L’unica certezza è l’incertezza

La recessione economica in cui l’Italia sta sprofondando è dovuta ad errori passati, a fattori esterni o all’inettitudine dell’attuale governo? Domanda dettata più dalla presunzione degli ignoranti che dall’umiltà degli intelligenti. “Bisogna ragionare”, risponderebbe giustamente il filosofo Massimo Cacciari. Provo allora a ragionare, facendomi aiutare dal governatore della Banca d’Italia e da autorevoli commentatori. A detta di costoro, quel che fa la differenza italiana, rispetto al già problematico e sofferente contesto economico internazionale, sta nel clima di incertezza venutosi a creare con l’entrata sulla scena politica del governo giallo-verde.

L’incerta alleanza tattica fra due partiti diversi per non dire opposti; l’incerta politica nei confronti dell’Europa; l’incerta manovra economica; l’incerto atteggiamento su importanti problemi; l’incerta politica estera; l’incerta politica dell’immigrazione; l’incerto quadro dei rapporti istituzionali. L’unica cosa certa di questo governo è l’incertezza. Questo clima influisce notevolmente sulle scelte economiche di chi investe e di chi consuma, che tende ad aspettare, a rinviare, a non decidere in attesa di tempi migliori e di conseguenza l’economia langue. Sei mesi di incertezza hanno fatto danni rilevanti ancor più delle scelte sbagliate, i cui effetti al momento ancora non si sentono.

Il governo a livello comunicativo riesce, almeno per ora, a colmare le lacune dell’incertezza con le illusioni del decisionismo. Si va avanti a sparate: anziché ragionare sui problemi per proporre eventuali soluzioni, si sparano soluzioni per evadere i problemi. Non so quanto potrà durare questo gioco, che evidentemente i mercati, gli operatori economici, gli imprenditori, i consumatori hanno scoperto fin dall’inizio.

Allora sorge spontanea una domanda: chi opera, più o meno, in economia non è anche cittadino elettore? Sul fronte economico regna la sfiducia, mentre sul fronte elettorale cresce il consenso. Non riesco a capacitarmi di questa strana contraddizione. Silvio Berlusconi ha colto questo nodo gordiano e tenta di fare l’Alessandro Magno della situazione: vuole cioè trasferire il meccanismo del consenso dalle illusioni intestinali alle incertezze mentali, dalla pancia al portafoglio. La soluzione non è così semplice e aneddotica.

Cosa può interrompere questo clima di incertezza per tentare di ridare fiato alle prospettive economiche del Paese? Come succedeva durante il periodo dei governi berlusconiani, all’estero hanno la freddezza e il distacco necessari per rendersi conto della nostra situazione, mentre noi siamo coinvolti senza accorgercene in una deriva pericolosa da tutti i punti di vista.

Devo fare riferimento ancora una volta al professor Cacciari, l’unico intellettuale che ha il coraggio di esporsi e di dare una lettura coraggiosa della situazione.  Durante un movimentato dibattito su La7, il ministro della giustizia Bonafede, non riuscendo a controbattere nel merito alle provocatorie affermazioni del filosofo, si è rifugiato in una battuta ironica: «Lei professore sa proprio tutto…». Al che Cacciari ha controbattuto: «Sì, sì, so tutto, so che il vostro governo mi fa schifo!». Temo purtroppo che il partito cacciariano abbia poco seguito: io mi sono iscritto da tempo, ma…

 

Il concorso della stupidità

Un mio ex-collega, quando aveva in programma di partecipare ad un incontro di lavoro che si preannunciava piuttosto vivace e conflittuale, si preparava andando a far visita alla suocera: si scaldava, come fanno i calciatori prima di entrare in campo. Iniziare a freddo può essere rischioso.

I vice-premier italiani si stanno scaldando per la prossima campagna elettorale e non trovano di meglio per scaldarsi i muscoli che attaccare la Francia sui migranti, sulle estradizioni, sul colonialismo, sul seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, sul caso Stx- Fincantieri, sul dossier Alitalia. Ogni pretesto è buono per duellare verbosamente con i cugini d’oltralpe.

La ministra per gli affari europei, Nathalie Loiseau, ha così commentato questi stucchevoli corti circuiti: «Non vogliamo giocare al concorso di chi è più stupido. Con l’Italia abbiamo molte cose da fare e vogliamo continuare a farle. Mi recherò in Italia quando il clima si sarà calmato. In Francia si dice che tutto ciò che è eccessivo è insignificante. Quando le dichiarazioni diventano eccessive per toni e quantità, diventano dunque insignificanti. La Loiseau, che ha definito “inutili” gli attacchi del governo gialloverde al suo Paese, si è chiesta: “Cosa ci guadagnano gli Italiani? Contribuiscono forse al benessere del popolo italiano, che è generalmente l’obiettivo di ogni governo? Non penso”.

Il concorso a chi è più stupido! Subito, leggendo le dichiarazioni della ministra francese, ho pensato che alludesse alla gara a chi la spara più grossa fra Di Maio e Salvini, poi rileggendo meglio ho capito che esorcizzava la gara fra i due Paesi ad attaccarsi in modo stupido. Mi resta un piccolo margine di dubbio, ma lasciamo perdere. Quanto afferma Nathalie Loiseau è dettato dal buonsenso, che viene prima della politica. Purtroppo è merce rara, che non si compra dal pizzicagnolo e che scarseggia negli attuali ministri italiani, almeno quelli politicamente più in vista.

Cosa ci guadagnano gli italiani da queste schermaglie polemiche innescate a turno da Di Maio e Salvini? Niente, se non l’illusione di contare qualcosa a livello europeo ed internazionale in conseguenza della capacità di rompere le palle: prima o poi all’estero qualcuno abbandonerà la comprensione verso gli italiani e ci presenterà un conto salato da pagare. La corda potrebbe strapparsi e allora nessuno ci toglierà il primato nel concorso a chi è più stupido.

Il premier Giuseppe Conte invece fa lo stupido per non pagar dazio. A margine del Forum economico mondiale di Davos, ha introdotto un tema molto caro ai grillini, ossia quello di un seggio Onu all’Ue e non a un singolo stato: “Se la Francia vuole mettere a disposizione il proprio seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, parliamone e facciamolo nel contesto europeo, se davvero vogliamo dare importanza a tale contesto”. Sui migranti afferma: “Noi ci stiamo battendo da mesi, nessuno vuole realmente pervenire a sforzi comuni per un meccanismo realmente europeo. Faremo da soli, in Italia la nostra politica, come vedete con gli sbarchi, sta raggiungendo dei risultati”. Mi chiedo se Conte stia facendo uno stage da premier sulla nostra pelle. È pur vero che sbagliando si impara, ma cerchi almeno di contenersi.

“Nessuno vuole uno scontro, né con la Francia né con la Germania. Non dico che non ce lo possiamo permettere, ma non lo vogliamo”, dice il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Buono a sapersi. Quanta voce in capitolo ha Tria? A volte le apparenze ingannano: speriamo sia così.

L’ex premier e presidente della Commissione Ue, Romano Prodi a chi gli ha chiesto di commentare gli attacchi italiani alla Francia ha così risposto: “Mah, io quando vedo sta roba, non riesco neanche a capacitarmi. Problemi così complessi e raffinati non vanno affrontati con questa superficiale brutalità”. Non sono un prodiano sfegatato, ma forse qualcosa in più degli attuali governanti ne capisce.  Infatti è fuori concorso.

 

Il governo italiano è “immaduro”

Il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha riconosciuto Juan Guaidò come legittimo presidente del Venezuela. La mozione, che non è vincolante per l’intera Unione Europea, è stata approvata con 439 voti a favore, 104 contrari e 88 astensioni. Guaidò è il leader di fatto dell’opposizione venezuelana e la sua autoproclamazione a presidente al posto di Nicolás Maduro ha aperto una crisi politica piuttosto delicata e complessa, sulla quale si sono venuti a creare vecchi (Trump-Usa con Guaidò e Putin-Russia con Maduro) e nuovi (Ue incerta e Italia omertosa) schieramenti a livello internazionale. Fra gli astenuti ci sono anche gli europarlamentari del M5S e della Lega, che hanno finalmente trovato un problema su cui sono d’accordo. Il governo italiano è attestato su posizioni vaghe: il ministro Moavero Milanesi è afono, il premier Conte è (in)cautamente sgusciante; ha parlato il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano dicendo che l’Italia non riconosce Guaidò.

Una giornalista del Manifesto (di cui non ricordo il nome), comodamente seduta nell’irritante salotto televisivo mattiniero del pierino catodico di rainews24, Roberto Vicaretti, nel contesto di un confuso dibattito sull’attualità politica in cui era inserita la situazione venezuelana, ha fatto una affermazione di stampo bolscevico a cento anni dalla rivoluzione d’ottobre: “Il voto del Parlamento Europeo non conta niente”. Quindi si è lasciata andare al solito retroscenismo anti-americano, facendo risalire a Trump la svolta politica venezuelana, e attestandosi su una posizione non allineata di stampo titino.

Che un Parlamento eletto democraticamente da milioni di cittadini europei non conti niente la ritengo un’affermazione (pur se inserita in un ragionamento complessivo) gravissima di stampo burocraticamente comunista (la lingua dice quel che nella storia duole). Sarà pur vero che la mozione adottata non sia vincolante, che gli Stati europei tendano a fregarsene altamente delle Istituzioni europee; da qui a sostenere che un consesso democratico di tale entità sforni decisioni irrilevanti il passo è lungo e antistorico. Se vogliamo rilanciare l’Ue dobbiamo rafforzarne le istituzioni e non svaccarle in questo modo. La giornalista del Manifesto è rimasta in linea con l’ideologia politica di riferimento della sinistra, che sta indirettamente e paradossalmente portando acqua al mulino pentaleghista in nome di un essere contro tutto, il che equivale, in quel caso sì, a non contare niente.

Infatti ecco la traduzione politica di quella mentalità ideologica fintamente neutralista, che è sempre stata contro gli Usa, contro la Nato, contro l’Europa unita, contro l’Occidente: l’astensione dei partiti di governo che col loro voto buttano una ulteriore secchiata di acqua gelida italiana sulla massima istituzione europea. Quel voto ha il triste significato di volersi distinguere dall’Europa e di non voler dialogare all’interno dell’Europa. È un voto ideologico, populista, antipolitico ed antidemocratico. Stiamo facendo clamorosi e pericolosi passi indietro a prescindere dal merito della situazione venezuelana, che certamente non si potrà risolvere con l’accetta trumpiana, ma nemmeno con le titubanze italiane.

La colpa è sempre degli altri

L’allenatore della Juventus, Massimiliano Allegri, ha fatto fatica ad accettare la netta sconfitta subita dalla sua squadra contro l’Atalanta, costata l’eliminazione dalla Coppa Italia. Dopo aver subito il secondo goal ha inscenato una clamorosa protesta, facendone risalire la colpa ad una inesistente svista arbitrale, oltretutto relativa ad un episodio avvenuto precedentemente dall’altra parte del campo: si è tolto il giaccone, lo ha sbattuto per terra e alla fine si è meritato una inevitabile e giusta espulsione. Per fortuna nell’intervista del dopopartita ha fatto ammenda, recuperando un atteggiamento amaramente e formalmente professionale, ammettendo la sconfitta e lasciando perdere timori e preoccupazioni: prima o poi doveva capitare, non si può sempre vincere, meglio così perché siamo costretti a rifare criticamente il punto della situazione.

Cambiamo campo e trasferiamoci in quello economico. Nel quarto trimestre 2018 l’economia ha registrato un calo dello 0,2%. È il peggior risultato degli ultimi cinque anni, cioè dal quarto trimestre 2013, e il secondo trimestre consecutivo di contrazione del Pil dopo il -0,1% del periodo luglio-settembre. Lo ha comunicato l’Istat in base ai dati provvisori. Il Paese entra quindi così in recessione tecnica. In base ai dati trimestrali grezzi, nel 2018 il Pil registra una crescita dell’1%, in netta frenata rispetto all’1,6% del 2017. Corretto per gli effetti di calendario il Pil segna +0,8%. Anche se il dato pienamente confrontabile sarà quello che l’Istituto di statistica renderà noto il primo marzo, l’andamento è negativo e preoccupante.

In conferenza alla Camera, il vicepremier Di Maio ha detto: “I dati Istat testimoniano una cosa fondamentale. Chi era al governo prima di noi ci ha mentito. Non ci ha mai portato fuori dalla crisi. Nonostante la congiuntura difficile, non credo ci sia bisogno di correggere le stime.  Poi si è ulteriormente lasciato andare: “In questo Paese, priorità non è l’immigrazione: milioni di persone aspettano reddito di cittadinanza e quota 100. I dati sull’asta titoli Btp e sul lavoro sono incoraggianti e testimoniano che le balle dette sul decreto dignità erano balle. I cantieri sono aperti, ma bisogna velocizzare il lavoro smantellando parte del codice appalti”.

La reazione del leader (?) grillino è analoga a quella irrazionale e sconclusionata di Allegri di fronte al goal dell’atalantino Zapata. Peccato che la politica non preveda un arbitro col potere di espulsione. Il ragionamento dimaiano è molto semplice: tutta colpa di chi c’era prima che raccontava balle (i dati Istat avevano segno positivo, ma erano balle); noi stiamo giocando bene e vinceremo.

Il mondo economico e quello sindacale hanno reagito con preoccupazione ai dati dell’Istat sul Pil. Il presidente del Consiglio ha invece lanciato messaggi di altro genere. “È un fattore transitorio, anche agli analisti più sprovveduti non sfuggirà che c’è una guerra di dazi Usa-Cina che ci troverà tutti perdenti, guerra che si sta componendo e che incide soprattutto sull’export”, così ha commentato il premier Conte. “È una contrazione che era nell’aria, pronosticata dagli analisti e legata a fattori esterni alla nostra economia. Non c’è ragione di perdere fiducia, c’è molto entusiasmo per il 2019; non temo che la Ue chieda Manovra bis”, così ha aggiunto.

La posizione di Giuseppe Conte ricalca nei toni quella moderata e sbiadita del secondo Allegri davanti ai microfoni. La principale responsabilità viene da fattori esterni, in primis dalla guerra dei dazi. Ma non è il suo amicone Donald Trump ad averla dichiarata? Cerchi di parlargli fuori dai denti e lo convinca a desistere. Il calo del Pil era nell’aria? Allora bisogna cambiare aria, il che equivarrebbe a cambiare politica. Il clima di entusiasmo persiste e non c’è motivo di allarmarsi. Come mai tutti invece, dal Fmi alla Ue, ci guardano con preoccupazione e con parecchi dubbi sul presente e sul futuro. L’Italia andrebbe benissimo se navigasse come la Juventus, che può comunque consolarsi (sic!) perseguendo gli obiettivi prestigiosi del campionato e della coppa campioni. L’Italia può consolarsi solo con le labili speranze che Trump la smetta di fare il buffone, che l’Europa ci sopporti e che i fattori esterni ci lascino in pace. Alla più brutta faremo un Istat grillino che ci manderà via internet messaggi di incoraggiamento.

Il circo senza rete

Per la seconda volta, dopo un penoso e vomitevole tira e molla sulla pelle di decine di disperati, si è trovato in extremis un accordo fra gli Stati europei per accogliere i migranti parcheggiati su una nave, dopo la Diciotti siamo ad una nave gestita da una Ong (la Sea Watch), suddivisi fra ben sette Paesi disposti ad accoglierli pro quota. Il premier italiano Conte si pavoneggia per avere svolto il ruolo del mediatore ed aver ottenuto un risultato di facciata: il governo usa il bastone, ma poi al momento opportuno sa tirare fuori la carota, gioca a fare il duro fino ad un certo punto, poi trova gli accordi per uscire dalle situazioni a dir poco imbarazzanti.

“Missione compiuta! Ancora una volta, grazie all’impegno del governo italiano e alla determinazione del Viminale, l’Europa è stata costretta a intervenire e ad assumersi delle responsabilità”, dice il vice-premier Salvini a proposito della vicenda Sea Watch. “Sei Paesi hanno accettato di accogliere gli immigrati a bordo della Sea Watch, coordinandosi con la Commissione europea. Si tratta di Francia, Portogallo, Germania, Malta, Lussemburgo e Romania” aggiunge Salvini, il quale poi auspica che “venga aperta un’indagine sul comportamento della Ong”.

Perbacco, così si fa, si tiene duro e si ottiene. Cosa? Che l’accoglienza venga comunque garantita anche se gestita ai minimi termini e parcellizzata, che la chiusura dei porti sia una manfrina inutile tanto nessuno viene respinto, che mal comune sia mezzo gaudio anche per l’immigrazione, che un progetto politico continui ad essere di là da venire, che le parole grosse coprano il vuoto dei pensieri piccoli.

Il personaggio più ridicolo, tutto sommato, non è Matteo Salvini, ormai lo conosciamo (tutti i mali, se li conosci, li combatti meglio), ma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale si sta specializzando nel raccogliere i rifiuti organici dei suoi vice-premier e nello smaltirli negli occasionali fornetti inceneritori europei. Se questo vuol dire fare politica e fare Europa…

La prossima volta, in occasione del prossimo carico umano in balia delle onde mediterranee, consiglierei di fare così: ripetere la stessa manfrina in poche ore, contenendola in qualche scambio polemico ormai collaudato; ribadire che è tutto merito del ministro dell’Interno; fare un hip hip urrà agli Stati europei più morbidi; portare in trionfo Giuseppe Conte; augurare lunga vita al governo giallo-verde; scaricare le colpe sulle Ong.

Se non ci fosse comunque di mezzo la vita di tanti migranti, sarebbe il caso di farci sopra quattro risate: il circo Salvini ha i trapezisti per far tenere il fiato sospeso, gli equilibristi per tenere in piedi le situazioni, i domatori di leoni per mostrare coraggio, i prestigiatori per cambiare le carte in tavola, i clown per alleggerire la tensione. Non sarà difficile classificare i governanti attuali in queste categorie. E la rete? Ne siamo sprovvisti, ma…applausi.

 

 

La buccia di banana del “Diciottigate”

«Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».

Una legge costituzionale ha istituito il cosiddetto tribunale dei ministri, il quale ricevuti gli atti riguardanti  gli ipotetici reati, compie indagini preliminari, sente il pubblico ministero e può decidere l’archiviazione oppure la trasmissione degli atti con una relazione motivata al procuratore della Repubblica, affinché chieda l’autorizzazione a procedere alla camera di appartenenza degli inquisiti, la quale – sulla base dell’istruttoria condotta dall’apposita giunta – può negare, a maggioranza assoluta, l’autorizzazione ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo. Se viene concessa l’autorizzazione a procedere, il giudizio di primo grado spetta al tribunale ordinario del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio e non al tribunale dei ministri. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le norme del codice di procedura penale.

Nel caso del comportamento tenuto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in occasione della nota vicenda della nave Diciotti, in prima battuta la procura di Agrigento aveva investito della questione il tribunale dei ministri; questo, dopo aver disposto indagini preliminari ed aver acquisito il parere del pubblico ministero – il quale riteneva  che non si configurasse un reato – , ha ritenuto che  il ministro debba essere rinviato a giudizio ed ha trasmesso gli atti con una relazione motivata alla  procura della Repubblica affinché chieda l’autorizzazione a procedere al Senato. La pratica, giudiziariamente parlando, è arrivata a questo punto.

I reati a carico di Salvini sono sequestro di persona a scopo di coazione, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale: sarebbero stati commessi lo scorso agosto, quando il ministro ordinò alla Diciotti, nave militare della Guardia Costiera, di rimanere nel porto di Catania senza far sbarcare nessuna delle 190 persone partite dalla Libia e dirette in Italia, che si trovavano a bordo. Ora il Senato della Repubblica dovrà decidere se il ministro Salvini abbia o meno agito, come detto sopra, per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante oppure per il perseguimento di un preminente interesse pubblico.

L’interessato, quando la procura di Agrigento gli aveva comunicato l’apertura delle indagini nei suoi confronti, aveva detto che intendeva farsi processare e che non avrebbe puntato a salvarsi con un voto parlamentare; poi, invece, sembra che Salvini si aspetti che il Senato neghi l’autorizzazione a procedere.

Il parlamento deve giudicare se il comportamento del ministro sia costituzionalmente e pubblicamente giustificabile. Non a caso il ministro Salvini continua a sostenere di avere agito a difesa della inviolabilità dei confini e per garantire la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Siamo nella opinabilità politica o siamo nella trasgressione legale? La forza politica più imbarazzata sembra essere il movimento cinque stelle, oscillante fra la pedissequa linea giustizialista, che vuole il comportamento dei politici sottoposto rigorosamente al vaglio della magistratura, e la repentina virata garantista a salvaguardia degli equilibri di governo sempre più traballanti. In effetti il tribunale dei ministri ha tirato un bel sasso nella piccionaia “pentaleghista”. Sembra prevalere un compromesso “giusgarantista”, dettato più dal timore del calo di consensi e dai contrasti interni alla compagine movimentista che non da una piena assunzione di responsabilità politica. “Si faccia processare e sarà assolto”: questa sembra essere la linea grillina.

Non ha senso, perché, se Salvini ha violato le leggi dalla Costituzione in giù, gli altri componenti del governo non possono sostenere di essere estranei (non c’ero) o di non essersene accorti (se c’ero dormivo); se invece Salvini si è comportato correttamente, significa che i ministri pentastellati erano d’accordo con lui nel metodo, ma anche nel merito e non possono di conseguenza adottare alcuna presa di distanza dal suo operato. Stiano ben attenti a quel che fanno e dicono, perché se Salvini dopo essere stato rinviato a giudizio dovesse essere ritenuto colpevole, la colpevolezza, direttamente o indirettamente ricadrebbe su tutto il governo che si dovrebbe dimettere.  Se dovesse essere scagionato in Parlamento o assolto in tribunale, i grillini dovranno ammettere di essere con lui solidali a tutti gli effetti e di condividere la linea della fermezza (io la definirei “linea della infermità mentale”).

I grillini sembrano dire: “Non muoia Sansone e non muoiano i Filistei”. Ma in ogni caso dovrebbe morire Sansone con tutti i Filistei. L’imbarazzo è grande e si profila all’orizzonte una sorta di “Diciottigate”: una consistente buccia di banana, che potrebbe avere effetti notevoli. Per i pentastellati si profilerebbe la prematura fine del miracoloso ballo durato poco più di una estate. Per Salvini potrebbe essere una vittimizzazione tale da cannibalizzare il grillismo destrorso per poi ributtarsi nel centro destra con una Lega più bella e più superba che pria. Tutto se…

Politica estera tra mozione degli odi e degli affetti

Se c’era una linea politica su cui lo Stato e il governo italiani hanno brillato, dal secondo dopoguerra in avanti, per lungimiranza, coerenza, autonomia e serietà, quella era  la politica estera: un filoatlantismo che non ha mai rappresentato una piatta e acritica assonanza, una scelta filoamericana che non ha impedito all’Italia di distinguersi con aperture verso l’Est e verso i Paesi arabi, una vocazione europeista che ha visto il nostro Paese tra i promotori e i più convinti realizzatori della collaborazione fra i Paesi europei e i protagonisti di un forte impegno a livello delle istituzioni europee, una sensibilità ed un’apertura alle problematiche dei Paesi sottosviluppati, una forte difesa delle democrazie contro i totalitarismi e le dittature.

L’attuale governo sta riuscendo a distruggere quanto faticosamente costruito in oltre settant’anni, scompaginando il senso delle storiche alleanze, indebolendo le scelte fondamentali, assumendo atteggiamenti stravaganti e ondivaghi, confondendo la capacità critica con l’ostilità preconcetta, puntando a nuove, misere e opportunistiche alleanze. La politica estera è un difficile banco di prova: ogni giorno a livello mondiale la matassa tende ad ingarbugliarsi ed occorre intelligenza, pazienza e prudenza per dipanarla.

Innanzitutto abbiamo almeno quattro personaggi che la dettano e che non riescono a fare sintesi: il ministro dell’Interno, che non si capisce quali competenze abbia al riguardo se non quelle di collocare l’Italia in un autentico casino populista e sovranista col quale non abbiamo nulla da spartire; l’altro vice-presidente del consiglio, Luigi Di Maio, che se conosce la geopolitica come conosce la lingua italiana, fa molta fatica a capire se l’Italia è in Europa, in America o in Africa; un ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, messo a reggere il moccolo pentaleghista e a tenere aperte le porte che tutti vogliono sbattere; un presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che cerca disperatamente e penosamente di fare sintesi nel pollaio governativo con l’autorevolezza di un cappone.

Poi arrivano gli eventi che quasi giornalmente complicano il quadro internazionale e lo rendono ulteriormente complesso e problematico: ultima, la crisi politica venezuelana di fronte alla quale l’Italia rischia, come ormai sta succedendo spesso, di trovarsi isolata e/o spiazzata e/o confusa.   Il governo italiano è diviso e non si schiera: mena il can per l’aia. Il premier Conte, il ministro competente (?) Moavero e la Lega (che strana contingente assonanza…) vorrebbero associarsi ai leader europei schierati per Guaidò, dando una sorta di ultimatum a Maduro: o indice nuove elezioni entro pochi giorni o dovrà subire il riconoscimento dell’autoproclamato presidente Guaidò.

Ad un certo punto spunta un certo Alessandro Di Battista, un grillino doc, che non si sa da dove venga, chi rappresenti e che funzione abbia, ad assestare un colpo basso agli esponenti del governo ed al loro orientamento: «L’ultimatum è una stronzata galattica». Salvini naturalmente non si fa scappare l’occasione: «Dibba parla a vanvera…». Dibba per chi non lo sapesse è il soprannome affibbiato a Di Battista. Personalmente non condivido il soprannome, ma aggiungo una battutina dialettale in rima per meglio definirlo: «Vón che prima al la fa e po’ al la pista». I cinquestelle insomma, con il loro solito cerchiobottismo o “pesceinbarilismo” (come dir si voglia) dicono, sciacquando in Arno le cazzate dibattistane: «Presto al voto, ma no a interventi impositivi».

E allora ecco spuntare la mediazione di Giuseppe Conte, il quale dichiara testualmente: «L’Italia sta seguendo con costante attenzione la situazione in Venezuela. Auspichiamo la necessità di una riconciliazione nazionale e di un processo politico che si svolga in modo ordinato e che consenta al popolo venezuelano di arrivare quanto prima a esercitare libere scelte democratiche, senza interventi impositivi di altri Paesi». Il ministro degli Esteri Moavero Milanesi da parte sua aggiunge ed afferma: «Ci riconosciamo pienamente nella dichiarazione comune che gli Stati membri dell’Ue hanno diffuso oggi sulla situazione in Venezuela, alla redazione della quale abbiamo partecipato. Chiediamo una vera riconciliazione nazionale e iniziative costruttive che scongiurino sviluppi gravi e negativi, assicurino il rispetto dei diritti fondamentali e consentano un rapido ritorno alla legittimità democratica, garantita da nuove elezioni libere e trasparenti».

Alla fine di questa girandola di pareri e dichiarazioni ho capito poco quale sia la posizione europea ed ancor meno quale sia quella italiana. Anche a non dire niente bisogna essere capaci. Gianfranco Fini veniva ironicamente definito “uno che non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Gli attuali governanti italiani non sanno un cazzo, ma lo dicono male.

Quei cara…battole di immigrati

Ho cercato di fare ordine mentale nel ginepraio del sistema nazionale di accoglienza (?) dei migranti, consistente in diversi tipi di struttura.

Gli Hotspot sono i luoghi attrezzati per lo sbarco, dove si svolge la prima fase delle operazioni di soccorso, prima assistenza sanitaria, pre-identificazione e fotosegnalamento, informazione sulle procedure dell’asilo e della relocation.

I Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo) sono destinati all’accoglienza dei richiedenti asilo per il periodo necessario alla loro identificazione e/o all’esame della domanda d’asilo da parte della competente Commissione Territoriale. I Cara sono gestiti dal ministero dell’Interno attraverso le prefetture, che appaltano i servizi dei centri a enti gestori privati attraverso bandi di gara. Queste strutture di prima accoglienza si trovano isolate dai centri urbani e sono senza servizi di collegamento.

I Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) sono strutture per chi non ha diritto di stare in Italia e che attende di essere rimpatriato.

I Cas (Centri di accoglienza straordinaria) accolgono in prima istanza chi arriva via mare e funzionano nell’ipotesi in cui, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di immigrati, i posti disponibili nelle strutture di prima e seconda accoglienza non siano sufficienti.

Fin qui, si fa per dire, la prima accoglienza. Poi c’è il sistema Sprar, il Servizio centrale di protezione per i richiedenti asilo, che viene attivato dagli enti locali in collaborazione col Terzo settore e che ospita i rifugiati per la durata massima di un anno: dovrebbe essere il modello di “accoglienza integrata” e di inclusione sociale sulla base di progetti di inserimento al lavoro.

In questi giorni è stato chiuso il Cara di Castelnuovo di Porto, comune della città metropolitana di Roma: un centro sovraffollato, che però sembra funzionasse discretamente. La decisione della chiusura si è abbattuta come un autentico ciclone sugli immigrati in essa ospitati, i quali si sono visti sbattuti fuori improvvisamente con l’immaginabile ulteriore dramma di non sapere dove andare a finire la loro drammatica vicenda. Ci si augura che vengano ricollocati in altre strutture, ma, da quanto ho potuto capire, sono stati costretti ad abbandonare un minimo percorso di integrazione sociale avviato con un notevole impegno dall’ente gestore. Tutto azzerato in fretta e furia: gli immigrati rimessi allo sbando, i dipendenti senza lavoro, drammi giovanili e familiari: un vergognoso casino! La gente trattata come pacchi da trasportare, senza alcun riguardo, da un posto all’altro. Roba da matti! E questa sarebbe la nuova politica di integrazione del governo del cambiamento?

Una seria politica dell’immigrazione non esiste in Italia e purtroppo non esiste nemmeno negli altri Paesi europei: si naviga a vista, anzi si accoglie alla carlona o si respinge chi naviga a rischio e pericolo della propria vita. L’Europa ha tentato di proporre meccanismi di collaborazione fra gli Stati: non hanno funzionato in quanto alcuni non si sono resi disponibili all’accoglienza, preferendo la politica di innalzamento dei muri.

A fronte di questa pochezza culturale, politica ed organizzativa a livello governativo, si tende a criminalizzare chi soccorre in mare e chi accoglie in terra: sarebbero protagonisti di un business inammissibile, che si aggiungerebbe a quello dei trafficanti. Sul banco degli imputati vanno le Ong con le loro navi che si affacciano alle coste italiane e i gestori dei centri di cui sopra. Le prefetture faticano a districarsi, a volte trovano scarsa disponibilità a livello territoriale. I comuni fanno quel che possono. La magistratura fa le pulci a tutti. Il governo fa la voce grossa: non intende accogliere più nessuno, vuole buttare fuori quanti non riescono ad inserirsi nel farraginoso sistema, lascia testardamente e vigliaccamente centinaia di immigrati in balia delle onde, sballotta da un centro all’altro gli immigrati entrati in Italia. Non era possibile gestire la chiusura del Cara di Castelnuovo in modo più graduale e umano? Non era doveroso parlare con questa gente per proporre alternative minimamente condivise? Non si poteva aprire un dialogo con l’ente gestore per verificare il da farsi e per affrontare la situazione in modo più ragionevole? Evidentemente si ha fretta di lanciare messaggi duri sulla pelle degli ultimi e a poco servono le lacrime di coccodrillo del ministro Bonafede, il quale confessa di commuoversi di fronte a certe scene: veda piuttosto di fare l’impossibile per evitarle! Non è umanamente necessario soccorrere i disperati: poi ci sarà tempo e modo di ragionare, di programmare, di razionalizzare, financo di litigare.

La recente politica di responsabilizzazione della Libia, quale Paese di transito dei flussi provenienti dall’Africa (politicamente motivata e razionalmente avviata), sta rischiando di diventare il modo per far morire i disperati nei campi di concentramento anziché in mare aperto. I Paesi europei infatti non sono in grado di controllare e contenere i trattamenti disumani riservati dalla Libia a chi vuole tentare di emigrare, fuggendo da situazioni insostenibili nei Paesi di origine.

Al termine di questa breve e sommaria ricognizione mi sento costretto ad accogliere l’invito ripetutamente lanciato da Massimo Cacciari: “Vergognamoci!!!”. Alla misura già quasi colma l’attuale governo pentastellato (non mi interessano i distinguo tra gli urlatori alla Salvini, i ragionatori alla Di Maio e i mediatori alla Conte) sta aggiungendo un surplus di ferocia e di propaganda pseudo-razzista. Invece di cercare pazientemente soluzioni e progetti nuovi, si alzano vecchi muri ideologici e demagogici verso i disperati che chiedono aiuto, per i quali sarebbe finita la pacchia (frasi vergognose che gridano vendetta: arriverà con ulteriori disastri sociali che ci investiranno nel tempo). Chissà che prima o poi non finisca anche la pacchia elettorale di chi ci sta sgovernando. Poi sapremo cambiare registro e aprire le coscienze? Ho molti seri dubbi. Speriamo non sia troppo tardi.

 

 

 

 

Le sabbie mobili del razzismo

Oggi si celebra il Giorno della Memoria ovvero la “Giornata internazionale di commemorazione delle vittime della Shoah”, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, che ha voluto ricordare le vittime dell’olocausto e «condannare tutte le manifestazioni di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità, sia su base etnica che religiosa». È stata scelta la data del 27 gennaio perché quel giorno nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa fecero irruzione nel campo di concentramento di Auschwitz, liberando gli ebrei che vi erano rinchiusi e svelando fino a che punto si era spinta la ferocia nazifascista.

Siccome l’odio è un sentimento “globale” che esce dalla coscienza individuale per contagiare la comunità intera, il ricordo della Shoah deve toccare il proprio animo, ma deve anche ripercuotersi sugli assetti sociali contemporanei.

A livello individuale mi sento in dovere di ripulire la coscienza da ogni e qualsiasi pulsione discriminante e intollerante verso gli altri: non si è mai finito di fare questa pulizia, anche perché le tentazioni sono tante ed è facile cascare dentro certe derive rivedute e scorrette. Se giustamente è cambiato il comune senso del pudore, ingiustamente è mutato il comune senso dell’antirazzismo e dell’antifascismo. A volte mi coglie persino il dubbio che nel fondo delle coscienze sia rimasto incrostato un fondo di razzismo e fascismo che viene smosso e ritorna a galla alla prima occasione. Forse avevamo solo dato una frettolosa mano di vernice sulle colpe e col tempo lo sporco della storia ritorna in primo piano ed in bruttissima evidenza. Bisogna rimuovere profondamente e continuamente un passato che tende a farsi presente.

Accanto alla coscienza individuale si forma quella collettiva e a questo livello siamo attualmente in zona rischio. I moderni predicatori di odio sono subdolamente pericolosi: usano le paure più assurde ed ingiustificate per condurre la gente ad una sorta di “odio difensivo”, socialmente contagioso e politicamente nervoso. È un percorso esattamente contrario a quello della “celebrazione della Memoria”: stiamo lavorando alacremente alla “rimozione della Memoria”, che va ben oltre i rigurgiti negazionisti e i revisionismi di comodo, per giustificare le nuove forme dialetticamente sofisticate di razzismo.

Quando si afferma che prima vengono gli italiani e poi gli altri, si sta teorizzando una nuova dottrina che sostanzialmente risciacqua nelle acque leghiste e confonde nelle nebbie grilline il discorso della purezza razziale. Stiamo ben attenti: quando si lasciano in balia delle onde centinaia di naufraghi alla ricerca  di un porto in cui sbarcare e concretizzare il diritto alla vita; quando si sbaraccano gli immigrati come se fossero animali pericolosi da tenere lontani; quando si tollerano i campi di concentramento allestiti in Libia; quando si esorcizzano coloro che cercano di salvare il salvabile, assimilandoli a trafficanti di esseri umani; quando si arriva a questo, si è ad un millimetro dal razzismo, anzi forse vi si è già dentro fino al collo.

Urge un risveglio delle coscienze, ma chi lo potrà promuovere? Gli attuali governanti sparsi per il mondo: no.   I partiti politici alle prese con l’ansia del consenso a tutti i costi: nemmeno. I media che rincorrono le cazzate di turno e trascurano i valori di fondo: Dio ce ne scampi e liberi.  Gli uomini di cultura che non osano disturbare il manovratore e non rifiutano la tessera perché devono pur vivere: il coraggio non è il loro forte. E allora? Dopo aver ascoltato papa Francesco, bisognerebbe scendere in piazza, senonché la piazza è già piena di stronzi che agitano cartelli demenziali e fuorvianti. Forse occorre ricominciare tutto daccapo, dalle aste e dai puntini dell’etica e della politica. Gli insegnanti di un tempo facevano così. Il sussidiario fortunatamente lo abbiamo: la Carta Costituzionale.

 

Le galline taciturne della sinistra

Durante un convegno di carattere politico ero seduto fra i partecipanti vicino ad un caro amico a cui certo non faceva difetto la vis polemica. Il dibattito si trascinava stancamente, mancava l’acuto: chi meglio del mio amico poteva risvegliare la platea? Lo convinsi ad intervenire e lo caricai a dovere, invitandolo a “tirare giù senza pietà”. Mi diede retta, lo fece al di là delle mie più rosee aspettative: salì al podio e cominciò ad attaccare con una tal veemenza e soprattutto con una tal genericità da irritare alquanto l’uditorio. Fin qui, missione compiuta. Il bello fu che ad un certo punto, quasi automaticamente, anch’io mi sentii costretto a contestarlo apertamente, gridandogli di smetterla e di andarsene a casa. Lui dal podio mi guardava e non capiva: proprio io che lo avevo aizzato, ora lo attaccavo clamorosamente. Ci volle del bello e del buono per ripristinare l’amicizia, solo la sua innata bontà riuscì a superare l’incidente di percorso.

Ho ricordato questa simpatica gag, perché la ritengo abbastanza significativa di quanto sta avvenendo negli atteggiamenti critici verso l’opposizione di sinistra: a detta di molti commentatori politici non sa fare il suo mestiere, non ha ancora metabolizzato la cocente sconfitta elettorale dello scorso anno, non riesce a cogliere l’attimo e l’argomento giusto per attaccare, non ha il coraggio di ripristinare il collegamento col suo tradizionale elettorato, sta “gioghicchiando” alla meno peggio nascondendosi dietro penosi personalismi, e via di questo passo.

Poi, quando il partito democratico o qualcuno appartenente alla sua area trova il rigurgito di vitalità per opporsi alle derive populiste e sovraniste, imperanti a livello mondiale, europeo ed italiano, o almeno tenta di recuperare la forza di fare argine a queste ondate estremamente pericolose, gli stessi spietati critici gli si rivoltano comunque contro, sostenendo che l’opposizione dura finisce col fare il gioco del governo e col legittimare ulteriormente populismo e sovranismo. Allora cosa si deve fare? È proprio vero, come sosteneva mio padre, che, quando le cose vanno male, a parlare e, ancor più ad agire, si sbaglia sempre e sarebbe meglio aspettare che passi la buriana prima di intervenire attivamente.  Nella vita personale si possono fare simili scelte tattiche attendiste, nella vita politica è molto più difficile e problematico.

Per carattere sono portato a prendere posizione, ad esprimere apertamente il mio pensiero, a schierarmi senza opportunismi e quindi sono per una strategia politica interventista: alla lunga paga. Certo bisogna saperci fare, ma questo è un altro discorso, riconducibile alla qualità del personale politico più che all’opportunità delle battaglie.  Carlo Calenda sta tentando di mischiare le carte prima di darle: vuole trovare le disponibilità piuttosto sparse e sparute, ricondurle ad un minimo comune denominatore europeista e solidale per poi attaccare l’avversario, costituito appunto dalle forze nazionaliste e populiste tatticamente unite nel paradossale discorso storico di “andava meglio quando andava peggio”.

Apriti cielo: Calenda sbaglia, fa un assist ai populisti, liquida il partito democratico, è malato di protagonismo, non sa nemmeno lui quel che vuole, etc. Stando ai si dice, D’Alema e Bersani sarebbero addirittura per un’alleanza tattica con i pentastellati, per non regalarli al fronte sovranista. La malattia della sinistra di autoflagellarsi, dividendosi continuamente, cercando il pelo nell’uovo, non finisce mai. La prima gallina che canta ha fatto l’uovo. Il primo che prende un’iniziativa sbaglia, meglio aspettare Godot. La storia non ha insegnato niente. Peccato…