I valori bolliti

Tutti i giorni mi riprometto di non seguire più il ciarpame dibattimentale del dopo-elezioni. Poi ci casco, anche perché vivo in questa società e devo pur tentare di capire cosa sta avvenendo in essa in chiave politica. Persino i più credibili protagonisti diretti sulla scena nonché i cosiddetti osservatori più acculturati ed impegnati sono comunque caratterizzati da una visione pragmatica, avulsa da ogni e qualsiasi richiamo ideale e valoriale: sembrano quasi aver paura di volare alto e rimangono ancorati alla bassa macelleria.

A destra hanno l’ansia da prestazione: devono cioè dare segnali di continuità rispetto alle promesse sbandierate e quindi, non disponendo nemmeno in prospettiva, se non nella loro fantasia malata, delle armi governative, sono costretti ad alzare i toni demagogici sui soliti temi, che purtroppo fanno presa su un elettorato sprovveduto e pressapochista. I grillini e i loro supporter mediatici in opportunistica crescita non possono prescindere dal loro moralismo, che non ha nulla da spartire con gli ideali democratici. A sinistra si rischia di rimanere imprigionati nello schema “disponibilità sì, disponibilità no”, prescindendo da una seria e critica analisi sull’essere di sinistra in una società cambiata, ripiegando su vecchi arnesi del mestiere o sui richiami della foresta piuttosto disboscata o su un modernismo improvvisato e tattico.

Quando si (s)parla di immigrazione non si parte dal rispetto della persona umana che ha la sventura di vivere in certi paesi; non si pensa che la situazione di grave ingiustizia verso queste popolazioni l’abbiamo creata noi chiudendo gli occhi sulle loro miserie, perché ci conveniva dimenticare che, mentre noi ci arricchivamo (probabilmente fra i più feroci anti-immigrati ci saranno commercianti e artigiani che nei decenni passati, anche non pagando le tasse, hanno realizzato utili tali da comprare un appartamento all’anno), c’era in tante parti del mondo chi si impoveriva; si finge di non capire che la politica dei respingimenti tout court oltre che eticamente inammissibile è praticamente irrealizzabile; si vuole addebitare agli immigrati un problema di delinquenza connaturale alla nostra società (la delinquenza nostrana non ha nulla da invidiare, qualitativamente e quantitativamente a quella d’importazione); si tendono a gonfiare a dismisura i dati di un fenomeno importante ma non esiziale e soprattutto non legato, se non nelle paure immotivate, alle nostre insicurezze esistenziali, sociali ed economiche.

Quando si (s)parla di reddito di cittadinanza non si parte dal diritto della persona ad un lavoro dignitoso e tale da garantirle una vita decorosa; non si ammette che abbiamo costruito un sistema che non riesce a valorizzare il lavoro e che quindi bisogna rivedere certi meccanismi di accumulazione del capitale privato e di impiego di quello pubblico; ci si limita a ipotizzare fantastiche politiche meramente assistenziali che, tra l’altro hanno dato pessima prova e ottenuto pessimi risultati proprio in quel Sud-Italia storicamente fuorviato da promesse non mantenute e da appoggi sprecati.

Mi limito ai due filoni principali di problemi, quelli che, secondo gli esperti hanno comportato il recente clamoroso (?) risultato elettorale.  La carenza di riferimenti valoriali nell’interpretare e fare la politica è purtroppo totale e generale. In questo atteggiamento spaesato mi sento peraltro molto solo. Forse sono un visionario, forse un nostalgico, forse un romantico: di tutto un po’ e non me ne vergono, anzi me ne vanto.

Abbiamo bisogno di tutti

“Merkel e Macron si preoccupino di tedeschi e francesi. Dell’Italia si occuperanno gli italiani. Non abbiamo bisogno di lezioni da altri e tantomeno da loro”. Così dice Matteo Salvini e, dopo aver letto questa dichiarazione, non posso essere che ulteriormente d’accordo col segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, il quale afferma che un governo M5S-Lega sarebbe pericoloso.

È inutile nasconderlo, sento nell’aria puzza di orgoglio nazionalista: si tratta di un prerequisito, che, associato all’intolleranza verso gli immigrati e alla qualunquistica sfiducia nella politica e nelle istituzioni, ci può portare dritto-dritto incontro a sciagurate avventure di stampo neofascista.

Penso sia utile ricordare il comportamento di tre personaggi storici, che spiega cosa voglia dire autonomia decisionale e indipendenza di giudizio. Alcide De Gasperi ebbe l’umiltà e la capacità di far accettare l’Italia nel consesso delle nazioni dopo la sciagurata vicenda nazi-fascista, culminata nella disastrosa sconfitta della seconda guerra mondiale (fu addirittura complimentato dal rappresentante inglese e Dio solo sa quanta supponenza abbiano gli inglesi). Aldo Moro seppe avviare una fase di coinvolgimento dei comunisti al governo contro la prevenuta ostilità del governo americano, impersonificata soprattutto da Henry Kissinger (e ne soffrì le conseguenze sulla propria pelle). Sandro Pertini, difendendo la dignità e la serietà del popolo italiano, da Presidente della Repubblica ripeté più volte, con grande autorevolezza e credibilità, ma senza ostilità verso alcuno, che gli italiani non sono primi né secondi a nessuno (lui aveva le carte in regola per poterlo affermare).

Nessuno può dire, a livello personale e tanto meno a livello internazionale, di non aver bisogno di lezioni dagli altri. Tutti abbiamo bisogno di tutti. Non sarà certo Matteo Salvini a cambiare la corretta etica nei rapporti umani. La presunzione e l’arroganza, che vanno sempre d’accordo con l’ignoranza, non possono che isolarci e squalificarci. Nella mia vita professionale ho vissuto la difficoltà nei rapporti, a livello regionale, fra la realtà parmense e quella delle altre province emiliane e romagnole: ho sempre rifiutato lo splendido (?) isolamento di chi si chiudeva di fronte a certi atteggiamenti un tantino prevaricatori. Bisogna confrontarsi, collaborare, ammettere le proprie lacune, impegnarsi, ascoltare, prendere esempio, discutere, partecipare: questa è la democrazia. Così facendo ho sempre trovato accoglienza, disponibilità ed aiuto da chi era più avanti. Lavoravo nel movimento cooperativo e l’Emilia-Romagna ne era ed è tuttora la punta di diamante. Ad un convegno nazionale gli emiliani presentavano le loro esperienze sui vari argomenti. Ad un certo punto, un cooperatore di altra regione sbottò di brutto e manifestò il proprio fastidio. Gli pesava ascoltare e forse anche imparare. Non si fa così. Può darsi che chi è più avanti esprima, volontariamente o meno, un certo senso di superiorità: è umano. I primi della classe a volte sono insopportabili, ma non bisogna esorcizzarli, al contrario bisogna utilizzarli nella loro effettiva superiorità e convincerli a lasciar copiare il compito.

Paolo VI alle “strane” esequie di Aldo Moro, con parole che non finiscono mai di commuovere, lo definì un uomo (prima che un politico) buono, mite, saggio e amico. La cattiveria, l’aggressività, l’invadenza, l’insipienza, la sventatezza e l’inimicizia di questi nuovi e pericolosi salvatori della Patria, che possono anche fare scalpore e ottenere consenso, non ci porteranno da nessuna parte. Ne sono più che sicuro!

 

La sagra degli incapaci

Dalle rievocazioni della vicenda Moro emerge di questo personaggio la (quasi) incredibile capacità, peraltro pagata assai cara sulla propria pelle,  di coniugare le esigenze ideali della politica con quelle pragmatiche dell’esercizio del potere, di credere negli equilibri politici italiani pur tenendo nel debito conto le esigenze di quelli internazionali,  di rispettare la trasparenza istituzionale pur ammettendo il male necessario dei servizi segreti, di conservare la compattezza della sua  e delle altre forze politiche guidandole tuttavia in un progressivo percorso di maturazione e sviluppo democratico, la difesa, a volte addirittura orgogliosa, del primato della politica rispetto alle spinte populiste e giustizialiste, la imprescindibile considerazione del ruolo dei partiti e delle istituzioni pur nell’apertura costante verso i fermenti della società, la difesa del ruolo dei cattolici nella vita repubblicana in una visione laica della politica, il giudizio grave del comunismo associato alla scommessa di aiutare il comunismo italiano ad evolvere ed a maturare pienamente sul piano democratico.

Siamo di fronte ad un autentico capolavoro purtroppo incompiuto. Senza volere nostalgicamente rievocare le altezze della politica morotea, occorre ammettere, in estrema sintesi, che per governare non basta il consenso (DC e PCI avevano circa il 75% dei voti quando votava il 90% dei cittadini): la Democrazia cristiana non si chiuse mai a riccio, aprì la collaborazione prima ai partiti di centro, poi ai socialisti poi addirittura ai comunisti; il partito comunista  accettò per decenni un ruolo minoritario senza assumere iniziative anti-politiche o anti-istituzionali (persino dopo l’attentato a Togliatti).

Non basta raccogliere il consenso, ma occorre saper interpretarlo e gestirlo, bisogna cioè essere capaci di governare. Ed è qui che casca l’asino delle forze politiche uscite vincenti dalle urne del 04 marzo scorso. Hanno raccolto quasi il 70% dei consensi dell’elettorato, ma non sanno utilizzarlo per il bene del Paese, girano a vuoto, si passano la patata bollente, si ha la netta sensazione che non ci saltino fuori. Parlano persino di nuove elezioni, ostentano la certezza di aumentare i loro consensi, ma sotto sotto sanno benissimo di rischiare grosso. Un amico osservava acutamente che forse il problema frenante per la formazione di un nuovo governo è quello della ricerca dei fondi per far tornare i conti pubblici nei parametri fissati dall’Unione Europea. A parole i miliardi di euro fioccano come la neve pre-elettorale, nei fatti trovarli è impresa ardua.

Ho volutamente banalizzato il discorso per rendere l’idea della difficoltà di governare e dell’incapacità a farlo da parte del M5S e della Lega: se si mettessero insieme, sommeremmo due impreparazioni che non consentirebbero comunque di superare l’esame.  La politica si sta avvitando attorno al nulla. Anche il più disponibile e tollerante dei professori non potrebbe assegnare neanche un misero diciotto: temo dovrà rimandare tutti alla prossima sessione d’esami. Nel frattempo? La politica non si ferma in tutti i suoi aspetti: l’economia attende segnali e provvedimenti, l’Europa aspetta un interlocutore affidabile, il mondo esige il nostro protagonismo pena una disastrosa irrilevanza internazionale, i problemi sociali richiedono risposte realistiche ed adeguate.

La campagna elettorale, in un mondo post-ideologico, dovrebbe servire proprio per fare ai partiti i test sulla loro capacità di governo: ad un check up approfondito si è preferita una banale e superficiale visita pseudo-medica. Si è fatto come quando si sta male e si dà tutta la colpa alla stagione. Nel caso si è data la colpa al PD e soprattutto a Renzi. Ho sempre seriamente dubitato di quei professionisti che per conquistare nuovi clienti sparano a zero sul lavoro di chi li ha preceduti e concedono tariffe molto ribassate. Gli utenti spesso ci cascano e dopo qualche tempo si accorgono di essere caduti quanto meno dalla padella alla brace, ma è tardi e i danni sono irreversibili, indietro non si torna e avanti non si va.

I menestrelli dell’anti-storia

In uno dei tanti asfittici dibattiti televisivi sul dopo-elezioni, ne ho sentita una veramente “bella”, sorprendentemente detta da un giornalista di spessore, vale a dire da Vittorio Zucconi. Non ho capito se fosse alla disperata ricerca dell’originalità, quasi a voler battere due a zero l’elettorato che quanto a originalità(?) non è secondo a nessuno, oppure se fosse coinvolto, suo malgrado, nell’autentico casino cultural-politico scoppiato il 04 marzo scorso, una confusione in cui non ci si raccapezza più e tutti, per lo meno molti, sembrano divertirsi.

Quando si vuol esprimere che uno la dice grossa, si dice eufemisticamente che ha bestemmiato in cattedrale. Ebbene Vittorio Zucconi ha bestemmiato su la7 con grande nonchalance. Per avvalorare l’ipotesi di un accordo di governo tra centro-destra (bisognerebbe cominciare a chiamare le cose col loro nome: Lega) e M5S (anche qui sarebbe meglio parlare fuori dai denti e dire: grillini), ha scomodato il compromesso storico tra DC e PCI e gli accordi di governo che lo iniziarono per mai finirlo. Solo uno dei suoi interlocutori ha avuto il buongusto di eccepire la differenza tra le due prospettive politiche, facendo almeno notare la differenza abissale dei protagonisti: da una parte la lungimirante, lucida e costituzionale visione di Moro e Berlinguer, dall’altra la meschinetta, opportunistica e pressapochistica menata di Salvini e di Maio.

Cosa c’entri il compromesso storico con l’eventuale accordo antistorico tra grillini e leghisti in vena di scherzare col fuoco è difficile capirlo: me lo dovrebbe spiegare Zucconi. Nella notte politica in cui siamo sprofondati tutti i gatti sono bigi, più uno la spara grossa e più viene ascoltato, la storia è diventata un optional, la nebbia qualunquista avvolge tutto. Noto da parecchio tempo come ci sia in atto un allineamento dell’informazione, anche quella più culturalmente pretenziosa, all’andazzo protestatario che sta montando e scalando il Paese: si liscia il pelo ai cittadini in vena di buttare tutto all’aria, si segue l’acqua che corre, ci si prepara al peggio, si lega l’asino dove vuole l’ipotetico, nuovo e imprevedibile padrone.

Tutto dovrebbe però trovare un limite invalicabile nella memoria storica di un passato che ci interpella e ci presenta il conto. Generalmente è il presente che chiede conto al passato, ma nel caso della politica italiana è il passato che fa arrossire di vergogna i contemporanei. Se leghisti e grillini avranno l’impudenza di mettersi d’accordo tramite il compromesso più basso possibile ed immaginabile, non cerchino scuse in un passato, che non è certo tutto fulgido, ma nemmeno utilizzabile per una rincorsa verso l’ignoto. Un mio simpatico ma impreparato compagno di classe alla precisa domanda del professore su verso cosa guardasse un personaggio della Divina Commedia (non ricordo quale), rispose: “Verso grandi orizzonti…”. “Sì, ribatté l’insegnante, verso orizzonti di non studiare…vai al posto!”. Ma anch’io non fui da meno e durante un compito in classe di storia, mi trovai alle prese con un preciso quesito: cosa pensa Dante Alighieri di Federico Secondo? Non ci saltavo fuori e bisbigliai una richiesta di aiuto ad un compagno posizionato vicino al mio banco, il quale sentendosi controllato a vista, non poté far altro che suggerirmi un generico “pensa bene” su cui lavorai vergognosamente di fantasia. Vorrei chiedere a Vittorio Zucconi dove guardavano Moro e Berlinguer e dove guardano Salvini e Di Maio e soprattutto cosa pensa di questi improvvisati aspiranti statisti usciti dalle urne. Vorrei tanto sperare che non mi rispondesse con un generico “penso bene”.

 

 

 

Il suicidio è un fatto sconvolgente

Torno con la mente (lo faccio spesso) alla morte tragica di Bianca, una mia indimenticabile zia, rimasta vedova prematuramente, colpita da una malattia senza scampo, che la distrusse psicologicamente portandola alla disperazione ed al suicidio: lei così allegra e gioiosa, decise di farla finita, lasciando tutti nel comprensibile sgomento. Ricordo il dolore pieno di nostalgia di mia madre: si rimproverava di non esserle stata sufficientemente vicina, immaginava la scena del suicidio e della sofferenza precedente al gesto estremo, visse per parecchio tempo con un senso di vuoto attorno a sé e dentro di sé, si sforzava di consolare i nipoti rimasti attoniti e sconvolti dall’accaduto.

Il suicidio è una scelta che tocca sempre i nostri nervi scoperti, che ci mette sempre e profondamente in crisi, che ci pone drammaticamente davanti alla realtà nuda e cruda della nostra esistenza, alla responsabilità sulla nostra ed altrui vita. Quando poi a togliersi la vita è un personaggio pubblico, siamo costretti a rivedere tanti nostri schemi di giudizio. Succede a Parma in questi giorni in conseguenza del gesto estremo dell’ex rettore dell’Università di Parma, Loris Borghi.

Innanzitutto voglio vedere il fatto dal punto di vista umano e religioso. Pensare alla disperazione che avrà provato mi sconvolge. Probabilmente, dopo essere stato indagato e rinviato a giudizio per reati commessi nell’esercizio della sua pubblica ed importante funzione, innocente o colpevole che fosse (in queste vicende, anche in caso di colpevolezza, oltre tutto esiste quasi sempre un miscuglio di ingenuità, di omertà, di opportunismo, di favoritismo, di pressapochismo, in cui è difficilissimo colpire nel segno) era stato o si era sentito abbandonato da tutti. Non da Dio che lo avrà accolto con tanta dolcezza. Senza indagini, senza processo, senza incriminazioni, considerando solo il bene che avrà sicuramente fatto nella sua vita di uomo impegnato soprattutto nella professione medica, nell’insegnamento, nell’università. Guardo con grande rispetto alla scelta di una persona che decide di “farla finita”, non retrocedendo fariseicamente il gesto alla follia di un momento, ma considerandola in tutto il suo drammatico significato, anche religioso: un grido di ribellione al dolore che si fa insopportabile e che solo Dio può capire, dal momento che ha deciso di condividere fino in fondo la nostra sofferenza.

Sul piano etico dobbiamo imparare molte cose: a non giudicare (chi sono io per giudicare?), lasciandolo fare a chi di dovere, a non infierire quando una persona viene colta in fallo, a prendere il meglio dalle persone, a capire i drammi altrui, a pensarci bene prima di squalificare e rottamare, a distinguere fra giudizio politico e condanna, fra critica e dileggio, fra desiderio di fare pulizia e soddisfazione nel buttare tutto all’aria, fra giustizia vera e giustizia sommaria, fra diritto di cronaca, insinuazioni e diffamazioni, fra indagini e condanne, fra avvisi di reato e sentenze.

Il rispetto per la persona non vuol dire assolvere tutto e tutti, coprire la corruzione con una vernice buonista, ma nemmeno esaltarsi al tintinnar delle manette alla ricerca sbrigativa del capro espiatorio. Il marciume nella nostra società è molto presente e diffuso, deve essere scovato e combattuto seriamente, anche andando contro corrente quando necessita, a costo di rimetterci di persona. Ciò non vuol dire, prescindendo dalle vicende giudiziarie di Loris Borghi, dare superficialmente voce e credibilità a subdole ricostruzioni della (non) verità, cedere alla malignità che può condurre a confondere la denuncia delle vere manovre di palazzo con l’invenzione di manovre di palazzo, gettare fango a raffica, farsi prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi ed ancor meno dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione.

In conclusione cito un episodio (sempre senza fare parallelismi con la vicenda giudiziaria del professor Borghi), riportato da Mattia Feltri e ascoltato nella rassegna stampa di radio radicale, da cui risulta come un vecchio contadino abruzzese, padre di Ignazio Silone, abbia rimproverato aspramente il figlio bambino allorché rise di un cencioso detenuto, che veniva condotto in manette  dai carabinieri: gli disse che non doveva ridere innanzitutto perché quella persona in catene non poteva difendersi, in secondo luogo perché forse era innocente e da ultimo in quanto era un infelice che comunque meritava rispetto. Una mirabile lezione etica sulla differenza tra giustizialismo e giustizia, tra giustizia intesa come scrupolosa ricerca della verità e sbrigativa vendetta populista, tra diritto di cronaca e gogna mediatica, tra pena carceraria e rottamazione del condannato, tra privazione della libertà e tortura, tra detenzione e recupero del detenuto.

 

 

 

Attentato a Moro: una ferita inguaribile

Il 16 marzo 1978 la storia italiana prese una bruttissima piega che condiziona tuttora e condizionerà per sempre la nostra politica: finisce in quel triste giorno l’alta politica iniziata con la resistenza al fascismo e proseguita nel secondo dopoguerra con il patto costituzionale, con il progressivo allargamento dell’area governativa dal centro verso sinistra, con l’assorbimento parlamentare dei fermenti sociali, col dialogo tra cattolici e socialisti prima e comunisti poi. Ho citato quattro passaggi fondamentali della vita democratica del nostro Paese, di cui Aldo Moro è stato profeta, protagonista e vittima sacrificale.

La storia non si fa con i se, tuttavia se Moro non fosse stato rapito ed assassinato, non avremmo avuto il patto tra democristiani di retroguardia e socialisti dall’arrampicatura facile (è il Caf, il patto di potere fra Craxi, Andreotti e Forlani); il Craxismo non avrebbe conquistato la scena politica imprigionando la sinistra in un sinistro gioco di potere; la corruzione non sarebbe arrivata al punto da essere quasi istituzionalizzata trascinando la Repubblica nel gorgo dell’affarismo devastante; non ci sarebbe stato spazio per il berlusconismo e forse nemmeno per il leghismo e via discorrendo.

Perché? Moro aveva varato una strategia, di cui era l’indispensabile garante verso tutti, che puntava alla piena democratizzazione del PCI attraverso successive fasi di coinvolgimento a livello governativo, per arrivare all’alternanza tra le due forze democratiche fondamentali, quella cattolica e quella comunista, capaci di condividere i valori fondanti della nostra democrazia alla luce della Carta Costituzionale, ma in grado di interpretare diversi approcci governativi per una società in evoluzione. Di questa prospettiva strategica Moro era l’insostituibile pilastro: verso la DC ed il suo elettorato di cui intendeva mantenere l’unità e verso il partito comunista a cui voleva allungare in modo credibile e leale una mano di dialogo, condivisione, collaborazione e contrapposizione.

In vita aveva parecchi detrattori che tentavano di squalificarlo con le solite menate del politico ingarbugliato e logorroico, del governante ritardatario e perditempo, del personaggio opaco e fumoso. In realtà sapeva essere lungo nella visuale, paziente nell’ascolto e nel dialogo, complesso nelle analisi, deciso nei momenti topici, netto nei giudizi a costo di essere impietoso, scettico verso le sbrigative e semplicistiche generalizzazioni.

Non sapremo mai chi abbia veramente ispirato e realizzato l’attentato a Moro, certo chi lo fece aveva le idee chiare e intendeva interrompere irreversibilmente la suddetta strategia, che dava fastidio a molta gente a livello mondiale e nazionale: in molti avevano interesse a relegare la DC nella sterile bottega reazionaria e a confinare il PCI nella velleitaria piazza di pura lotta. Raggiunsero direttamente o indirettamente l’obiettivo e la storia prese un indirizzo diverso. Purtroppo il patrimonio fondamentale del cattolicesimo democratico e del comunismo dal volto umano non sono stati messi a frutto: ne sortì un bipolarismo assai imperfetto, che non ha retto alla prova dei fatti e che ci consegna ancor oggi un’Italia divisa e ingovernabile.

Ho un ricordo preciso del 16 marzo 1978: capii che stava succedendo qualcosa di grosso a cui bisognava rispondere rinserrando le fila, partendo dal tessuto civile del Paese, che rischiava una lacerazione profonda e inguaribile. A livello professionale avevo l’incarico di coordinare gli uffici che erogavano servizi amministrativi alle cooperative di ispirazione cristiana. Riunii, con il placet del direttore, tutti i colleghi e, se la memoria non mi tradisce, suggerii di reagire al terribile momento, partendo dal basso, dal lavoro, dallo svolgere al meglio la propria funzione, peraltro inserita in un mondo fortemente motivato dal punto di vista sociale ed economico. Nei momenti più difficili bisogna infatti aggrapparsi alle realtà forti, ai valori fondamentali: il lavoro è certamente questo. Era in gioco la democrazia e la democrazia si difende facendo innanzitutto ed onestamente il proprio dovere. Il resto è storia in cui fortunatamente non andò in crisi la democrazia che ne rimase tuttavia segnata indelebilmente: il cadavere di Moro, rannicchiato in quella Renault di colore rosso, mi dà ancora i brividi, mi commuove nel profondo della mia coscienza democratica e mi conferma nel senso politico che continua a caratterizzare la mia vita.

Salotti e cucine

Sono sinceramente stanco di ascoltare le superficiali analisi sociologiche sulla perdita di consensi della sinistra in tutto il mondo: in poche parole avrebbe rinunciato al proprio ruolo di interprete autentico dei bisogni popolari per rifugiarsi nella comoda e salottiera difesa dello status quo con qualche rigurgito di vitalità orientato solo al discorso dei diritti civili.

In effetti sono saltati molti schemi: quelli ideologici (comunismo e anticomunismo), quelli sociali (proletariato e borghesia), quelli pragmatici (i periodi di crisi alla sinistra che riesce ad imporre sacrifici, i periodi di crescita alla destra che consente gli affari), quelli religiosi (clericalismo e laicismo), quelli etici (onesti e corrotti), quelli culturali (intellighenzie sistemiche e intellettualismo organico), quelli economici (liberismo e statalismo), quelli internazionali (nazionalismo e mondialismo), quelli commerciali (protezionismo e libero mercato).

In mezzo a questo rimescolamento di carte l’elettore è confuso e tende a ripiegare su scelte contingenti, egoistiche e semplicistiche. Ha perso il senso della politica, aiutato peraltro dai fenomeni degenerativi della stessa: corruzione, affarismo, mediatizzazione. Fatica a trovare risposte complessive e strategiche: brancola nel buio e si accontenta pertanto di promesse immediate e roboanti.  Non ha tempo, voglia e strumenti per analizzare criticamente le proposte che gli arrivano e quindi sposa quelle apparentemente più risolutive, senza considerare che anche in politica “presto e bene stanno male insieme”. Le generazioni più attempate si creano le proprie opinioni sotto la guida televisiva (un finto pluralismo informativo fine a se stesso quando non prezzolato o pesantemente condizionato), le giovani generazioni giocano coi social e corrono a destra e manca senza valori di riferimento.

Il tutto avviene in un quadro globale o globalizzato, dove tutto sembra passare sulla testa delle persone che non riescono più a capire assetti e strutture e dove diventa spontaneo perdere la bussola dietro opachi equilibri internazionali, guerre continue, terrorismo dilagante, separatismi e nazionalismi risorgenti, disastri climatici. Dulcis in fundo la crisi economica che ha precarizzato il lavoro, automatizzato le produzioni, scombussolato le aziende e le loro localizzazioni, imposto sacrifici, divaricato ulteriormente la posizione di ricchi e poveri, creato il panico.

In questa situazione così complicata è normale che trovino udienza le forze politiche estremiste (quelle che propongono cambi sistemici) e populiste (quelle che strumentalizzano le pulsioni emotive della gente), mentre vanno in crisi i partiti tradizionali (i socialisti riformisti e simili nonché i liberal-conservatori). Il problema quindi non sta nella distrazione socialista, che guarda in alto anziché sporcarsi le mani in basso, ma nella difficoltà a recuperare il governo dei processi dando prospettive credibili alla gente. Non sarà un cammino in discesa e tanto meno breve: a livello mondiale si sta instaurando un regime, quello populista alla Trump, e per abbattere un regime occorre tempo, non si recupera il consenso in un batter d’occhi, cambiando frettolosamente le leadership e vendendo aria fritta (c’è già chi la vende a un prezzo imbattibile). Occorre che le persone ritornino a ragionare, riprendano il filo della politica da dove lo avevano abbandonato, tocchino con mano la debolezza del nuovo che non cambia nulla e ritornino ai valori fondanti e storici della democrazia rappresentativa (miglior sistema non esiste).

Per la sinistra non regge nemmeno l’illusione del recupero quasi ideologico: tornare ai vecchi schemi per mobilitare gli elettori di un tempo. I vecchi schemi sono saltati e gli elettori di un tempo chissà dove sono finiti. È la sciocca scorciatoia di libertà e uguaglianza (LeU), che non ha portato da nessuna parte, anzi ha creato ulteriore confusione e smarrimento. Non c’è quindi un problema di salotti da smantellare e di piazze da riempire, ma semmai di cucine da rimettere in funzione, di luoghi di dialogo da inventare, ossia di una mentalità da cambiare e di una politica da rifondare a livello di domanda e di offerta. Quando la mia famiglia si trasferì all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso in una nuova abitazione, mio padre voleva prendersi qualche rivincita psicologica e annetteva importanza al salotto (stanza inesistente nelle abitazioni del tempo andato), mentre mia madre stava più coi piedi per terra e desiderava comunque una cucina comoda ed abitabile. Il tempo diede ragione a lei, perché la vita familiare si svolse soprattutto in quella stanza. Ma il problema non stava e non sta nella scelta della stanza: vale anche per l’appartamento della politica, senza illudersi che basti cambiare stanza per stare meglio. I sociologi si mettano il cuore in pace, occorre una nuova città, un nuovo quartiere, una nuova costruzione, una nuova abitazione.

 

Chi semina bullismo raccoglie ingovernabilità

Fra i tanti commenti, letti ed ascoltati, sui risultati elettorali, mi ha molto colpito e coinvolto quello, peraltro indiretto ma assai centrato, del cardinal Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura contenuto nell’incipit di un suo articolo pubblicato su Jesus, il mensile dei Paolini, e intitolato “Una virtù impolitica”. Non mi piace mischiare sacro e profano, ho una concezione indiscutibilmente laica della politica, tuttavia mi pare che quanto scrive Ravasi sia profondamente, perfettamente e culturalmente azzeccato.

Egli così si esprime: “Hai un bel dire con Benedetto Croce che ‘la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creativa di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice’. Eppure la tentazione del ricorso alla forza non è solo nel fondamentalismo o nella guerra, lo è anche nell’aggressione verbale di alcuni politici, nel bullismo, nello stalking, nel femminicidio, nella quotidianità delle relazioni personali, familiari e sociali. (…) Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica» e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione di una certa politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma aspira a raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza”.

Vedo in queste parole una fotografia nitida e implacabile della campagna e dell’esito elettorali. Chi semina il vento della vuota e bullistica politica raccoglie la tempesta della conclamata e disastrosa impossibilità a legiferare e governare. Qualcuno può dire che il discorso del cardinal Ravasi è di carattere etico: certo, ma proprio per questo mette sotto accusa il modo di far politica risultato vincente alle ultime elezioni. Qualcun altro osserverà come nella battaglia politica non possa trovare posto il monito evangelico del «porgere l’altra guancia»: la correttezza, la sincerità, la lealtà sono prerequisiti di qualsiasi proposta politica.

Qualcuno confonde la mitezza mediatrice politica con un atteggiamento salottiero, aristocratico e inconcludente, che sarebbe tipico di una sinistra radical chic, ben lontana dai problemi reali della gente, tutta compresa nella difesa dei diritti civili e lontana dai diritti sociali: occuparsi di testamento biologico, di unioni di fatto, di ius culturae vuol dire snobbare i bisogni popolari? Ma fatemi il piacere! Imporre gradualità e compatibilità alle riforme significa trascurare le esigenze dell’elettorato ruspante a favore di quello benestante? Promettere la luna al popolino è sempre stato il modo migliore per lasciare le cose come stanno a beneficio di chi vive nella bambagia. Affrontare i problemi con ragionevolezza e senso della misura squalifica la politica comportandone l’inerzia e l’irresponsabilità? Non è forse sbandierando e perseguendo l’orgoglio personale (tutto è legittima difesa), nazionalistico (prima noi poi gli altri), etico (immigrazione=delinquenza e terrorismo) e culturale (difendiamo prima di tutto la nostra identità) che si confina la politica al retrobottega della più retriva demagogia?

“Beati i miti perché erediteranno la terra” dicono le beatitudini evangeliche. Siccome la mitezza viene considerata debolezza e inconcludenza, mi permetto di parafrasare ironicamente e politicamente la beatitudine di cui sopra: “Beati gli arroganti perché erediteranno il potere…e non riusciranno nemmeno gestirlo”.

 

Il pope Rano

Durante i raduni giovanili dell’Azione Cattolica, ai miei tempi si raccontava una simpatica e innocua storiella a metà strada fra l’anticlericale ed il giallo. Nello scompartimento di un treno viene ammazzato un viaggiatore. Gli investigatori appurano che in quello scompartimento viaggiavano anche due sacerdoti greco-ortodossi, due popi, il pope Runo e il pope Rano. La storiella, per farla breve, finiva con il quesito riguardante l’assassino. Chi era? Il pope Rano! E perché? Perché un pope Runo (un po’ per uno) non fa male a nessuno.

Pope è anche la traduzione inglese di papa. Ragion per cui devo ammettere che Francesco non è certamente un pope Runo, in quanto ha fatto male a molti, ha inciso e sta incidendo nelle carni religiose del nostro tempo. Nei cinque anni dal 13 marzo 2013, giorno della sua nomina, sono cambiate molte cose nella mentalità della Chiesa cattolica. Non faccio il verso ai tanti esperti e studiosi, che in questi giorni stanno analizzando questo ormai lungo scorcio del pontificato bergogliano e francescano. Mi basta attestare come ogni qual volta mi trovo a vedere ed ascoltare l’attuale papa, mi sento messo in discussione assieme a tutta la Chiesa: ogni sua uscita è una provocazione di stampo squisitamente evangelico. Ha cominciato immediatamente dopo la sua elezione e non si è mai interrotto. Sta spargendo a piene mani semi evangelici: non so quanto frutto abbiano portato finora, so comunque che ne porteranno.

Con tutto il rispetto per i suoi predecessori, sta trasmettendo una carica innovativa che tocca profondamente nel vivo della Chiesa. Il discorso fondamentale è riconducibile alla riscoperta della fede in chiave areligiosa, vale a dire anteponendo l’amore misericordioso di Dio ai dogmi, alle regole ed ai precetti. Ogni volta che affronta un argomento e/o una situazione riesce sempre ad operare quel salto che lo allontana dagli schemi tradizionali per avvicinarlo al cuore dell’uomo bisognoso di perdono e di cura. Ci stiamo abituando a questo stile e, in un certo senso, non lo stiamo aiutando: accanto ai sussiegosi e irriducibili istinti restauratori esiste purtroppo anche una routine filo-francescana, che finisce col depotenziare il suo messaggio adottandone una lettura aneddotica, banalizzandone i contenuti, svuotandone la carica provocatoria.

Molti, più di quanti possano sembrare, lo osteggiano apertamente (sono quelli che meno preoccupano) o subdolamente (prima o poi sono costretti a venire allo scoperto); molti lo applaudono opportunisticamente (sembra piacere quasi a tutti); molti lo apprezzano superficialmente (è simpatico, sa comunicare con le persone, è un toccasana per la Chiesa); molti lo considerano un rompicoglioni di stampo comunisteggiante ( una storia vecchia come il cucco); molti lo vedono come il personaggio scelto al fine di recuperare credibilità per una Chiesa rovinata da scandali  e compromissioni col potere. Non mi sento iscritto a nessuna di queste categorie. Gli voglio semplicemente molto bene: per il coraggio che mette in campo, per il carisma che dimostra di possedere, per la convinzione con cui si schiera. E poi, la dico tutta, sono sempre stato e sono tuttora in polemico contrasto con quel po’ di gerarchia cattolica con cui sono venuto e vengo in aspro contatto. Ebbene finalmente ho un papa con cui vado d’accordo e non è poco. Che Dio me lo (ce lo) conservi a lungo.

 

I vincitori che pagano dazio

Siamo talmente presi dalle vicende di casa nostra da trascurare quanto sta avvenendo nel mondo. Donald Trump non si accontenta di incassare la disponibilità del leader nord-coreano a dialogare dopo le scorribande nucleari, ma ha dichiarato aperta la guerra dei dazi, facendo incazzare Europa, Giappone, Cina, un po’ tutti insomma, preoccupati delle ripercussioni economiche di un atteggiamento protezionistico americano, che dalle parole sembra passare ai fatti.

Prima o dopo doveva succedere: o Trump ha scherzato in campagna elettorale prendendo in giro tutti oppure mantiene le promesse di un ripiegamento commerciale a illusoria e nazionalistica difesa della produzione e del lavoro statunitensi. Credo che la scienza economica, la coscienza politica e l’esperienza storica dimostrino ampiamente l’insensatezza di un tale approccio; se la globalizzazione va riformata e corretta non è certo così che si può tentare di farlo, con iniziative unilaterali, bellicose, drastiche e demagogiche. Ammetto che il popolo possa reagire criticamente soffrendo le conseguenze di una globalizzazione spericolata e senza regole, ma alle preoccupazioni popolari non si deve rispondere con misure populiste, vale a dire cavalcando vergognosamente e strumentalmente le ansie della gente. Il confine tra popolarismo e populismo è proprio questo: qualcuno gioca sull’equivoco, ma, come si suol dire, le balle stanno in poco posto.

L’Europa sta reagendo a livello diplomatico e non è escluso che debba reagire anche a livello commerciale, rispondendo a tono e suonando le proprie campane. Penso e spero che non si arriverà ad aprire una vera e propria guerra dei dazi: sarebbe un clamoroso passo indietro. Da Trump non c’è da aspettarsi niente di buono, nonostante abbia sostenitori, più o meno palesi, anche in Europa ed anche in Italia.

Mi viene spontaneo chiedere: come si comporterebbe in sede europea il trionfatore Matteo Salvini, di fronte all’attacco protezionista americano? Starebbe al gioco trumpiano dell’ognuno guardi in casa propria o si farebbe coinvolgere dal vento liberista europeo? Farebbe coerentemente il populista o guarderebbe pragmaticamente agli assetti commerciali mondiali? Sarà anche questo il banco di prova dei nuovi governanti italiani. Per non parlare di manovre correttive chieste dall’Europa sui conti pubblici italiani. A tale riguardo il prode Salvini ha rassicurato che ridurrà il deficit senza sacrifici, anzi abbassando comunque le tasse. E quindi faccia in fretta il Presidente Mattarella ad affidargli l’incarico: non perdiamo queste miracolose opportunità. Magari Salvini sarà in grado persino di   trovare accordi commerciali con Trump. Si sta cercando la giusta sede per aprire un tavolo di trattativa fra Stati Uniti e Corea del Nord? Ebbene ospitiamoli in Italia: in via Bellerio? Facciamo addirittura a palazzo Chigi, con Salvini a fare gli onori di casa. Meglio di così!