

Persino il Papa ha lanciato le primarie (molto soft, ma per la Chiesa è un fatto enorme…) per nominare il suo vicario a Roma: tutti potranno inviare le loro proposte, formulando anche nominativi, poi lui deciderà. Nelle novità introdotte da Francesco c’è propria la cifra sinodale: le vere primarie tematiche della Chiesa.

In questi casi l’ultima parola spetta al capo, ma, con tutto il rispetto per i capi politici, il Papa ha dietro le spalle un consenso piuttosto pesante, di quelli che non si contano ma si pesano. Speriamo non succeda come avvenne con Paolo VI, il quale aprì una grande consultazione sul problema del controllo delle nascite, sentì esperti, scienziati, teologi, commissioni, etc. Tutti dissero che la maggioranza dei pareri raccolti era favorevole all’uso degli anti-concezionali. Lui prese tempo, ci soffrì sopra e ne usci il capolavoro (lo è in tutti i sensi) di immobilismo dell’Humane vitae (e non ci si schioda di lì. È come per le riforme costituzionali italiane, bloccate quelle promosse da Renzi, se ne parlerà fra vent’anni nella miglior delle ipotesi).

Anche la Conferenza Episcopale Italiana, che si appresta a nominare il suo presidente, ha deciso di chiedere a tutte le diocesi ed ai loro vescovi di indicare almeno un identikit del futuro candidato. Strano atteggiamento quello della CEI: da una parte rifiuta la nomina in autonomia, come avrebbe preferito il Papa, dall’altra sceglie di rifugiarsi sotto la gonna del pontefice lasciando a lui la scelta all’interno di una rosa di tre candidati, dall’altra ancora imposta una consultazione della periferia. Si mettessero d’accordo. Posso essere malizioso? I vescovi amano comandare, ma preferiscono farlo dietro le quinte e senza rischiare troppo. Se ci scapperà un presidente non all’altezza del compito sarà tutta colpa del Papa, che in fin dei conti l’ha scelto e delle diocesi che ne avevano disegnato il profilo; se sarà un buon presidente sarà tutto merito loro che lo hanno selezionato democraticamente a due livelli, senza mancare di deferenza verso il Papa. Finezze da Vaticano III.

Legittima difesa… dall’odio e dalla paura

Di fronte a fatti di cronaca come quello della rapina notturna a Gugnano, in una locanda di paese, finita in tragedia, provo una grande pena a livello individuale, sociale e politico. Lascio alla magistratura lo scrupoloso accertamento dei fatti, che sostanzialmente non sposterà nemmeno una virgola del profondo e drammatico significato della triste vicenda.

Individualmente capisco la tragedia di un uomo che si addormenta cittadino esemplare, lavoratore indefesso, nonno premuroso e si sveglia omicida: un sogno orribile che gli rimarrà tremendamente impresso nella mente per tutta la vita. Sì, perché uccidere un tuo simile, anche se per legittima difesa o per istintiva reazione ad un’aggressione, anche se l’ucciso era un ladro che voleva violare i tuoi beni e, magari, i tuoi affetti, è pur sempre un atto contro natura, che inquieta la coscienza e segna l’esistenza. Quante volte quella scena gli tornerà alla mente e lo sconvolgerà, il tempo attutirà il colpo, ma non cancellerà un’esperienza tanto travolgente. Sì, perché anche quel cadavere ci deve fare pietà e ci interroga tutti. È morto un uomo! Ma era un ladro…Era un uomo prima e dopo di essere un ladro.

Non mi permetto di giudicare, mi chiedo come avrei (re)agito io in simili circostanze, cerco di condividere umanamente questo dramma. Auguro al ristoratore di Gugnano di risollevarsi positivamente da questa batosta: l’onestà che gli si legge in volto, la dedizione al suo lavoro, il senso della famiglia e della comunità lo aiuteranno a superare questo momento difficilissimo.

Sul piano sociale si intravede a monte di questa vicenda il corto-circuito tra delinquenza aggressiva e ansia difensiva, tra prepotenza e paura, tra scorciatoia dell’egoismo e   strada maestra della correttezza e del lavoro. A valle si prende atto dei limiti nella difesa della sicurezza dei cittadini, ma prima ancora dell’incapacità a cercare una soluzione ai problemi sociali che spesso stanno alla radice di tanta inquietudine e di tanta violenza. I ladri e i delinquenti ci saranno sempre, dice qualcuno. Non riusciremo a togliere dall’animo umano gli istinti bestiali, accontentiamoci di provare a togliere dalla cascina delinquenziale il fieno dell’ingiustizia, della ghettizzazione e della miseria.

Dal punto di vista politico si corre subito alle leggi. Certo, occorrono anche le leggi. Non escludo che una revisione delle norme in materia di legittima difesa possa essere utile, ma mi sa tanto di chiusura della stalla quando i buoi sono scappati o addirittura macellati. Sono convinto che un certo maggiore impegno delle forze dell’ordine sul territorio possa prevenire o almeno scoraggiare il dilagare della criminalità. Ma non riduciamo tutto alla lotta tra guardie e ladri: quello è un gioco che si fa da bambini. Se proprio vogliamo tuffarci nella nostra infanzia, quasi a ripulire le nostre esistenze, giochiamo almeno a fare “i dottori” per lenire le piaghe di una società malata.

Respingo quindi con tutte le mie forze lo sciacallaggio di chi strumentalizza questi eventi per giustificare l’uso improprio delle armi, per criminalizzare tutti gli immigrati, per avallare ed istituzionalizzare il clima di paura atto a giustificare le maniere forti a tutti i livelli.

Non illudiamoci di risolvere i problemi fomentando paura e reazioni violente, non cavalchiamo l’odio razziale, non vaneggiamo sull’inasprimento delle pene, non trasformiamo i problemi sociali in fantomatiche guerre politiche.

Gli episodi come quello di Gugnano sono purtroppo piuttosto frequenti: ci sconvolgono, ci interrogano, non ci devono chiudere in una egoistica difesa, ma ci devono aprire al mente e il cuore alla solidarietà umana e sociale. Non è facile, ma è l’unica strada che abbiamo davanti. Il resto lasciamolo ai demagoghi di turno.

La magistratura cincischiante

Reati gravissimi che cadono in prescrizione nelle more di procedimenti giudiziari ventennali o giù di lì; una giustizia che non arriva mai o giunge quando la vittima è morta e sepolta, magari dopo essersi suicidata; una giustizia che si contraddice spesso e che, dopo avere consentito una gogna mediatica in capo agli indagati, arriva ad assolverli a distanza di anni, quando la frittata della loro dignità è stata cucinata, mangiata e digerita; una giustizia che “assolve” quando l’imputato si è già tolto la vita; una giustizia che crea continuamente corto-circuiti tra indagine e colpevolezza; una giustizia zeppa di errori che incidono pesantemente sulla vita e sulla carriera di persone indagate e/ rinviate a giudizio con leggerezza, per poi vedere le relative inchieste archiviate o i processi terminare con assoluzioni; una giustizia che funziona male o funziona “troppo bene”, che rovina persone innocenti e lascia in pace i colpevoli.

Questa è una innegabile, seppur parziale, realtà, che dovrebbe far riflettere la politica, i giudici e l’informazione: intorno a questi tre poteri si articola il gioco giudiziario nel nostro Paese. Purtroppo il dibattito è storicamente falsato in partenza per la grande responsabilità del berlusconismo che ha messo la politica in guerra con la magistratura: la politica a difendersi fuori dal processo, con attacchi alla categoria ed ai singoli giudici, a sottrarsi ai giudizi tramite il varo di frettolose leggi ad personam, mirate ad ostacolare il normale corso processuale (immunità, prescrizioni, etc.); la magistratura a proteggersi vendicandosi con accanimenti e rivalse e scendendo apertamente sul piano di guerra con i politici nemici più o meno giurati. Ricucire un rapporto talmente deteriorato non è e non sarà cosa facile.

Bisogna tuttavia provare ad uscire dalle reciproche trincee. Come? Prima di ogni e qualsiasi riforma bisogna che gli uomini politici investiti di incarichi pubblici accettino di essere sottoposti ad indagini e a processi, senza gridare immediatamente al complottismo, senza strumentalizzare i “guai” giudiziari degli avversari, senza voler influenzare minimamente il corso della giustizia.

A loro volta i giudici devono essere rigorosamente portati alla difesa della propria irrinunciabile autonomia, ma molto attenti ad evitare anche il minimo sospetto di intromissioni in campo politico, scegliendo tempi e modalità di intervento inattaccabili, accettando che il corso dalla giustizia possa e debba essere riformato senza gridare allo scandalo, senza arroccarsi nel bunker dell’Asociazione Nazionale Magistrati, senza sentirsi vessati e criticati se qualcuno osa sottolineare carenze e manchevolezze piuttosto evidenti se non addirittura macroscopiche, senza dire dei No pregiudiziali a qualsiasi nuova regola si profili all’orizzonte parlamentare o governativo.

I media devono lavorare rispettando la dignità delle persone e la verità, difendendo con le unghie e con i denti il loro diritto-dovere di raccontare i fatti, senza violare segreti, senza falsi scoop, senza calpestare alcuna garanzia per gli indagati, senza condannare immediatamente gli inquisiti sulle prime pagine dei giornali, senza soffiare sul fuoco del giustizialismo, senza fare di ogni erba un fascio, senza giocare sulla pelle della gente con le intercettazioni pubblicate a vanvera.

Ci sono alcuni punti in sacrosanta discussione legislativa: i tempi della giustizia, le carriere più o meno separate, i mezzi e le risorse umane da investire, la regolamentazione dell’uso delle intercettazioni, la segretezza dell’avviso di garanzia, la produttività dei magistrati, l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione entro un periodo relativamente breve rispetto alla fine delle indagini preliminari, i tempi della prescrizione, le carceri, le pene alternative, etc.

Se si continua a nascondersi dietro la stucchevole contrapposizione tra garantisti e giustizialisti, se ogni potere difende l’orticello in cui coltivare ed innaffiare i propri privilegi, se la politica vuole insegnare ai magistrati a fare le indagini e i processi, se i magistrati intendono parlare continuamente e minacciosamente nella mano del legislatore, se i giornalisti si divertono a fare casino in mezzo all’incrocio pericoloso tra politica e giustizia, non si va da nessuna parte: avremo una giustizia sempre più inefficiente e ingiusta, una politica sempre più politicante e intrigante, un’informazione sempre meno obiettiva e corretta.

Arriveremo cioè alle peggiori riforme costituzionali possibili e immaginabili: un terzo ramo del Parlamento che controlli l’operato dei giudici e dei media; un terzo ramo della magistratura, quello della magistratura cincischiante e invadente che si aggiunga a quella requirente e giudicante;   un quinto potere, quello dell’informazione falsa e taroccata, che si sovrapponga al quarto, quello della stampa tradizionale. Poi faremo un referendum e magari, questa volta, vinceranno i Sì. Così va il mondo…