Quando la cura è peggio della malattia

Se da una parte emerge drammaticamente la povertà del dibattito politico consacrata e coltivata dal compiacimento mediatico, dall’altra parte, per rendere interessante e appetibile la partita, si scatena la ricerca, più gossipara che giustizialista, dello scandalo a tutti i costi, sbirciando gli intrallazzi tra i poteri dal buco della serratura.

Sul vuoto pneumatico della campagna elettorale penso di avere già dato. Mi resta da stigmatizzare il gusto sadico, al limite del masochistico, di scovare le combutte di potere che squalificano e condizionano la politica. L’occasione mi è offerta su un piatto d’argento dal chiacchiericcio intorno ai presunti rapporti affaristici tra Matteo Renzi e Carlo De Benedetti: l’ingegnere per antonomasia avrebbe speculato sulle azioni delle banche popolari in base a informazioni ottenute dall’allora premier in materia di riforma di questi istituti di credito. La questione, peraltro già archiviata dalla Consob e in via di archiviazione dalla magistratura, è rispuntata, più succulenta che mai, nel clima della campagna elettorale.

Dopo avere ascoltato un’esauriente intervista a trecentosessanta gradi rilasciata da Carlo De Benedetti, mi sono fatto l’idea che non esista materia per scandalizzarsi, strapparsi le vesti e crocifiggere il solito Renzi: la riforma era sulla bocca di tutti, gli scambi di opinione tra uomini di potere sono all’ordine del giorno, le manovre finanziarie sono l’alimento quotidiano delle borse, il capitalismo ha i secoli contati.

Resta in democrazia il problema dei rapporti tra i poteri, quelli istituzionali (legislativo, esecutivo e giudiziario) e quelli di fatto (economico, bancario, finanziario e mediatico). Silvio Berlusconi aveva risolto quasi tutto, concentrando in sé potere politico, economico e mediatico: dopo avere sfruttato le scie craxiane per accrescere e consolidare le proprie posizioni imprenditoriali e televisive, le traballanti situazioni economiche delle sue imprese gli consigliarono di prendere il toro per le corna e buttarsi nella mischia politica, chiudendo il cerchio in senso totalitario. Restava fuori dal giro solo il potere giudiziario, che diventò in effetti l’unico antidoto allo strapotere berlusconiano, ma invase anche il campo della politica creando i rischi di una interferenza, che permangono tuttora.

Da allora il sistema, dopo avere rischiato di diventare un vero e proprio regime, risente di questa triste esperienza: è un po’ come una persona che soffre di una grave malattia, non ne guarisce mai completamente e, invece di reagire e riprendere la vita normale, continua a ingigantire ogni sintomo di recrudescenza della malattia, finendo col mettersi a letto ad aspettare la morte. Gli antiberlusconiani sono evoluti, trasformandosi persino in antirenziani, non capendo di essere fuorviati dal “complesso del regime”, allargando l’esorcismo verso i potentati economici fino al punto da demonizzarli tutti e sempre, chiudendo l’analisi della società in un pericoloso provincialismo pseudo-etico per cui tutto è affarismo e conflitto di interessi e quindi, come ha acutamente osservato l’ingegner De Benedetti, di fronte ad una imbarazzata Lilly Gruber, rifugiandosi nella prospettiva di consegnare il Paese nelle mani del primo incompetente che passa, purché totalmente estraneo ai giochi di potere e immacolato giudiziariamente.

Per continuare nella similitudine medico-sanitaria, è come se, dal momento che diversi medici sbagliano le diagnosi e le terapie o addirittura mettono i propri interessi prima di quelli del malato, ci si affidasse ad un medicone qualsiasi, che ha il pregio di non avere mai confuso una gastrite con un tumore allo stomaco solo perché ha il difetto di non sapere nemmeno cosa siano.

Stiamo cioè correndo il rischio di gridare continuamente al lupo e di affidarci, per la paura, ad un cacciatore improvvisato che non ha mai abbattuto neanche una lepre e forse non sa neanche sparare. Siccome poi tutte le padelle sarebbero quasi uguali, meglio cadere addirittura nella brace.

Qualcuno invece, perso per perso, sussurra “arridateci er puzzone” e si prepara a ricadere nella padella berlusconiana. La padella renziana non sarebbe sufficientemente antiaderente all’influenza dei poteri forti e allora sotto coi grillini e succeda quel che deve succedere: muoia Di Maio con tutti gli italiani dell’antipolitica.

La satira allineata e scoperta

Sono incappato casualmente in uno dei tanti talk show televisivi: si trattava di quello imbastito da Giovanni Floris su La7. Sono stato trattenuto in quanto si stava esibendo, a livello di satira politica, Gene Gnocchi, personaggio generalmente gradevole e senza eccessive pretese intellettualistiche.

Nella faziosa, insopportabile e inconcludente sarabanda politica, accentuata dalla campagna elettorale, si è perso anche lui con una prestazione a senso unico, sotto l’occhio soddisfatto e accondiscendente di Marco Travaglio (sembrava avvertirlo: sparla pure di tutti, ma non dei grillini…). L’ho trovato scaduto in una satira a metà strada fra il giornalino studentesco e il papiro goliardico: tutto estremamente superficiale e scontato.

Innanzitutto non si può deridere chi generalmente e storicamente sale sul carro del vincitore (Bruno Vespa), salvo salire su quello grillino ancor prima che i cinque stelle vincano le elezioni: La7 è infatti scopertamente schierata con i suoi trimalcioni e con gli ospiti fissi. Altro che par-condicio… Persino la satira risente di questo orientamento e allora, quando è apertamente strumentalizzata, perde tutto il suo appeal.

Poi esiste il buongusto che Gene Gnocchi ha accantonato, speriamo solo momentaneamente. Ad un certo punto ha preso di mira Giorgia Meloni: è indubbiamente un personaggio che sembra fatto apposta per essere preso in giro. Ma associarlo all’immagine di un maiale-femmina soprannominato Claretta Petacci, ritengo sia una trovata che fa solo piangere.

Non ho niente da spartire col fascismo, ho assorbito una educazione più “afascista” che antifascista, mi sono formato politicamente aderendo a scuole di pensiero democratiche, ho militato nella Democrazia Cristiana, non ho mai avuto nessun tipo di nostalgia. Potrei continuare, ma non è il caso.

Tuttavia un’offesa così triviale, per una persona morta e sepolta, già abbondantemente punita (uccisa insieme a Mussolini), svillaneggiata e oltraggiata dopo la morte (il suo corpo appeso alle forche di piazzale Loreto), storicamente e forse ingiustamente associata alle malefatte del Duce di cui era amante, considerata malignamente come il simbolo dell’opportunismo femminile verso l’uomo di potere, mi sembra di cattivo gusto: così ho esclamato a gran voce davanti al video, anche se ero solo, ed ho immediatamente spento la TV.

Adriana Lecouvreur, protagonista della famosa opera di Cilea, di fronte alla perfidia della sua rivale in amore, afferma: «Ma perché mai discendere a tanta scortesia…». Lo chiedo a Gene Gnocchi, ma mi permetto di andare anche oltre.

Se avesse fatto satira durante il ventennio, avrebbe avuto il coraggio di dire della Petacci quel che ha detto l’altra sera? Ho seri dubbi a giudicare dalla frettolosa omologazione gnocchiana all’attuale corrente che tira verso il movimento cinque stelle, la sua immediata iscrizione al partito dei nani e delle ballerine di craxiana memoria. Due pesi e due misure: la Meloni associata all’immagine di una “zana” di nome Petacci, la Raggi con un bidoncino per la raccolta dei rifiuti della sua parte politica. La seconda è benevola satira, la prima è insulsa e inaccettabile cattiveria, soprattutto per una persona morta e sepolta.

Il papa e le provocatorie esigenze dei poveri

Il viaggio apostolico di papa Francesco in Cile è stato preceduto da polemiche e disordini avvenuti in quel Paese, sostanzialmente riconducibili, se ho ben capito nonostante la sordina mediatica applicata, allo spreco di risorse effettuato per la preparazione e lo svolgimento di questo evento a fronte dei gravi problemi socio-economici della gente cilena. Probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg riguardante lo scetticismo verso la credibilità della Chiesa nella lotta contro le povertà e le ingiustizie: della serie “predica bene, ma non si capisce come razzola”.

Ciò mi porta immediatamente a considerare il brano evangelico in cui l’apostolo Giuda, ben prima del tradimento, osa fare un appunto socio-politico in occasione dell’episodio della donna, probabilmente la Maddalena, che unge, senza ritegno alcuno, i piedi e il capo di Gesù. Giuda insinua un pesante dubbio: «Non si poteva utilizzare meglio questi costosi unguenti, vendendoli e dando il ricavato ai poveri?». Il Maestro non scende in questa polemica e risponde che Lui presto se ne andrà, mentre i poveri faranno compagnia ai discepoli per sempre e quindi invita Giuda a lasciare in pace la donna gli sta rendendo omaggio.

Cosa voglio dire? Mi sembra pretestuosa la polemica insorta: i problemi cileni esistono da prima della visita papale e ci saranno anche dopo e quindi la bella accoglienza riservata a Francesco non è in contrasto con le difficoltà del popolo cileno. Ricordo come nella mia famiglia, dove regnava sovrana la povertà, si facevano comunque i salti mortali per accogliere dignitosamente gli ospiti illustri e graditi.

Quando i papi se ne stavano rintanati in Vaticano venivano criticati per la loro lontananza rispetto ai drammatici problemi della gente, ora che girano il mondo li si critica perché farebbero sprecare soldi e tempo nei loro impegnativi viaggi. Quando capita un disastro, se i governanti non si recano sul posto, vengono accusati di insensibilità, se si recano in visita alle persone colpite, sono bollati come demagoghi e perditempo.

Francesco deve tuttavia fare i conti con l’apertura sociale che caratterizza il suo papato: i poveri sanno essere generosi, ma sanno anche essere esigenti. Non tocca al papa risolvere i problemi sociali, mancherebbe altro, ma bisognerebbe, come si suol dire, andare giù una mano di vanga: è quello chi si aspettano esageratamente le folle (era così anche ai tempi di Gesù).

Però bisogna usare molta accortezza e prudenza: forse   il Vaticano e la Chiesa a livello istituzionale e pastorale devono aprire in tutti i sensi le porte prima e più di quanto i diversi Paesi possano e debbano aprire le porte al papa.

In secondo luogo mi sembra che le linee politiche di questo pontificato siano lasciate un po’ troppo all’ammirevole, generosa e solidaristica improvvisazione papale. Manca il tessitore della tela internazionale, un segretario di stato all’altezza della nuova, problematica ed impegnativa strada tracciata da Francesco, che non è un papa politico come poteva essere Paolo VI, né un papa giramondo come poteva essere Giovanni Paolo II, né un papa dogmatico come poteva essere Benedetto XVI.

Ho l’impressione che manchi la squadra e che alla lunga questa debolezza possa condizionare gli innovativi proponimenti e compromettere gli esiti della coraggiosa azione avviata da Francesco. Detto brutalmente, Giovanni Paolo II se ne sbatteva altamente della curia e della dimensione clericale della Chiesa, guardava alla gente, arringava le folle, cercava le radunate oceaniche e,   mentre lui viaggiava, i porporati facevano i fatti loro.

Detto altrettanto brutalmente, papa Francesco non risparmia critica e rimbrotti alla Chiesa istituzione, suona la sveglia alla Chiesa comunità di credenti, testimonia al mondo una forte dimensione evangelica, ma tutto rischia di rimanere a mezz’aria o addirittura, in certi casi, di ritorcersi contro di lui. Forse il mestiere di papa è il più difficile che ci possa essere e non va valutato e giudicato con criteri umani. Chiedo scusa se mi sono permesso…

 

Renzi e la “sindrome di Baggio”

Non vorrei avere qualche allarmante deficit di memoria (alla mia età ci potrebbe anche stare), ma personalmente non ricordo una campagna elettorale così zeppa di cazzate sparate alla viva il parroco: una tira l’altra, come ciliegie che stanno guarnendo la torta politica in vista del voto.

Siccome tutte le parti in lizza hanno fior di consulenti mediatici alle spalle, ritengo che questa tattica della sparata venga considerata redditizia a livello di cattura del consenso. E allora i casi sono tre: o gli elettori sono talmente frastornati da lasciarsi incantare da chi la spara più grossa o siamo tutti in vena di scherzare, sia coloro che andranno a votare sia quanti si asterranno, oppure alla fine prevarrà il buon senso riesumato in fretta e furia di fronte alla valanga di sciocchezze.

Non invidio Matteo Renzi, il principale bersaglio di questi attacchi da destra, sinistra e centro: tutti, più o meno, direttamente o indirettamente, addosso al PD. Visto il livello culturale e politico degli attaccanti, considerati i pulpiti sgangherati da cui provengono le assurde prediche, forse si può riabilitare il famigerato detto “molti nemici, molto onore”.

Senza entrare nel merito delle polemiche (sarebbe tempo perso!) mi sento di dare un consiglio spassionato (in stile montanelliano) al leader PD: lasci perdere, parli poco, porti avanti un suo discorso concreto basato su pochi fatti del passato e poche proposte per il futuro. Parecchi sono i motivi che consigliano un profilo basso ed essenziale.

Innanzitutto le cazzate che girano sono tali e tante da rendere pressoché impossibile controbattere efficacemente a tutte: probabilmente chi le spara vuole trascinare tutti in una rissa totale in cui c’è solo da rimetterci in dignità e serietà. Avete presente quando a scuola si era interrogati assieme a compagni impreparati? Le domande giravano e anche chi aveva studiato e poteva esprimere risposte attendibili finiva, prima o poi, per sbagliare qualche colpo, per essere travolto dal vortice e per fare una pessima figura di fronte al professore incavolato per un così basso livello dei suoi allievi.

Fin qui la motivazione in negativo, ma ve n’è una anche in positivo. Ricordate quando il famoso e talentuoso calciatore Roberto Baggio arrivò finalmente in nazionale? Il vestire la maglia azzurra lo condizionò al punto da sentirsi obbligato di stupire pubblico e critica ad ogni giocata: quando gli arrivava il pallone voleva strafare, attirava su di sé tutti gli occhi e naturalmente si esponeva al rischio di deludere persino i suoi estimatori. Non vorrei che Matteo Renzi fosse catturato psicologicamente dal “complesso di Baggio”, intendesse dimostrare sempre e comunque di essere all’altezza della situazione e di ricoprire il ruolo del “miglior fico del bigoncio” (lo lasci fare a D’Alema, il Massimo specialista di questa disciplina).

E poi chi ha governato corre un altro rischio. Ai molti che inevitabilmente avrà scontentato deve aggiungere i molti in preda alla cosiddetta “sindrome rancorosa del beneficiato”: gli insegnanti messi a ruolo, i giovani del bonus cultura, i lavoratori del bonus stipendiale, i contribuenti che hanno pagato un po’ meno tasse, etc.

Infine c’è sempre in agguato il benaltrismo e lo svaccamento di quanto fatto da chi è stato al governo. Al riguardo ricordo quanto mi diceva un caro amico, un comunista serio e leale, all’indomani della instaurazione a Parma di una giunta comunale di centro-sinistra dopo tanti anni di amministrazione socialcomunista. Di fronte al frenetico attivismo dei nuovi amministratori qualcuno dei precedenti diceva “cosa vuoi che sia…”; al che il mio amico rispondeva piuttosto piccato ai suoi compagni di partito: «Se era così facile, perché in tanti anni non lo avete fatto?».

Concludendo, se Renzi vuole rilanciarsi, a mio modesto giudizio, non deve ripercorrere pedissequamente la precedente tuttologa esperienza, ma lasci giudicare agli elettori, tenga un atteggiamento semplice e lineare, vada al sodo, faccia poche chiacchiere e non si senta in obbligo di fare i goal di tacco, ma si accontenti di bei passaggi all’interno di un affidabile gioco di squadra.

 

La scampagnata elettorale dei cittadini perbene

Se il buon giorno si vede dal mattino, la campagna elettorale in cui ci stanno tuffando sarà decisamente insopportabile e insulsa: proclami che trovano disdetta nell’arco di poche ore, contrasti dialettici tra alleati di coalizione, pronunciamenti incoerenti, polemichette da quattro soldi, evidenti promesse da marinaio, clamorose gare a chi la spara più grossa, etc. Ci sono tutti i presupposti per trasformarla in una pericolosissima scampagnata qualunquistica.

Su tutto ciò aleggia da parte mia un dubbio atroce: questo modo, aggressivo, chiacchierone e paradossale, di porsi di fronte all’elettore alla fine pagherà? Sparare cazzate consentirà di conquistare un consenso, seppure superficiale e contingente? Siamo ormai così irrimediabilmente invischiati in un dibattito palleggiato fra i bar di periferia e i salotti televisivi, in cui non riusciamo a distinguere la finzione mediatica dalla realtà dei fatti? Abbiamo perso la capacità critica per distinguere, giudicare e votare di conseguenza?

Spero non si tratti di domande retoriche, credo, nonostante tutto, in un positivo rigurgito di coscienza democratica e di senso civico da parte dei cittadini. Voglio credere che alla fine gli elettori sappiano almeno scegliere il meno peggio, magari turandosi il naso, possano cioè accontentarsi del “poco realistico” rispetto al “molto fantasioso”. Le tre piste critiche dell’elettore medio potrebbero essere le seguenti riferite alle tre aree politiche in gioco.

Può un centro-destra, senza capo né coda, avere sufficiente credibilità dopo le lunghe e penose esperienze governative che, comunque la si rigiri, ci avevano ridicolizzato a livello internazionale e portato sull’orlo del baratro del default.

Può un centro sinistra diviso e rissoso, continuamente e masochisticamente autocritico, preoccupato soprattutto di difendere la propria fantomatica identità, incapace di pagare il prezzo politico alle sfide moderne, paralizzato in una classe dirigente molto choccante e poco lungimirante, rappresentare la capacità e la continuità di governo?

Può l’antipolitica dei grillini, chiusa in se stessa, svergognata dalle ormai troppe esperienze negative, totalmente incapace di esprimere una classe dirigente all’altezza del compito, portata solo ad improvvisare le ricette per stupire gli insoddisfatti, costituire un’alternativa di governo seria?

La risposta a questi dubbi amletici potrebbe portare l’elettore, come purtroppo sta già sempre più succedendo, all’astensione, motivata dalla mancanza di proposte minimamente credibili ed agibili. Oppure potrebbe invogliare il cittadino ad uno scatto di responsabilità e di concretezza, partendo dallo spirito e dalla lettera della Costituzione italiana, visceralmente, frettolosamente e strumentalmente considerata intangibile in occasione del referendum del 2016.

Avevamo allora solo voglia di scherzare, di ridimensionare Renzi, di protestare contro il presente ancorandoci al passato? Se non era così abbiamo la possibilità di dimostrarlo, di partecipare, di approfondire, di scegliere con la testa, di ragionare e di giudicare, ricordando che la politica non è fatta di contrasto infinito tra fazioni contrapposte, ma di sintesi tra le diverse opinioni e di mediazione tra le diverse proposte. Il compromesso ai livelli più alti, come ci dimostra proprio la Costituzione Italiana.

Siccome i partiti e gli schieramenti sembrano incapaci   di tornare ad un clima politico costruttivo, gli elettori cerchino di non cadere nella trappola e abbiano quel sussulto democratico che li sappia rendere “cittadini perbene”, fuori e dentro le urne.

La dietrogrillogia

Non posso credere che la candidatura a premier di Luigi Di Maio sia una cosa seria e non lo specchietto per le allodole di qualche altro progetto politico. Più vedo, più ascolto il presuntuoso e ignorante personaggio passato per caso davanti a Palazzo Chigi e voglioso di entrarvi non da visitatore, ma da protagonista, e più mi convinco che o il movimento cinque stelle è un colossale bluff oppure persegue un disegno al di sopra del nulla benvestito da Di Maio. Non sono l’unico che se lo sta chiedendo, anche in seguito all’atteggiamento piuttosto defilato assunto da Beppe Grillo.

Pur con tutto il rispetto e la più buona volontà non riesco a prendere sul serio il fatto che i pentastellati pensino di governare l’Italia mettendo in campo un politicante politichetto che fa il verso al politico. Silvio Berlusconi afferma che non lo assumerebbe in una sua azienda neanche come fattorino: non so dargli torto, pur consigliando al fu cavaliere di usare lo   stesso rigoroso metro di giudizio nella selezione dei suoi candidati e di quelli della sua sbracata coalizione.

Senza un minimo di classe dirigente si possono anche accumulare consensi e voti, ma quando si passa dal dire al fare casca l’asino: sta succedendo ai grillini perifericamente investiti di cariche amministrative, succederà a maggior ragione per il governo centrale con un candidato premier, che sembra ancor peggio dei suoi colleghi amministratori locali.

Allora diventa obbligatorio fare un po’ di dietrologia e sbizzarrirsi con alcune ipotesi nascoste dietro il paravento dimaiano. Una prima possibilità, di carattere squisitamente tattico, potrebbe essere riconducibile alla furbizia di Beppe Grillo: logorare questi saputelli, lasciando magari che si verifichi una caduta libera dei consensi, per poi rispuntare come salvatore della Patria mettendo tutti a tacere e spadroneggiando in modo trasparente l’intero movimento. Della serie “l’unico grillino doc è Beppe Grillo”, diffidate delle imitazioni. Discorso non molto lontano dalla realtà: ho sempre ritenuto che dietro Grillo non ci fosse nessuno a livello dirigenziale e che il grillismo sia un fenomeno legato verticisticamente a questo istrione, capace di raccontarla agli scontenti in vena di scherzarci sopra.

Una seconda ipotesi la potremmo definire “giustizialistico-mediatica”: una scheggia impazzita (?) della magistratura, appoggiata dai soliti opportunistici giornalisti, che prenderebbe in mano la situazione, esprimendo una buona fetta di governo in nome della velleitaria pulizia etica. Della serie “sgombriamo la politica”, arrivano i nostri: una sorta di riedizione del dopo-tangentopoli, allora interpretato da Bossi e Berlusconi pronti a sfilare il potere alla magistratura milanese, oggi monopolizzato da un gruppo di magistrati d’assalto vogliosi di scendere in politica sotto le bandiere pentastellate. Non ci vuol molto a immaginare cosa succederebbe ai vari Di Maio…e forse solo LeU si salverebbe essendosi vaccinata con l’antivirus Piero Grasso.

Una terza fantasiosa ipotesi potrebbe essere quella che titolerei “tecnico-elitaria”: i personaggi con la puzza sotto il naso, che finalmente trovano il modo di sfogare la loro rabbia antiregime. Una sorta di governo Monti a rovescio, che manda a casa i politici e i tecnici di regime. E, come spesso accade nella storia, ad un regime ne succederebbe uno ancor peggio…

Ho finito di fantasticare. Solo così riesco però a dare un senso alla non strategia grillina, in funzione delle elezioni politiche ormai vicine.   Se mi sarò sbagliato su tutto il fronte, cosa assai probabile, vorrà dire che gli italiani avranno valutato la prospettiva di essere gli utili idioti al seguito di Di Maio e di rischiare tutto (come teme Paolo Gentiloni) al seguito di niente. Cosa avranno deciso lo sapremo il cinque marzo: speriamo bene.

 

 

Il cesso ovale

Finalmente Donald Trump ha detto pane al pane e vino al vino. Si è manifestato: la potremmo chiamare “Donaldepifania”. Ha confessato di avere portato la politica presidenziale americana dallo studio ovale al cesso della Casa Bianca. Ha risolto il doppio significato del termine gabinetto: fino ad ora si chiamava così la compagine di governo, ma anche il luogo dove si vanno a fare i propri bisogni; da oggi in poi saranno la stessa cosa.

Purtroppo infatti aver definito un cesso alcuni paesi poveri, da cui escono i migranti per raggiungere gli Stati Uniti, non è stato un infortunio lessicale, una battuta esagerata e/o imprudente: rispecchia fedelmente la mentalità di Trump e il suo sostanziale link con l’elettorato americano e con il modo di pensare di molti cittadini del mondo.

Pensavo che la politica si fosse trasferita dai luoghi istituzionali ai bar. Molto peggio! Ha traslocato nei cessi, dove, oltre compiere alcune operazioni fisiologiche, si imbrattano i muri con scritte oscene, dove si sfogano i propri istinti primordiali.

Se si dà una rapida occhiata in giro per il mondo, ci si accorge che questo non è l’andazzo di una certa america egoista, protezionista e isolazionista, ma è lo stile politico emergente più o meno in tutto il globo. Papa Francesco parla con insistenza di terza guerra mondiale. Io comincerei a parlare di Apocalisse culturale ed esistenziale.

L’unica speranza che mi rimane è che con questa “autoconfessione del cesso” sia stato toccato il fondo: c’è sempre un incidente, un trauma che costringe a rientrare in se stessi, a ravvedersi, a tornare a galla. La goccia disgustosa che fa traboccare il vaso populista? A volte basta poco per far aprire gli occhi alla gente. Difficile, ma non impossibile.

A ben pensarci anche la cosiddetta Brexit rientra in questa perversa “deriva del cesso”. Gli Scozzesi sono stati profeti fuori dalla patria. La loro propensione – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti di un bar si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere…

Ecco la dimostrazione di quanto affermavo sopra in modo paradossale. Stiamo andando ben oltre la politica nei bar. Perfino in questi luoghi, tradizionalmente vocati agli sfoghi parolai e sporcaccioni, si può mettere un limite al populismo deteriore. Ci sono riusciti in Scozia. Ci riusciranno gli americani? E noi Italiani? Non siamo lontano dai cessi della politica. Torniamo almeno al bar e chissà… Un tempo c’erano i circoli ricreativi agganciati alle parrocchie ed alle sezioni di partito: voleva dire che si poteva tranquillamente passare dalle chiacchiere da bar alle cose più serie. Proviamoci ancora!

 

Ippoeresia papale

Papa Francesco ha offerto uno spettacolo al circo a oltre duemila tra bisognosi, senzatetto, profughi, detenuti e volontari. L’iniziativa è in linea con l’attenzione dimostrata dal papa verso gli artisti circensi, considerati come “creatori di bellezza”. Sono insorti gli animalisti che si sono rivolti assai criticamente al sommo pontefice, affermando per bocca della presidente Enpa: «La stragrande maggioranza delle persone e dei fedeli ritengono che l’amore per gli animali non debba essere sacrificato all’amore per il prossimo, ma al contrario faccia parte di un armonioso sentire, come oltre 7 secoli fa insegnava al mondo il Santo di cui Ella ha deciso di portare il nome».

È proprio vero quel che diceva mio padre: «Se casca un òmm, tùtti i ridon cmè i matt, se casca un caval, i dizon “pòvra béstia”. Assistiamo imperterriti alla carneficina quotidiana dei fuggiaschi dai paesi africani e ci scandalizziamo degli eventuali maltrattamenti subiti dagli animali utilizzati nei circhi equestri. Siamo pronti ad ascoltare gli insegnamenti di San Francesco inerenti il rispetto per la natura e gli animali, ma ce ne freghiamo altamente della sua testimonianza riguardo al distacco dai beni materiali e la solidarietà verso i poveri. Siamo intransigenti con i bambini che giocano in strada, ma siamo tolleranti con i cani che insozzano i marciapiedi.

Niente da ridire su chi tratta bene gli animali e li difende dalle violenze degli uomini, arrivo persino a considerare che anche per loro ci potrà essere una vita felice oltre la morte: il creatore ripescherà tutto e tutti in una creazione rinnovata e sublimata.

Tuttavia non nutro grande simpatia e affetto verso gli animali (è più forte di me), li rispetto, non farei loro il minimo sgarbo, ma   preferisco vederli nel loro habitat naturale. Non ho nulla da ridire sull’iniziativa di papa Francesco, anche perché non penso che con questo gesto abbia voluto sottovalutare o addirittura sorvolare sulle torture agli animali, ma esprimere un gesto di simpatica solidarietà a persone emarginate, offrendo loro gratuitamente uno spettacolo popolare per antonomasia: un dono semplice, che vede protagonisti artisti semplici e spettatori persone semplici. Anche questo è un armonioso operare.

Povero papa Francesco…ha tutti gli occhi addosso perché ha il coraggio di mettere in discussione se stesso e la sua Chiesa. Chi lo ritiene un eretico, chi lo considera un “rompiscatole”, chi lo bolla come populista, chi lo vede troppo progressista, addirittura lassista, chi lo giudica “molto fumo e poco arrosto”, chi lo giudica un demagogo evangelico, chi non vede l’ora che si tolga dai piedi, chi lo combatte con le furbizie curiali etc. etc. Lui lo sa e va dritto per la sua strada. Ha molti nemici, ma anche molti amici. Nella prima categoria sono entrati anche gli animalisti: pazienza…

Forse i protettori degli animali farebbero bene a girare intorno a casa mia: giorno e notte si lamenta un cane dimenticato e relegato in un piccolo recinto. Denunce e proteste non hanno sortito alcun risultato. Oltre tutto la prima volta che riuscirà ad aprirsi un varco nella recinzione che lo avvolge, avrà tanta cattiveria in corpo da sbranare il primo sfortunato che gli capiterà a tiro. Tutti piangeranno e imprecheranno, il cane verrà abbattuto e forse diremo “povera bestia”, dimenticandoci magari della persona sbranata. Così va il mondo e non certo per colpa di papa Francesco.

Qui si fa l’Europa o si muore!

C’era un mio simpatico e brillante conoscente, che alla moglie aveva affibbiato il soprannome di “Francia” a significare i rapporti coniugali piuttosto burrascosi e difficili. In effetti la storia parla di tensioni alquanto frequenti fra Italia e Francia. Ho tuttavia sempre avuto l’impressione che le difficoltà non siano state e non siano tanto dovute a divergenze di interessi e a differenti caratteristiche socio-economiche, ma ad uno spocchioso senso di superiorità, che i Francesi nutrono nei nostri confronti, considerandoci i parenti poveri.

Ricordo come mia sorella, nella sua solita schiettezza di giudizio, una volta si lasciò andare e parlò di “quegli stronzoni di Francesi”: non sbagliava di molto. Un conto è essere superiori su basi oggettive, un conto è ritenersi aprioristicamente migliori. Sono convinto che la Francia, come del resto l’Italia, abbia parecchi scheletri nell’armadio da nascondere e invece di cercare l’alleanza con i paesi più simili, con cui instaurare collaborazioni e solidarietà, ha preferito la fuga in avanti verso la Germania: della serie “è meglio leccare i piedi ai tedeschi” che condividere “la puzza dei piedi” con gli italiani.

Ecco perché ho seguito con un certo interesse gli incontri bilaterali di vertice tra Macron e Gentiloni-Mattarella, il presidente francese è infatti un non entusiasmante mix istituzionale tra presidente della repubblica e capo del governo. Al di là dei soliti convenevoli e degli scontati complimenti reciproci non ho visto in Macron una credibile inversione di tendenza rispetto al succitato andazzo. Addirittura, se non ho capito male, ci ha, seppure elegantemente, dipinti come la ruota di scorta nella strategia europea, come la riserva che gioca nella misura in cui i titolari restano in panchina.

Sarò prevenuto, ma ho avuto questa brutta impressione: mi augurerei di essere smentito dalla sostanza degli accordi, definiti pomposamente e ottimisticamente il “Trattato del Quirinale”. Il tempo è galantuomo e ci dirà se si è avuta una svolta storica, anche se ho notato che Gentiloni non ha voluto spendere una definizione così impegnativa.

Emmanuel Macron in questa prima fase della sua presidenza ha tradito molte entusiastiche ed esagerate aspettative: è malato di protagonismo (non è l’unico leader ad avere questa malattia) e non sembra avere una visione internazionale aperta e solidaristica.

Tutti i capi di stato in questo periodo si attestano innanzitutto sulla difesa degli interessi nazionali, poi vengono le alleanze e le collaborazioni: l’Europa vista così non mi piace e non mi convince. Di questo passo la Federazione la vedremo col binocolo.

In buona (meglio sarebbe dire in cattiva) sostanza ci sono tre modi eleganti di essere antieuropeisti e sono queste buone maniere, che mi spaventano assai più degli sbracati attacchi populisti. Abbiamo l’autonomismo inglese, sfuggito di mano agli inglesi stessi e quindi portato all’eccesso della Brexit. Abbiamo il protagonismo assoluto della Germania, la prima della classe che scrive alla lavagna i buoni e i cattivi e vuole dettare tempi e modi al processo di integrazione europea: della serie “o così o pomì”. Abbiamo la strategia del pesce in barile della Francia, che si accontenta delle briciole protagonistiche e lega l’asino dove vuole il padrone.

E l’Italia? Meno male che c’è Draghi, altrimenti saremmo trattati a pesci in faccia: abbiamo i nostri limiti e difetti, ma gli altri non ne sono affatto esenti. Resto sempre affezionato al grande presidente Pertini, che ripeteva: non siamo primi ma nemmeno secondi a nessuno. Cerchiamo di ricordarcelo e di scombinare coraggiosamente questi fili strategici europei, non tirandoci indietro ma accelerando, andando a vedere in mano agli altri, senza paura di aprire i nostri armadi. Nessuno in fin dei conti può darci lezioni di europeismo. Qui si fa l’Europa o si muore!

Fatta la Var, trovato l’inganno

Renato, un simpatico amico di mio padre, era un amante della compagnia e ad essa sacrificava i propri gusti: non gli interessava il calcio, ma a volte andava con gli amici allo stadio. Tutto pur di stare in compagnia, senza rinunciare alla propria personalità.

Dagli spalti lanciava le sue provocazioni. Durante la partita, magari in una fase piuttosto tranquilla a centro-campo, si metteva a gridare: «Opso! Arbitro, opso!». Era la sua versione dell’inglese off-side, fuori-gioco in italiano. A chi gli faceva osservare che il problema in quel momento non esisteva, rispondeva: «Cò vót ch’a sapia mi, andì sémpor adrè con cl’opso lì…». Faceva il finto tonto, in realtà sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma gli piaceva prendere in giro la gente nei suoi eccessi, anche quelli del tifo calcistico. Tra l’altro, dava sempre ragione all’arbitro. Quando tutti inveivano contro il direttore di gara, lui lo difendeva a spada tratta: «Al gh’à ragión, al gh’à ragión». Un provocatore nato.

Non ho idea di cosa direbbe Renato della Var, forse si chiederebbe: «Mo co’ éla c’la bagàja lì?». Fatto sta che… fatta la legge trovato l’inganno. Molte decisioni arbitrali, tramite la moviola in campo, sono state riviste e portate all’oggettività della situazione così come risultante dal video. Ero maliziosamente convinto che sarebbe cambiato qualcosa negli equilibri fra le squadre: le cosiddette grandi non avrebbero più potuto godere degli smaccati favori arbitrali e quindi la classifica ne avrebbe risentito. Sarebbe interessante rivisitare le partite di un campionato trascorso utilizzando lo strumento tecnologico, per vedere l’effetto che ne uscirebbe: forse lo scudetto potrebbe cambiare casacca.

Purtroppo le novità si stanno dimostrando vere fino ad un certo punto. Infatti laddove l’oggettività dell’immagine è indiscutibile (fuori gioco, gol fantasma, etc.) ci si può sentire relativamente tranquilli, ma rimane scoperta l’area di giudizio riconducibile alla volontarietà del fallo e soprattutto alla decisione di ricorrere o meno al supporto del Var (discorsi per i quali rimane una notevole discrezionalità arbitrale). Ecco quindi rispuntare il rischio (oserei dire la certezza) della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle squadre più blasonate: con il Var a disposizione i favoritismi diventano ancora più scoperti ed inaccettabili. Con il progredire del campionato sembra quasi che i direttori di gara si stiano ribellando al Var sfruttando i relativi loro margini di autonomia di giudizio a vantaggio dei club più influenti. Non se ne esce, non c’è Var che tenga!

Tutto sommato aveva ragione mio padre. Lui dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come le grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto che magari approfitta del potere che gli è stato concesso.

Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”. Di una cosa si spazientiva molto: non sopportava che l’arbitro ignorasse o invertisse gli interventi dei suoi collaboratori (segnalinee): “S’a fìss mi al guärdalinei andrìss da l’arbitro, a gh metrìss la bandiera sòtta al bras e andrìss fóra. Ch’al vaga avanti lu…”.

Oggi forse non accetterebbe che l’arbitro snobbi la Var, come sta succedendo in parecchi casi. Ma poi chiuderebbe le polemiche, così come faceva al termine di certe partite calde.

Il rifiuto della violenza e della polemica pesante era per lui assoluto e intransigente, non consentiva che mi attardassi a curiosare dopo la fine del match, tagliava corto e mi spingeva fuori senza possibilità di replica: “Andèmma a ca’ parchè nuätor, stasira, a ghèmma da magnär”. Una frase brutale, se volete, ma lapidaria, che rendeva l’idea sull’assurdità di un diverso comportamento.