Le olimpiadi del finto disgelo

Ripercorrendo in modo pressapochistico, per non dire spannometrico, la storia delle Olimpiadi, si fa molta fatica a capire fino a qual punto la più grande e importante manifestazione sportiva abbia influenzato la politica o sia stata condizionata e strumentalizzata dalla stessa.

In premessa bisogna precisare che di sportivo in senso classico e di spirito olimpico vero e proprio rimane ben poco: il dilagante e inarrestabile professionismo degli atleti, l’affarismo indotto dagli inevitabili interessi economici esistenti a livello di allestimento e gestione di questo enorme evento, la spinta mediatizzazione delle gare seguite con un’attenzione che va ben al di là dello sport, la spettacolarizzazione che ha soppiantato completamente l’agonismo partecipativo a vantaggio della ricerca della vittoria a tutti i costi (leggi doping e fenomeni annessi e connessi) hanno comportato un notevole snaturamento delle Olimpiadi al punto che certi Paesi (tra cui purtroppo anche l’Italia) preferiscono non offrire ospitalità a questo evento, ritenendolo fonte di inutili spese e di pericolosa corruzione.

Fatta questa doverosa premessa ritorno al dunque: al rapporto fra sport e politica. Dirò subito che non sono entusiasta dei venti di pace che sembrano partire dalle olimpiadi invernali coreane. Sempre meglio di una loro coniugazione in chiave squisitamente nazionalistica.

Tuttavia si tratta di un disgelo calato dall’alto, del mero sfruttamento di un occasione unica per riallacciare rapporti diplomatici e individuare qualche spiraglio di dialogo internazionale fra le due Coree, ma anche tra i loro referenti più o meno diretti.

Non è una spinta che sale dal basso, dalla rispolverata fratellanza tra atleti e sportivi delle più diverse nazionalità, etnie, razze e lingue: questi rischiano di ricoprire il ruolo di pedine sullo scacchiere politico internazionale seppure in senso pacificatorio. Spero che le olimpiadi coreane possano passare alla storia come l’inizio di un processo di pace in Asia e nel mondo intero, ma ciò e avverrà non sarà per la loro forza d’urto bensì per il loro facile palcoscenico.

Allora la distensione che ne potrà sortire non sarà forte e radicata, ma soltanto tattica e provvisoria, una sorta di armistizio fra Stati e non un ritrovato dialogo fra popoli: forse esigo troppo, ma temo che da uno sport, che non è più tale, possa derivare solo una pace che non è degna di tale nome.

Mio padre credeva molto nel significato e nella portata degli eventi sportivi, soprattutto delle olimpiadi al punto da scandire la propria esistenza sulla quadriennale ripetitività dell’appuntamento olimpico. Al termine di un’olimpiade chiedeva a se stesso: «Ci sarò alle prossime? Le potrò seguire e vivere come si deve?». Era più interessato ad essere presente alle olimpiadi che non al momento in cui l’uomo sbarcò sulla luna o sbarcherà su Marte. Un atto di fede nella natura umana e nelle sue inesauribili risorse a servizio della pace e dello sviluppo.

Assai curiosi erano i pulpiti da cui mio padre impartiva le sue lezioni di vita: i più improbabili, i più strani ma forse i più credibili. “Da che pulpito viene la predica” si è soliti dire per screditare l’imbonitore di turno.   Nel mio caso, o meglio nel caso di mio padre, il pulpito, per la sua immediatezza di postura e per la sua semplicità di struttura, conferiva credibilità proprio perché incastrato nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità più assoluta, garantendo l’enfasi del vissuto e l’autorevolezza dell’esperienza diretta. Il pulpito più spontaneamente praticato era lo stadio, quale sede fisica dell’evento sportivo, per meglio dire lo sport quale positiva e accattivante metafora della vita a livello individuale e sociale, quale capacità di coniugare competizione e rispetto reciproco, quale viatico per un’esistenza vivace ma pacifica.

09/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 11,29-32; 12,19; Salmo 80; Marco 7,31-37.

 

Riflessione personale

 

“Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti”, così la gente di Sidone esprime il proprio stupore di fronte al miracolo operato da Gesù con la guarigione di un sordomuto. Quante volte nella mia vita mi sono comportato da sordomuto: sordo alle necessità ed ai bisogni degli altri, muto davanti alle ingiustizie di questo mondo. E pensare che Gesù anche a me dice continuamente: “Effatà” cioè “Apriti”. Ma i miei orecchi tendono a rimanere chiusi e il nodo della lingua non si scioglie, anzi gli orecchi ascoltano sirene e la lingua snocciola sciocchezze. E pensare che, con il battesimo che ho ricevuto, dovrei essere anche “profeta”, non un mago che predice il futuro, ma un testimone nel presente. Come il profeta Achia: lacerò in dodici pezzi il suo nuovo mantello per dire a Geroboamo che avrebbe ereditato il potere di Salomone sulle tribù di Israele, tranne una a significare la continuità del regno di Davide. Le azioni simboliche dei profeti sono gesti non solo espressivi, ma già efficaci. Anch’io non dovrei solo predicare bene con la lingua, già meglio degli omertosi silenzi, ma razzolare bene con la testimonianza e con i fatti concreti.

Pane e Sanremo

Come ben si sa, non fa notizia che un cane morda un uomo, ma che un uomo morda un cane. Il fatto del giorno non è l’alto indice di ascolto televisivo del Festival di Sanremo. Che stupisce e fa notizia è la sbandierata soddisfazione della Rai e della sua dirigenza per gli 11,6 milioni di spettatori davanti al video. L’ente radiotelevisivo canta vittoria, ha preparato con un impegno incredibile questo evento e adesso enfatizza in modo spudorato il risultato ottenuto. La Rai ha sostanzialmente trasmesso il Festival di Sanremo a reti unificate, vista la scarsità qualitativa dei programmi alternativi; ha pubblicizzato per giorni e giorni questo spettacolo, con una insistenza ed un’attenzione degne di miglior causa; per una settimana Sanremo ha letteralmente monopolizzato la televisione pubblica.

Si tratta della vittoria di Pirro: grande share per la kermesse sanremese che accredita una Rai ricreativa a danno delle reti e dei programmi culturali. Ho notato come regolarmente nella presentazione dei programmi serali televisivi, Rai cultura e Rai storia non vengano nemmeno citati e pensare che dovrebbero essere il fiore all’occhiello della Tv pubblica.

Mio padre, che era un dissacratore nato, prevedeva, ai suoi tempi, che il popolino avrebbe facilmente osannato un divo dello spettacolo e probabilmente snobbato, se non pernacchiato, uno scienziato: il classico evento capace di distrarre l’opinione pubblica dai problemi reali, creando lo spazio per far passare sotto silenzio anche le più brutte situazioni. Diceva testualmente: «Se a Pärma ven Sofia Loren, i fan i pugn pr’andärla a veddor; sa vén Alexander Fleming i ghh scorezon adrè’…». Cosa contano infatti le morti scampate per merito dell’inventore della penicillina di fronte ad una sfilata divistica, come quella di Sanremo.

Non pretendo che la gente rinunci al divertimento, ammesso e non concesso che il Festival di Sanremo lo possa essere, vorrei che chi programma e gestisce la Rai si elevasse un tantino rispetto al piattume aculturale che caratterizza la nostra società.

In Italia non si può parlar male di Garibaldi (anche se qualcosa si è cominciato a dire…), né del festival di Sanremo (qui non è possibile mettere lingua). Ebbene ho “coraggiosamente” provato a sfidare mamma Rai, non basandomi su dissertazioni snobistiche, ma su eloquenti battute paterne.

Potrebbe capitarmi quanto succedeva, seppure in casi diversi ma analoghi, per le scorribande provocatorie di un simpatico amico di mio padre. Non era appassionato di calcio e amava ridicolizzare il tifo calcistico. A volte arrivava e vedeva tutta la clientela del bar schierata religiosamente davanti al video per seguire in diretta con enorme trasporto le partite, soprattutto quelle della nazionale. Li guardava, fingendosi sorpreso, e li apostrofava a suo modo: «Mo guärda quant cojón davanti a la televizjon…». E poi spegneva improvvisamente l’apparecchio: in quel periodo occorreva del tempo perché il televisore rientrasse in funzione e quindi tutti, privati della visione per qualche istante, magari decisivo, si incavolavano e gli urlavano improperi. Lui, dopo il misfatto, senza nulla aggiungere, se ne andava nella stanza attigua.

 

 

 

 

08/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 11,4-13; Salmo 105; Marco 7,24-30.

 

Riflessione personale

 

A Salomone non bastò la saggezza, in vecchiaia fu attirato dal culto verso dei stranieri e fu punito a livello della sua discendenza: a suo figlio fu tolto quasi tutto il Regno, consegnato a un suddito. Pur in una strana concatenazione di trasgressioni e punizioni, Dio dimostra la sua pazienza, concede sempre una via di fuga rispetto allo smarrimento della strada maestra.

Se non fosse così saremmo tutti spacciati. Una sera guardando il telegiornale in compagnia di mia sorella, tra le tante notizie deleterie ad un certo punto venne fuori un fatto di bontà e altruismo. Mi fu spontaneo commentare: «Dio sa che, tutto sommato e in fondo in fondo, non siamo cattivi, altrimenti ci avrebbe già spazzati via…».

Se nell’antico testamento la pazienza di Dio trova, a livello educativo, narrativo e divulgativo, qualche limite e qualche condizionamento, in Gesù, tolta ogni parafrasi, la pazienza diventa infinita. Con la donna greca, di origine siro-fenicia, Egli sembra però spazientirsi, discriminare questa invadente e insistente straniera: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». In realtà vuole solo testare le fede di questa donna, indipendentemente dalla sua etnia. Infatti la esaudisce dopo averla lodata per la sua convinzione a prova di bomba.

A volte, soprattutto quando mi accosto ai sacramenti con eccessiva spigliatezza scantonante nella superficialità, temo di praticare la fede come se fosse un distributore automatico in cui si introduce il gettone e si ritira quanto cliccato sul monitor. Forse prendo troppo sul serio la risposta minimalista della donna straniera: faccio la parte del cagnolino e mi accontento delle briciole che cadono dalla tavola dei figli. Dio però, anche se si accontenta di poco, vuole tutto, esige che crediamo veramente in Lui. Con la scusa della sua pazienza e bontà infinite, non vorrei finire col prendere in giro il Padre Eterno.

La ragion di stato mutila lo stato di diritto

Nel mondo sono 200 milioni le donne che hanno subito mutilazioni genitali e 3 milioni le bambine e ragazze che ogni anno rischiano di esservi sottoposte. Questi i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, diffusi nella giornata mondiale “Tolleranza zero”. Le mutilazioni si concentrano soprattutto in 30 Paesi africani, dell’Asia e nel Medio Oriente e riguardano in maggioranza ragazze sotto i 15 anni. I numeri sono in calo, ma tra il 2014 e il 2016 la tendenza si è invertita.

Siamo di fronte ad una colossale vergogna e non siamo capaci di fare nulla per rimuoverla. In una delle tante e belle trasmissioni di Rai Storia ho sentito un autorevole esperto esprimere un concetto: bisogna stare attenti a non farsi condizionare dall’etica nell’impostare la politica internazionale. Capisco, ma non sono assolutamente d’accordo e capovolgerei la preoccupazione: non ci si deve fare influenzare dagli equilibrismi politici di fronte alle questioni etiche.

Vedendo un servizio televisivo sul processo ad Adolf Eichmann, il famigerato gerarca nazista, ho potuto ascoltare alcuni passaggi della requisitoria del procuratore, in cui   affermava di non essere in presenza di una persona, ma di una creatura che non aveva più niente di umano, una bestia, forse ancor peggio di una bestia.

Se uno Stato ammette la mutilazione genitale delle ragazze si mette su un piano animalesco a prescindere dalle motivazioni. Il male trova sempre qualche scusa: i nazisti eseguivano gli ordini, i comunisti difendevano il proletariato, i terroristi islamici combattono i senza-Dio, i mutilatori difendono l’onore e la purezza delle donne.

Con uno Stato che ha questa considerazione primitiva della donna non si può bere nemmeno un caffè, altro che farci affari e tenere rapporti diplomatici. Certo c’è un rischio: sono talmente tanti i Paesi in cui si ledono i diritti umani, non ultima la Turchia di Erdogan, che si rischia di scartare più di mezzo mondo, lasciando magari al proprio destino una parte considerevole dell’umanità.

L’imbarazzo del Papa, del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio, che hanno concesso udienza ad Erdogan, era palpabile, si notava un clima di cordialità piuttosto forzata. Prevale sempre però la cosiddetta ragion distato.

Bisogna dare atto al partito radicale di avere promosso diverse importanti iniziative su questo scottante fronte, partendo dalla constatazione che l’uso sistemico della Ragion di Stato ha trasformato circa 150 dei 193 Stati nazionali in “democrazie reali”, laddove le norme giuridiche formali positive vengono calpestate e si va contro lo Stato di diritto, contro i diritti umani, contro il diritto alla verità e il diritto umano alla conoscenza di ciò che lo Stato fa in nome della legge e della legalità e per conto dei cittadini nel cui nome governa.

Solo quando sapremo subordinare gli affari e i rapporti internazionali al rispetto delle persone, potremo pensare di vivere in un mondo civile. Diversamente continueremo a bluffare, a metterci a posto la coscienza con pianti coccodrilleschi, a separare il piano etico da quello politico, ad ammettere nel consesso internazionale Paesi che trattano le donne come esseri inferiori, ad accettare il rapporto storicamente schizofrenico tra il potere de facto delle “democrazie reali” e il sistema del diritto positivo sulla base dei diritti umani, dei trattati e delle convenzioni delle Nazioni Unite.

Chi fa politica porta questa enorme responsabilità sulle proprie spalle e non potrà essere tranquillo finché in alcune parti del mondo si calpesteranno anche i più elementari diritti della persona umana. Vediamo di ricordarlo ai politici, invece di chiedere loro una parziale e settaria difesa dei nostri particolari diritti. Oltre tutto ci illudiamo di stare al coperto quando c’è chi vive allo sbaraglio.

07/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 10,1-10; Salmo 36; Marco 7,14-23.

 

Riflessione personale

 

Quanti sensi di colpa ha creato la Chiesa imponendo regole, anche in campo sessuale! Quanti equivoci sono sorti, anche in questa delicata e insondabile materia! Da una parte il mio carattere piuttosto scrupoloso mi ha portato a cadere in questa trappola, dall’altra parte però ho sempre avuto la forza interiore di ribellarmi a questa visione disciplinare della religione. Mi sono provocatoriamente creato una convinzione: quando sarò davanti a Dio per essere giudicato, non mi verrà contestata la mancanza di astinenze e digiuni, anche nella mia vita sessuale, ma mi si chiederà piuttosto quanti poveri e bisognosi abbia snobbato. E lì andrò in crisi…Qualcuno mi rimprovera di essermi costruito una religiosità a mio uso e consumo. Forse non ha tutti i torti, ma, quando rileggo quanto detto da Gesù a proposito “del puro e dell’impuro”, mi confermo nella mia convinzione: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive…».

Il discorso vale a livello individuale, ma persino in campo internazionale. La regina di Saba, un Paese della penisola arabica, andò a far visita a Salomone, re d’Israele, probabilmente per allacciare rapporti di carattere commerciale, ma prima volle sondarne le rette intenzioni e gli pose molte domande, alle quali Salomone rispose in modo esauriente. Il problema in fondo è sempre quello delle regole: non valgono tanto i trattati, ma la saggezza nel governare. Non conta la pulizia formale, vale quella del cuore. “Chi ha fatto il bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi”: lo dice Gesù.

 

A ognuno il proprio mestiere

Ho letto con incredulità la notizia: messaggi di solidarietà per Luca Traini sono stati espressi in strada al suo avvocato Giulianelli, che però definisce l’azione del suo assistito come ”scellerata”. Traini è la persona che ha ferito sei immigrati intendendo vendicare il delitto di Pamela, la ragazza probabilmente sbranata da una banda di nigeriani spacciatori di droga, identificando in essa la nazione italiana rovinata dagli immigrati.

È la prima volta che sento un avvocato difensore ammettere così lucidamente e sinceramente la colpa del proprio assistito, prendendo   addirittura le distanze dalle improvvisate e assurde manifestazioni di solidarietà. Il legale così afferma: «Politicamente c’è un problema: la solidarietà con Traini è allarmante, ma dà la misura di cosa sta succedendo. Questa classe politica: destra, sinistra, centro, come ha trattato il problema dei migranti? Se questo è il risultato… La destra l’ha strumentalizzato, la sinistra l’ha ignorato e sottovalutato. Luca è la punta di un iceberg, la più eclatante, da condannare, ma la base è molto più vasta».

Non posso che complimentarmi con l’avvocato Giulianelli per la sua sintetica, impietosa ed esauriente fotografia della situazione. Dovrebbe indurre tutti a riflettere prima di sparare a vanvera. Mi sento però eticamente in dovere di aggiungere qualcosa alle parole di questo bravo professionista. Prima della politica, che effettivamente mostra tutte le sue lacune, dovrebbe venire il cervello e il cuore delle persone: per capire innanzitutto che il fenomeno migratorio non è la fine del mondo, ma è solo la normale ribellione di gente disperata che reagisce per sopravvivere; per ammettere convintamente che tutti abbiamo diritto a vivere, senza sottilizzare e senza fare distinzione fra le grida disperate che comunque ci giungono.

Egoisticamente si trova sempre un motivo per non soccorrere il prossimo disperato. Pensiamo alla parabola del Buon Samaritano: passò un levita, un ministro di culto e andò oltre, passò un sacerdote e andò dall’altra parte della strada, fecero finta di non vedere o trovarono nel loro cervello una scusa, magari dovevano andare al tempio per pregare oppure dovevano sbrigare importanti questioni. E quel poveraccio rischiava di morire se non fosse passato un samaritano, uno squallido personaggio da emarginare: un Traini a rovescio, che, invece di ammazzare o lasciar morire un uomo di altra razza considerata nemica, lo aiuta facendosene carico, senza fare tanti distinguo, senza indagare sul perché il percome si trovasse in quella disgraziata situazione.

Oggi, in coerenza con gli indifferenti della parabola, diciamo: dobbiamo prima dare lavoro agli italiani, dobbiamo innanzitutto preoccuparci dei “nostri” disperati, dobbiamo difendere la nostra identità, dobbiamo difendere la nostra religione e via discorrendo. Anche di fronte alle leggi razziali contro gli Ebrei, molti uomini e parecchi Stati si voltarono dall’altra parte: avevano problemi più importanti da risolvere…

Non scarichiamo quindi le colpe sulla politica, assumiamoci, da uomini, le nostre responsabilità e smettiamola di barare con noi stessi. Fatta questa pulizia mentale a livello personale, potremo cominciare seriamente a discutere di immigrazione. Non si può, nei ragionamenti, partire dalla fine, criminalizzando gli immigrati e solidarizzando con chi   spara loro addosso. Il legale di Traini ha già fatto un bel pezzo di strada, adesso tocca a noi. Lui ha dimostrato di saper fare il mestiere di avvocato, noi siamo piuttosto lontani dal dimostrare di saper fare il mestiere di…uomini.

06/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 8,22-23.27-30; Salmo 83; Marco 7,1-13.

 

Riflessione personale

 

Un giorno, improvvisamente, un simpatico collega aprì la porta del mio ufficio e mi chiese a bruciapelo: «Se tu avessi davanti Gesù Cristo in persona, cosa gli diresti?». Risposi senza alcuna esitazione: «Gli direi una parola sola: perdonami!».

Oggi trovo un importante riscontro nelle parole che Salomone, nella sua grande saggezza, dopo aver consacrato il tempio con la presenza delle tavole della Legge, pronunciò, pregando così: «Ascolta la supplica del tuo servo e di Israele tuo popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora, dal cielo; ascolta e perdona».

Gesù, ben più di Salomone, non si preoccupa se i suoi discepoli prendono cibo con mani sporche, si scaglia contro farisei e scribi, che non si umiliano davanti alla grandezza di Dio, ma si accontentano di osservare le tradizioni degli uomini, mere norme igieniche assurte ipocritamente a misuratrici di fede.

Se scribi e farisei di oggi, viste le mie ripetute trasgressioni, per la verità molto più gravi del mangiare senza lavarsi le mani, mi chiedessero conto del mio comportamento, risponderei loro: «Non mi preoccupo delle vostre prescrizioni, ma del comandamento di Dio, quello dell’amore e, se contravvengo a questa legge, ne chiedo sinceramente perdono a Lui. Di questo mi preoccupo, il resto…».

 

Lavorètt, lavorón e lavoréri

Confesso che le votazioni più striminzite negli esami del corso di laurea in Economia e Commercio le ho avute in matematica e statistica. Niente di strano quindi che faccia una certa fatica ad interpretare i dati riguardanti l’andamento occupazionale nel nostro Paese: gli ultimi segnano un calo della disoccupazione al 10,8%.

Anziché insistere sulla scomposizione di questo dato, che sembra fatto apposta per accendere discussioni, riconducibili più o meno al discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, preferisco ripiegare sul numero dei disoccupati che risultano essere 2 milioni e 791.000: una fotografia piuttosto impietosa, che rende l’idea del grave problema occupazionale, da cui discendono drammatiche conseguenze sul piano economico e sociale.

In parallelo a questo dato ne emerge un altro riguardante gli occupati in nero, cioè quei lavoratori che vivono in un cono d’ombra non monitorato: sarebbero, secondo il focus Censis-Confcooperative, oltre 3,3 milioni, persone più o meno sfruttate, nascoste od auto-nascoste a fini di evasione fiscale e contributiva, nonché per coprire illegalmente doppi o tripli lavori.

Non riesco innanzitutto a capire se il dato del lavoro nero sia compreso o meno in quelli dell’occupazione e della disoccupazione che l’Istat ci propina: mi chiedo cioè se i 2.791.000 disoccupati siano al netto degli occupati in nero oppure al lordo. Nel primo caso arriveremmo ad avere sei milioni di persone non a posto dal punto di vista lavorativo, per mancanza di lavoro e per   mancanza di regolare inquadramento. Nel secondo caso invece facendo la somma algebrica tra disoccupati e lavoranti in nero avremmo addirittura un saldo positivo, anche se non è detto che i disoccupati lavorino o possano lavorare in nero; certamente però, pur prescindendo da valutazioni di carattere legale e morale, la situazione lavorativa globale sarebbe assai meno drammatica di quanto appaia. Di lavoro ce ne sarebbe, anche se in parte sommerso.

Se aggiungiamo i posti di lavoro che le aziende non riescono a coprire per mancanza di preparazione professionale a livello di offerta, il discorso occupazionale si ridimensiona o almeno assume connotati diversi, perché alla scarsità, precarietà, irregolarità e fraudolenza della domanda si accosta un’offerta impreparata, indisponibile e financo truffaldina.

Sarebbe importante chiarire i termini della questione, mentre il dibattito, anche quello elettorale, resta ingessato fra chi vanta in questi anni un milione di posti di lavoro in più e chi smonta masochisticamente il miglioramento considerandolo la vittoria di Pirro del lavoro precario su quello a tempo indeterminato. A questi ultimi risponderei che è sempre meglio lavorare senza certezze che non lavorare per niente in attesa di certezze, che forse non arriveranno mai.

Qualche tempo fa un amico mi ha raccontato un episodio quasi sconvolgente in materia di lavoro per i giovani: un’azienda in fase espansiva aveva ingaggiato un giovane per lanciare commercialmente un nuovo prodotto inquadrandolo con un contratto part-time in attesa di verificare le prospettive di mercato. Dopo la fase iniziale fortunatamente positiva, sia per l’azienda che per il lavoratore, diventò fattibile la trasformazione del rapporto in full time, se non ché il giovane lavoratore rifiutò la proposta con la motivazione del tempo libero: lui doveva garantirselo in quanto appassionato ed assiduo frequentatore di palestra ginnica. Spero non sia un comportamento emblematico, ma temo che in materia di lavoro occorra fare chiarezza a livello di mercato, a livello aziendale ed a livello personale.

Per trovare un’occupazione, precaria o definitiva che sia, bisogna innanzitutto avere la mentalità e l’assoluta disponibilità al lavoro, poi viene il resto. Sono stato educato in tal senso in modo quasi esagerato ma giustissimo. Quando mi si prospettò quello che sarebbe stato il lavoro di tutta la mia vita, ebbi qualche perplessità nell’accettarlo dal momento che sembrava non proprio confacente alla mia preparazione scolastica e molto impegnativo a livello di responsabilità e di orari. Chiesi consiglio al mio miglior amico, il quale da tempo era inserito nel mondo del lavoro. Non si perse in chiacchiere, mi fulminò con una battuta dialettale eloquente e non ammise repliche: «Bèca, bèca!». Beccai, vale a dire accettai quel posto di lavoro e si rivelò impegnativo ma soddisfacente. Erano altri tempi, ma…

 

05/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 8,1-7.9-13; Salmo 131; Marco 6,53-56.

 

Riflessione personale

 

Mantengo ancora intatto il mio innato e debordante senso religioso e del sacro, che esprimevo già da bambino, trascinando in chiesa mia nonna paterna, durante le passeggiate mano nella mano (mi dava dolcemente atto di essere disciplinato e di non mollare la presa: era così buona che non si poteva metterla in difficoltà). Nonna Annetta (la Netta per tutti) si lamentava scherzosamente di me dicendo: “Mo guärda coll ragas chi: ch’al me tira in ceza, mi che gh’ són mäi andäda”.

Non basta però andare in chiesa. I più acuti e sferzanti osservatori politici sostenevano che Giulio Andreotti andasse in chiesa per confabulare coi preti, mentre Alcide De Gasperi ci andava per pregare. E io cosa ci vado a fare? Sì, perché tutto dipende da cosa cerco, varcando la soglia del tempio. Quando Salomone trasferì l’arca dell’alleanza nel tempio, solo dopo che i sacerdoti furono usciti Dio ne prese possesso tramite la nuvola in cui abitava. Mi viene spontaneo richiamare una battuta piuttosto anticlericale, secondo la quale se si cerca un prete non si deve pensare di trovarlo in chiesa, ma altrove. Può avere però un doppio senso: quello di essere tentati di scantonare nel profano, ma anche quello di non illudersi che il senso religioso della vita si esaurisca frequentando le chiese.

I contemporanei di Gesù lo cercavano insistentemente, lo asfissiavano, non lo lasciavano nemmeno respirare: volevano le guarigioni, i miracoli, i segni portentosi. Cercavano un liberatore: quelli dotati di senso politico dall’oppressione romana, gli altri dalle sofferenze umane. Poi, quando si arrivò al dunque, rimasero delusi e gli si rivoltarono addirittura contro. E io, quando arrivo al dunque, cosa cerco e cosa faccio?