20/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Isaia 55,10-11; Salmo 33; Matteo 6,7-15.

 

Riflessione personale

 

Un giorno mio padre, davanti allo strazio di una tremenda malattia che stava divorando suo cognato sacerdote (mio zio Ennio, santo protettore), osò formulare una critica al Padre Eterno: dava una forza inesauribile a Gino Bartali (in quei giorni aveva trionfato al tour de France), mentre mio zio era progressivamente paralizzato in carrozzina. Penso non avesse niente da ridire sul valore etico e sportivo di Bartali per cui nutriva ammirazione e simpatia. Intendeva fare un altro ragionamento umanamente spontaneo. Fu rimproverato bonariamente: «Lascia perdere…Dio sa perfettamente quanto deve fare, non vorrai insegnarglielo tu…».

Dice Gesù: «Pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate».  E allora a cosa serve la preghiera? A stare in compagnia con Dio! Quando amiamo intensamente una persona non ci stanchiamo di esserle vicino, di dichiararle il nostro amore, di mostrarle il nostro affetto: non gli chiediamo dei favori, al contrario ci mettiamo a sua totale disposizione, siamo pronti a ringraziarla e a confidarle i nostri sentimenti. Penso che la preghiera, a maggior ragione, possa essere così: senza pretese assurde, ma con il cuore aperto e con la certezza di essere ascoltati ed aiutati in tutto.

Il Padre Nostro, lo schema per il nostro modo di pregare, non prevede una sfilza di domande, parte dalla volontà di Dio e dalla sua Parola efficace che ci trasforma, chiede solo tre cose fondamentali, che presuppongono nostri precisi impegni: il pane da condividere, il perdono da concedere, l’aiuto per vincere il male col bene. Il resto lo potremmo definire “fuffa orante”.  Dio ha già fatto tutto: ci ha creati, ci ha redenti, ci aspetta per la vita eterna. Ci crediamo o no!? È pur vero che sa compatire la nostra debolezza, la nostra pochezza, la nostra testardaggine. Guai a noi se non fosse così.  Saprà sicuramente sciacquare in Paradiso le nostre indegne e vuote preghiere. Non approfittiamone però e cerchiamo di essere seri.

In piazza…ma per dialogare

Non ho capito se i moti di piazza che stanno scoppiando in varie città italiane ad opera di gruppi e frange giovanili siano una reazione impulsiva ai rigurgiti fascisti, siano una protesta sociale per i tanti problemi irrisolti, siano una ribellione totale verso la società: forse di tutto un po’, un pericoloso mix riveduto e scorretto che la storia ci riconsegna. Provo ad esaminare criticamente le tre suddette ipotesi.

Combattere il risorgente e stupido sentimento fascista scatenando la violenza che arriva a sfogarsi contro le forze dell’ordine sembra un ingenuo ma colpevole errore da tutti i punti di vista: cadere nella trappola di portare la rissa ideologica sulle piazze è sbagliato ed è il modo per mettere impropriamente fascismo ed antifascismo sullo stesso piano violento, riducendo la democrazia a mero scontro tra nostalgie di segno opposto.

La protesta di fronte alle palesi ingiustizie del nostro sistema e verso la politica che non riesce a interpretare le istanze giovanili non può scadere a questo livello di violenza gratuita: il ribellismo sociale, confusamente e genericamente inteso e praticato, non porta da nessuna parte, serve solo a esorcizzare il rinnovamento e a sprofondare ancor più la società nel qualunquismo populista.

La contestazione globale ha fatto il suo tempo ed ha combinato seri disastri illudendo, rovinando e deviando le ansie giovanili sul terreno del terrorismo fine a se stesso. Quindi non serve indulgenza, ma precisa ed inequivocabile condanna verso atteggiamenti e comportamenti inammissibili ed inaccettabili.

Detto questo i problemi rimangono: esiste una risorgente simpatia per le scorciatoie nazifasciste davanti alle quali non so se la nostra democrazia sia attrezzata culturalmente  e politicamente a fare il doveroso argine; la politica fa molta fatica a interpretare le ansie di rinnovamento ed è più portata ad alimentare e cavalcare le paure e le sfiducie; le nuove generazioni oscillano fra l’apatia e la violenza e non trovano riscontri positivi sul piano sociale e politico.

Torno col pensiero alla mia giovinezza: anche allora i problemi non mancavano, anzi erano maggiori di quelli attuali. Tuttavia la politica, seppure imprigionata nel gioco ideologico, riusciva a scaldare i cuori; la protesta, seppure presuntuosamente globalizzata, aveva un senso culturale; il dialogo politico, seppure condizionato dagli schieramenti politici, sapeva allargarsi e volare alto. Le degenerazioni ci furono e ne soffriamo ancor oggi le tristi conseguenze. Nella mia classe si discuteva della guerra nel Vietnam, del rapporto tra cattolici e comunisti, di una scuola aperta al mondo, di pace e giustizia, di valori divisivi e condivisibili.

Il mondo è cambiato: stiamo meglio dal punto di vista economico, ma siamo a terra dal punto di vista culturale. Siccome la cultura non è erudizione, ma capacità di porsi di fronte alla realtà, siamo in gravissime difficoltà. In passato la violenza diventò lo sbocco politico di una cultura impazzita, oggi rischia di rappresentare lo sfogo antipolitico di una cultura inesistente. Togliamo di mezzo quindi ogni e qualsiasi tentazione violenta, rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo a discutere e dialogare, a riscoprire la piazza come luogo di incontro culturale e non di scontro politico.

 

19/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Levitico 19,1-2.11-18; Salmo 18; Matteo 25,31-46.

 

Riflessione personale

 

Proiettiamoci alla scena finale della nostra esistenza o meglio alla scena iniziale della nostra vita eterna, al giudizio a cui saremo sottoposti: roba da far tremare le vene ai polsi. Un termine ricorrente nella predicazione di papa Francesco è quello della misericordia: un Dio misericordioso che ci concede e chiede misericordia. Stando a quanto dice Gesù nel Vangelo, in una prospettazione strabiliante nella sua semplicità, saremo giudicati sulla misericordia che avremo usato verso i nostri fratelli bisognosi di aiuto: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. Ci sono tutti e non la possiamo scappare. È questo il contrappasso divino: Dante Alighieri nella travolgente genialità della Divina commedia aveva previsto il meccanismo, ma non il parametro.

Da una parte mi sento sollevato perché non sarò chiamato a rispondere meramente delle trasgressioni commesse, dall’altra parte mi preoccupo perché sono tanti coloro che mi hanno teso e mi tendono la mano, mentre io faccio finta di non vederli, volto la faccia, mi giustifico con “l’avere già dato”, mi creo l’alibi di latta del “non poter aiutare tutti”. Sono atteggiamenti che davanti agli uomini vanno benissimo, ma davanti a Dio mi costeranno cari. Anche perché Dio non chiede l’impossibile, ma si accontenta di poco: un bicchiere d’acqua, un piatto di minestra, una parola buona, una visita, un piccolo aiuto. Tutte cose che possiamo fare: ce le chiede Lui in persona.

Tutta la sequela di comandamenti, regole e prescrizioni ce la siamo costruita noi per divagare rispetto al nocciolo della questione e confondere le acque della religione. Bisogna andare al sodo. È tutto talmente chiaro che non potremo accampare scuse, il giudizio ce lo potremmo dare da soli. Non c’è regolazione dei flussi di immigrati che tenga, non scarichiamo sull’assistenza sociale e sugli enti di volontariato, non nascondiamoci dietro lo Stato che non funziona, non pensiamo che le carceri siano la soluzione dei problemi, non difendiamo solo la nostra sicurezza. Siamo interpellati personalmente e dobbiamo rispondere a chi ci chiede aiuto, altrimenti comunque ne risponderemo davanti a Dio.

I candidati premier coperti e scoperti

La Costituzione italiana, nel caratterizzare parlamentarmente la nostra democrazia, non dà direttamente al popolo il potere di nominare il capo del governo e quindi anche dopo il 04 marzo prossimo sarà il Presidente della Repubblica ad affidare l’incarico di premier e, su proposta di quest’ultimo, a formare la compagine di governo, che poi dovrà ottenere la fiducia dalle due Camere. Fin qui il dettato costituzionale alla faccia di quanti vorrebbero che le elezioni politiche riguardassero anche la scelta del Presidente del consiglio tra i candidati proposti dai partiti politici e/o dai loro raggruppamenti: una finzione mai come ora destinata fortunatamente ad essere ribaltata dal Quirinale prima e dal Parlamento poi.

Nella bagarre elettorale, tra la tanta confusione sparsa a piene mani, si sta giocando al toto-premier in modo assurdo e paradossalmente ingannevole. Partiamo dal partito che si presenta solo soletto e che quindi dovrebbe avere, almeno in teoria, meno problemi a formulare la sua candidatura a premier: lo ha fatto investendo frettolosamente Luigi Di Maio e assegnandogli la parte di un allievo corridore ciclista che vuol scalare le Alpi e i Pirenei. Oltre a fare i conti con un’incredibile inadeguatezza culturale e politica, gli stanno scoppiando in mano alcune bombette puzzolenti: non so se arriverà sano e salvo al 04 marzo, forse dovrà prendere in mano il pallino il fintamente defilato Beppe Grillo, il salvatore della patria pentastellata che, con un colpo di teatro, potrebbe essere il deus ex machina pre e/o post elettorale (speriamo solo pre…).

Il centro-destra è monco a livello di leadership dal momento che Silvio Berlusconi non può ricoprire, salvo clamorosa sentenza della Corte Europea, incarichi pubblici per condanna penale. Si è aperta quindi una gara interna alla coalizione: chi voterà uno dei partiti del centro destra indicherà indirettamente il premier della coalizione, una sorta di elezioni primarie all’interno della consultazione elettorale vera e propria. Ma non è finita qui perché Forza Italia gioca a carte coperte con un candidato di cui si conoscono le qualità e non il nome: un pizzico di giallo per un partito azzurro e per una gara grigia.

Il centro-sinistra dovrebbe puntare per motivi statutari e politici sulla candidatura di Matteo Renzi. Sta prendendo tuttavia corpo una candidatura di riserva assai gettonata a livello interno e internazionale, quel Paolo Gentiloni ritenuto l’uomo giusto per il governo in uno strano e tardivo endorsement di Romano Prodi, improvvisamente riapparso sulla scena elettorale dopo aver fatto per diverso tempo lo schizzinoso gioco della suocera bisbetica e non domata.  Anche questa coalizione non avrebbe un candidato secco, ma un titolare in super-allenamento con una panchina di riserve di lusso (Gentiloni ed altri).

Il pretenzioso partito di Libertà e Uguaglianza tende a giocare la gara per suo conto tenendo coperti alleanze e uomini per la prossima legislatura: punta in alto, ha nomi di un certo sinistro spessore (?), ma assomiglia, con licenza parlando, a quel bambino che voleva imitare il padre nel pericoloso sfogo della pernacchia e finì col riempire le proprie mutande di…

Non sarebbe meglio se partiti e coalizioni facessero un atto di umiltà verso la Costituzione, riconoscessero le proprie debolezze, ammettessero le loro carenze di leadership, curassero i loro programmi, aspettassero il responso elettorale e rimettessero al Quirinale e al Parlamento il discorso del nuovo governo? Ecco perché ho scritto sopra che è una fortuna che la finzione – tale è come abbiamo visto la gara partitica elettorale per il premier – non conti nulla, dal momento che dovrà entrare il gioco il Capo dello Stato, il quale, sulla base dei dati elettorali, della conseguente configurazione parlamentare e del quadro politico complessivo, farà le sue scelte. Non lo invidio, ma lo stimo e sono sicuro che non si farà condizionare da questa insulsa preventiva partita a poker.

 

18/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Genesi 9,8-15; Salmo 24; 1Pietro 3,18-22; Marco 1,12-15.

 

Riflessione personale

 

“Venga il tuo Regno” preghiamo nel Padre nostro. Ma il Regno di Dio non si è già instaurato con la venuta di Gesù, la sua Passione, Morte e Risurrezione? L’antica alleanza, simboleggiata anche dall’arcobaleno, non ha trovato pieno e totale compimento nella Risurrezione e nel nostro Battesimo che ci salva?
Come scrive Pietro nella sua lettera, il Battesimo però non è una pulizia una tantum, ma l’inizio sacramentale di un cammino continuo di conversione. Dice Gesù all’inizio della sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo». Ogni volta che mi accosto al sacramento della confessione ho la logorante e stressante impressione di dovere ricominciare tutto da capo: ciò che ho fatto fino a quel momento non varrà nulla? Son forse un cristiano alla Penelope? Da una parte sono condizionato dal mio innato perfezionismo, frutto di orgoglio, presunzione e superbia: sotto sotto penso di potermi salvare con le mie forze e allora, quando mi accorgo che la situazione è assai diversa, mi scoraggio, tendo a lasciare perdere.
Dall’altra parte mi riprometto continuamente di essere perseverante, di camminare e di rialzarmi dopo le cadute, ma non ci riesco e non capisco che senza di Lui non posso fare nulla. Forse è questa la tentazione di fondo che mi tormenta e infatti l’invocazione del Padre nostro che sento molto mia è: non indurci in tentazione, da intendersi non abbandonarci nella tentazione, aiutaci a vincerla. Sarebbe già tanto, visto che le cadute si ripetono nel tempo, riuscire a rialzarsi immediatamente, non restare sui colpi, non fermarsi e ancor meno andare indietro. Il dono della perseveranza, una qualità della mia Madre celeste e della mia madre terrena: me la ottengano loro, perché io rischio di soccombere e di rovinare tutto. Il tempo passa e invece di avvicinarmi al Regno di Dio, temo di allontanarmene. Quel poco di buono che posso aver fatto e che farò, non per merito mio ma per grazia di Dio, Lui non lo dimenticherà, mentre le mie colpe saranno cancellate. Il mio bilancio spirituale è in profondo rosso, solo Dio è un ragioniere che riesce a quadrarlo. Ciò non toglie che la mia aziendina fallimentare debba cercare di rimettersi in sesto.

 

Le sciarade politiche

“Mi chiedo se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze, a fascismo finito, non sia un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per veicolare il dissenso”: così scriveva, nella sua spietata lucidità, Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia.

Ebbene Matteo Salvini sull’antifascismo dice di pensarla come Pasolini. A parte la comoda e scorretta estrazione di una frase dal contesto ampio di un ragionamento provocatoriamente articolato e complesso, a parte la strumentale trasposizione nel tempo di un giudizio legato ad un certo periodo storico, a parte la differenza incolmabile fra questi due personaggi, a parte il fatto che Pasolini contestava un certo antifascismo in senso antifascista e non in chiave revisionista, ho provato anch’io (scorrettezza per scorrettezza) a fare un esercizio politico-lessicale, sostituendo alcune parole nella frase presa a riferimento dal leader (?) leghista, in un curioso copia incolla quasi demenziale, ma, tutto sommato, significativo.

“Mi chiedo se questo razzismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze, a razzismo finito, non sia un’arma di distrazione che la destra populista usa sulla gente per veicolare la paura”: questa parafrasi pasoliniana ci starebbe a pennello. Non si può infatti sostenere che nel 2018 l’antifascismo sia una finta battaglia per poi cavalcare a più non posso tutti gli “ismi”, che del fascismo furono elementi costitutivi e alimentativi: razzismo, populismo, nazionalismo etc.

Non è possibile e non ha senso sostenere, come fa Salvini, che “l’antifascismo del 2018 sia la battaglia di una sinistra che parla di passato perché non ha un’idea di futuro”, quando il passato riverbera spaventosamente i propri fantasmi su un presente pieno di incognite e rischia di proiettarsi in un futuro angosciante e ripetitivo.

Che la sinistra faccia una certa fatica a coniugare passato, presente e futuro è la sacrosanta verità, ma ciò non avviene per lo stucchevole richiamo ai valori dell’antifascismo, ma per l’incapacità di tradurli in una visione avanzata e moderna. L’antifascismo non è una pagina scolorita e logora da voltare, è ancora un’imprescindibile risorsa valoriale a cui attingere e da cui partire.

Che la lezione storica su fascismo e antifascismo debba venire da Matteo Salvini, un demagogo passato per caso nel nostro Paese e financo nel suo partito, è il massimo. D’altra parte l’attuale fase politica italiana, e non solo italiana, è caratterizzata dalle lezioni impartite da nani a un’opinione pubblica smemorata e ballerina. Berlusconi fa il verso a De Gasperi (europeismo), Salvini a Pasolini (antifascismo), Di Maio a Berlinguer (questione morale). Seguendo i bei programmi di Rai storia mi viene continuamente spontaneo fare un parallelismo fra i personaggi politici del passato e quelli attuali: un esercizio accademico, ma istruttivo. Stiamo facendo la vignetta alla politica.

Pensiamo alla sbandierata battaglia moralizzatrice grillina. Questi simpatici (?) amici si ritrovano con liste piene di voltagabbana, di profittatori e di massoni: non hanno capito come la democrazia sia una conquista lenta e faticosa, che non può essere improvvista con un clic su internet. Così come Salvini non ha capito che sull’antifascismo non si può scherzare e che tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna si rischia grosso, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “. Cosa abbia o non abbia capito Berlusconi, non l’ho mai capito (la ripetizione è voluta); di una cosa sono certo: ha ben presenti i suoi interessi privati e li vuole camuffare da interessi pubblici. In conclusione siamo in balia di molte trappole e continuiamo a caderci dentro.

 

 

 

17/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Isaia 58,9-14; Salmo 85; Luca 5,27-32.

 

Riflessione personale

 

Dal momento che Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi, mi sento addosso quel perentorio “Seguimi!” che Egli disse al pubblicano Levi. Con una piccola differenza: mentre Levi ebbe il coraggio di abbandonare il suo banco delle imposte lasciando tutto per seguire Gesù, io non ho avuto finora la volontà di cambiare radicalmente il mio modo di pensare, di essere e di agire. Tutti i giorni sento questo invito: a volte lo ignoro, a volte mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro, a volte lo prendo sul serio, ma poi mi perdo. Levi dopo avere risposto alla chiamata preparò un gran banchetto nella sua casa: ha vissuto con grande e condivisa gioia il suo cambiamento.
Forse è questo che mi manca: continuo a concepire l’impegno cristiano come una rinuncia, come un costo da pagare, mentre invece è un investimento sicuro, un gioioso cambio di passo, che coinvolge e fa bene anche gli altri.  Dio, tramite il profeta Isaia, snocciola una serie di “se” al comportamento degli Ebrei: fa loro capire che avranno tutto da guadagnare. Gesù arriva a sedersi a tavola coi pubblicani ed i peccatori, non si lascia condizionare da giudizi e pregiudizi: in mezzo a questa folla ci sono anch’io. Quando in certe occasioni liturgiche si prega per i peccatori scatta in me una riserva mentale, una sorta di invertito egoismo del peccatore: meglio se prego per me, ho troppi peccati per pensare a quelli altrui, ne ho a sufficienza dei miei.
Seduto fra i peccatori, vicino a Gesù, mi sento a casa mia. Poi dovrebbe venire il resto. Dopo essere stati dal medico, bisogna seguire le sue prescrizioni altrimenti… L’importante, che mi concede speranza, è la disponibilità del medico a tutte le ore, anche le più impensate e insensate, è sempre pronto a riprendere la terapia, ma il malato deve voler guarire: è così per le malattie del corpo, a maggior ragione per quelle dello spirito.

Da ex capitale a capitale il passo è lungo

Frequentavo la quarta classe dell’istituto tecnico commerciale: in questa scuola c’era l’usanza di iscrivere in un albo d’onore (sic!) gli allievi che si distinguevano per il loro profitto. Alla fine del primo trimestre avrei avuto i requisiti per quella iscrizione (nessuna insufficienza), ma avevo un voto basso in condotta (eravamo stati nella mia classe tutti puniti per alcune marachelle) e quindi persi “l’onorificenza”, per la verità senza grosso dispiacere da parte mia. Quando l’insegnante, che nutriva grande stima nei miei confronti, mi diede con un certo rammarico questo annuncio di fronte a tutti i miei compagni di classe, non esitai ad esprimere una sostanziale indifferenza alla questione: un mio compagno, volle dire ironicamente la sua e rivolto verso di me chiese, provocatoriamente e ad alta voce affinché la professoressa potesse sentire: «Si prendono soldi ad essere iscritti nell’albo d’onore?». Lo disse in uno sguaiato dialetto parmigiano per rendere ancor più ficcante la battuta. Fu immediatamente redarguito dall’insegnante, lui si scusò e la cosa finì così.

Credo e spero che la nomina di Parma a capitale italiana della cultura per il 2020 abbia uno spessore ben più consistente rispetto all’iscrizione nell’albo di cui sopra, non solo e non tanto per i fondi messi in palio per stimolare lo sviluppo culturale. È certamente un onore per la nostra città avere ottenuto questo riconoscimento a livello ministeriale su indicazione di una autorevole giuria, che ha valutato positivamente i progetti  presentati per lo scopo dal “sistema Parma”. A proposito di onore può essere opportuno citare testualmente la famosa aria del Falstaff di Giuseppe Verdi presa dal libretto di Arrigo Boito, nel suo forte senso dissacrante: «Può l’onore riempirvi la pancia? No. Può l’onore rimettervi uno stinco? Non può. Né un piede? No. Né un dito? No. Né un capello? No. L’onor non è chirurgo. Che è dunque? Una parola. Che c’è in questa parola? C’è dell’aria che vola. Bel costrutto. L’onore lo può sentir chi è morto? No. Vive sol coi vivi? Neppure. Perché a torto lo gonfian le lusinghe, lo corrompe l’orgoglio, l’ammorban le calunnie. E per me non ne voglio, no!».

Non annettiamo quindi a questo riconoscimento una forza d’urto che non ha, né un significato eccessivo, né un assurdo effetto miracolistico. Non facciamone l’occasione per continuare a vivere di ricordi, ma lo spunto per guardare avanti e concretizzare i progetti togliendoli dalla cartolarità. Qualcosa forse si sta muovendo? È presto per dirlo e sempre tardi per metterlo in atto.

Non voglio fare il disfattista, ma sono convinto che questo riconoscimento prescinda dai vizi e dalle virtù delle amministrazioni comunali succedutesi e dalle qualità, peraltro piuttosto scarse, della classe dirigente parmigiana considerata nel suo complesso. Forse tutto viene dalla sedimentazione dell’humus culturale che da sempre ci caratterizza e ci distingue. Siamo un po’ tutti protagonisti e vittime di questo fascinoso alone che ci “perseguita”.

Riporto ancora l’aria di Fastaff, il quale si rivolge ai suoi aiutanti, che si trincerano dietro l’onore per non prestarsi ai suoi giochetti: «Ma, per tornare a voi, furfanti, ho atteso troppo, e vi discaccio. Olà! Lesti! Al galoppo! Il capestro assai bene vi sta. Ladri! Via di qua!». Il ministro Dario Franceschini non avrà certo detto parole così dure al sindaco Pizzarotti investendo Parma del titolo prospettico di capitale della cultura, anche se, come parmigiani, ce le meriteremmo, seduti da troppo tempo sul comodo divano della nostra ex capitale.

 

 

16/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Isaia 58,1-9; Salmo 50; Matteo 9,14-15.

 

Riflessione personale

 

Non voglio giudicare, anche perché non sono esperto in materia, tuttavia alcune religioni prevedono una serie di norme, che altro non sono se non regole igieniche, sicuramente raccomandabili, ma che poco hanno a vedere con un’autentica fede in Dio.
Anche l’ebraismo scivola su queste bucce di banane: non era così ai tempi del profeta Isaia, il quale viene invitato a gridare a squarciagola a nome di Dio in materia di digiuno: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?».
Dove stanno di casa coloro che accusano direttamente o indirettamente papa Francesco di confondere la religione con la politica e/o la sociologia? Forse sarebbe il caso che si andassero a nascondere! Se bastasse digiunare e continuare nel frattempo a fare i propri affari, fregandosene di chi soffre e di chi digiuna perché non ha di che nutrirsi…
Gesù era considerato un mangione ed un beone: amava la tavola e ad essa si sedeva addirittura con pubblici peccatori. Provocava i benpensanti, scandalizzava i farisei, metteva in crisi persino i rigorosi discepoli di Giovanni Battista: «Verranno giorni in cui i miei seguaci digiuneranno, ma con ben altro digiuno rispetto alla pura e semplice astensione dal prendere cibo». Si tratterà di riandare a quanto profetizzava Isaia, pagando di persona per una fede concreta, che sconvolge gli equilibri e le mentalità mondane. Gesù seppe farlo talmente bene da guadagnarsi la morte in croce.
Mi sento un cristiano all’acqua di rose. Quando mi chiedono se sono un cattolico praticante, formalmente dovrei rispondere di sì, ma in realtà pratico una mia religione assai lontana dal dettato evangelico. Leggendo la vita dei Santi, si ha spesso la sensazione che fossero esagerati, esagitati, dei mezzi matti: no, erano semplicemente persone, che credevano veramente e soprattutto vivevano alla lettera il dettato evangelico, senza se e senza ma. Quanta strada mi resta da fare! Fosse solo questione di mangiare poco, me la caverei alla grande, viste le difficoltà digestive e la necessità di seguire una dieta alimentare parca e magra. Per quanto riguarda il digiuno, così ben definito da Isaia, mi sento in grave difetto. Sono come quei soggetti diabetici, che durante il pasto mangiano e bevono di tutto e di più, poi, alla fine del pasto, si convertono e prendono il caffè senza zucchero.

Durezza della politica e tenerezza del cuore

Ho seguito, seppure parzialmente, la pacata e scialba intervista a Silvio Berlusconi di Bianca Berlinguer durante la trasmissione in onda su Rai3, che si intitola “Carta bianca”, giocando appunto sul nome della conduttrice.  Ho prestato scarsa attenzione ai contenuti del discorso emergente dalle parole del leader di Forza Italia, peraltro politicamente scontati, deboli e contraddittori.
Mi sono lasciato invece guidare da sensazioni di carattere umano: mi sentivo davanti ad un uomo pateticamente ma testardamente egocentrico, che non aveva più nulla da dire ma continuava a pontificare, che insisteva a tirare fuori dal cilindro conigli inesistenti, che ostentava ridicoli legami a livello europeo dopo essere stato sepolto in quella sede alcuni anni oro sono con una risatina, che si dava arie da statista citando Alcide De Gasperi a cui assomiglia sì e no nel “pisciare”, un uomo ridotto alla vignetta di se stesso.
Devo dire la verità: mi sono lasciato impietosire dall’uomo vecchio, sostanzialmente solo, incapace di abbandonare il campo in modo dignitoso. Qualcuno avrebbe potuto dirgli con un po’ di cattiveria “va’ al canäl”, espressione parmigianissima utilizzata per mandare qualcuno a quel paese in cui si fanno appunto cose inutili ed assurde, come durante l’occupazione nazista. In quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la suddetta pesantissima espressione: “va’ al canäl”. Con la differenza che Berlusconi non è mai stato un grande tenore della politica, ma semmai un corista che stonava e cantava fuori dal coro.
Un tempo con l’inquietante uomo di Arcore mi innervosivo, ora non più, prevale in me un senso di pietoso compatimento e, come sempre mi succede, quando vedo un grande o, nel caso berlusconiano, un sedicente grande, cadere in basso, non riesco ad infierire neppure mentalmente e, tanto meno, verbalmente. Anche la politica deve trovare un limite nella tenerezza del cuore.

Ho recentemente riscoperto come Pietro Nenni l’indomani della brutale esecuzione di Benito Mussolini fosse profondamente turbato e commosso, pur avendo dettato il forte titolo di “giustizia è fatta” per il giornale di partito “Avanti”, anche perché ne era stato amico, politicamente e umanamente, almeno fino al 1919: erano infatti due spiriti rivoluzionari, incarcerati per avere sobillato le folle contro la guerra in Libia, interessati dalle teorie sorelliane. Poi i due destini politici si separarono nettamente e drammaticamente, salvo ritrovarsi, per opposti motivi, confinati all’isola di Ponza nel 1943.  Ebbene sembra che Nenni abbia addirittura speso una pietosa parola di commento: “povrén” disse tra sé, in dialetto romagnolo, dopo l’esposizione del corpo in piazzale Loreto. Qualcuno strumentalizzò questo antico legame amichevole con Mussolini e magari si scandalizzò per questo inghippo sentimentale. Io, al contrario, mi sono commosso. In politica bisogna saper dare l’onore delle armi a chi non lo merita, lasciando parlare il cuore anche nei momenti più impensati e più inopportuni. Anch’io, abbandonando la visione dell’intervista a Berlusconi, con un tantino di presunzione e superbia, lo ammetto, ho detto tra me e me una parola sola: povrètt. Da estendere a quanti avranno l’ardire di votarlo o rivotarlo.