L’inutile polemica pubblica sui servizi segreti

Non ho sinceramente capito il succo delle critiche rivolte da Matteo Renzi a Giuseppe Conte in merito al controllo sui servizi segreti. Resto fermo a quanto affermava in via confidenziale Aldo Moro: i servizi segreti utilizzano le spie che sono la peggiore categoria di persone e quindi risulta difficile manovrarle ed assai problematico impostarne, contenerne e controllarne l’operato; tendono a sfuggire di mano, a confondere i ruoli fra spionaggio e controspionaggio; non ci si capisce dentro mai niente. I servizi segreti sono necessari? Purtroppo sembrerebbe proprio di sì. E allora? Bisogna cercare di tenerli sott’occhio. Non invidio chi lo deve fare. Si sa che in passato sono spesso sfuggiti di mano o addirittura sono stati manovrati contro lo Stato e le sue Istituzioni.

Il leader di Italia Viva ha chiesto al presidente del Consiglio di fare chiarezza sull’incontro tra il ministro della Giustizia Usa e i vertici dell’intelligence italiana. Obiettivo dell’indagine di Washington è stabilire se Roma abbia collaborato con i democratici per fabbricare false prove sul Russiagate. Matteo Renzi suggerisce al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di andare al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che esercita il controllo sull’operato dei servizi segreti italiani, a spiegare tutto sulla “spy story”, che ha coinvolto il ministro della Giustizia Usa William Barr, “venuto a incontrare segretamente il capo del Dis Vecchioni”. Fin qui niente da eccepire.

Renzi aggiunge: “I Servizi segreti italiani vanno messi in condizione di lavorare perché da loro dipende la vita dei nostri connazionali rapiti all’estero, delle operazioni di contro-proliferazione del terrorismo e sono in stragrande maggioranza degli straordinari professionisti. Personalmente penso che il presidente del Consiglio, in generale e nello specifico quello di adesso, farebbe bene a dare la delega dell’Autorità delegata ai Servizi. Suggerisco, nell’interesse del presidente del Consiglio, di avere un signor professionista che si occupi di queste cose e di non metterci sempre lui in mezzo”.

Sinceramente non mi sembra opportuno delegare a un tecnico un compito così delicato e importante e quindi non capisco dove voglia parare Renzi. Così come mi sembra pleonastica e invadente la raccomandazione di relazionare al Copasir sulle questioni inerenti ai servizi segreti. O ci sono seri motivi per dubitare sull’adempimento di questo obbligo o si tace.

Il premier Conte, dal canto suo, afferma: «L’intelligence è il presidio della democrazia, non essendo concepibile che si muova al di fuori del controllo parlamentare e dei compiti che il Governo le assegna». È evidente che, alla vigilia della sua audizione al Copasir (non appena ne sarà nominato il presidente), al capo dell’esecutivo prema sottolinearne la centralità e la rilevanza. Non è certamente suo interesse cercare nuovi nemici o nuovi conflitti, ma anzi è una sua priorità chiarire la posizione allineata «al servizio della patria». Non a caso elogia i vertici dei servizi: «Permettetemi di cogliere anche questa occasione per esprimere il mio più sentito apprezzamento e ringraziamento per l’operato dei vertici del comparto e per ringraziare tutte le donne e gli uomini per l’attività quotidiana che svolgono al servizio della Nazione».

Conte, poi, per sgomberare il campo dagli equivoci circa il suo possibile asservimento al presidente americano Donald Trump al cui servizio avrebbe messo a disposizione la nostra intelligence, con i due incontri tra il ministro di giustizia statunitense William Barr e il direttore del Dipartimento che si occupa delle informazioni per la sicurezza della Repubblica, Gennaro Vecchione, ribadisce che «l’interesse nazionale è il perno dell’azione». E ancora, rivolto ai neo assunti a livello dei servizi di intelligence: «Ogni sera andrete a letto convinti di aver rispettato la Costituzione ed i valori democratici e la mattina vi sveglierete più determinati che mai ad onorare la patria». Per il premier, insomma, è fondamentale ribadire che «l’intelligence è patrimonio dell’intera nazione, una comunità di valorosi professionisti che, garantendo la sicurezza del Paese, protegge quella sfera di interessi nazionali che unisce e non divide, nella quale tutti i cittadini italiani si riconoscono e debbono potersi riconoscere».

Le osservazioni renziane mi sembrano niente più di un modo per tenere sulla corda il presidente del Consiglio, partendo peraltro da argomenti molto delicati da usare con estrema cautela nella polemica politica. Le repliche di Conte mi paiono scontate e un tantino ingenue. Se Renzi ha qualcosa di importante da dire a Conte, lo faccia in separata e riservata sede. Se Conte si sente tranquillo, tanto meglio per tutti, ma stiamo attenti e con le orecchie e gli occhi aperti, perché quanto affermava Aldo Moro mantiene intatta tutta la sua inquietante attualità.

 

Seggiolini e seggioloni

Per ironia della sorte il giorno in cui viene varato il decreto che impone l’uso nelle automobili dei seggiolini anti smemoratezza genitoriale, in un asilo del torinese una macchina viene parcheggiata in salita senza freno a mano e investe alcuni bambini ferendone uno in modo piuttosto grave. Io ci vedo una morale, senza voler colpevolizzare alcuno: non c’è decreto che tenga, se non si sta attenti a quel che si fa. Ammetto sia difficile porre sempre la massima attenzione nel nostro comportamento, ma non esiste alternativa sufficiente ad evitare i rischi. Aiutati che il decreto ti aiuta.

Il Parlamento italiano avrà 345 parlamentari in meno: una legge di riforma costituzionale approvata quasi all’unanimità. Non entro nel merito del drastico provvedimento: il numero dei parlamentari non è un assoluto della democrazia, il parlamento sì, almeno di una democrazia parlamentare come la nostra. Facendo però un parallelismo con il discorsetto di cui sopra, non illudiamoci di avere risolto così il problema della distanza politica delle istituzioni dai cittadini, la questione della correttezza della politica e, men che meno, l’esigenza di risparmiare sulle spese erariali.

La nostra società, a tutti i livelli e in tutti i campi, è alla disperata ricerca delle scorciatoie e si illude così di raggiungere frettolosamente la meta, senza capire che l’uso delle scorciatoie presuppone una chiara e precisa consapevolezza della destinazione finale e della strada maestra, su cui, prima o poi, bisogna tornare.

Se consideriamo la politica come un inutile spreco di risorse e la tagliamo di brutto, rischiamo di non ritornare più sulla strada principale della democrazia e di vagare perdutamente nei meandri del populismo. Non darei quindi al provvedimento appena varato un significato eccessivo: o serve al recupero di efficienza del parlamento (e non sarà cosa facile) o rischia di indebolire ulteriormente il rapporto fra cittadini e istituzioni. Non intendo drammatizzare questa legge né in senso positivo, né in senso negativo. Sicuramente può essere solo un tassello in una ben più ampia riforma costituzionale e in un processo di rifondazione della politica al servizio dei cittadini.

Una complessiva riforma della carta costituzionale è stata ripetutamente tentata e regolarmente fallita. L’ultimo tentativo renziano è stato ignobilmente esorcizzato: poteva essere certamente qualcosa di più e di meglio rispetto alla sbrigativa sforbiciata dei parlamentari. In Italia l’importante non è cambiare seriamente, ma far finta di cambiare assai poco seriamente.

Cosa serve l’obbligo dei seggiolini anti-panico se i genitori non riescono a impostare la loro vita nel rispetto di quella dei figli anche a costo di impoverirsi materialmente. Cosa serve mettere in galera chi usa maldestramente l’automobile se non capiamo che la macchina è un bene da usare con grande e scrupolosa attenzione a costo di perdere (?) un po’ di tempo e di fare un po’ meno gli sbruffoni. Cosa serve ridurre le seggiole istituzionali se chi le occupa è e resta un incapace e chi lo elegge lo fa in base a criteri superficiali e genericamente protestatari. Diamoci tutti una bella e sana regolata, poi se ne potrà parlare.

 

 

Nella notte razzista, tutti i delinquenti sono immigrati

Ogni pretesto è valido per drammatizzare e fuorviare il problema dell’immigrazione. Mio padre, al contrario, era capace di sdrammatizzare anche le più gravi situazioni, aveva l’abilità dialettica di ridurre le questioni ai minimi termini, non per evitarle, ma per affrontarle in modo pacato e realistico. Di fronte alle reazioni esagerate e catastrofiste metteva in campo una curiosa similitudine: «Se a vón agh va ‘d travèrs un gran ‘d riz, an magnol pu al riz par tutta la vitta? No, al sercarà ‘d stär pu atenti…».

Due poliziotti sono morti a Trieste in una sparatoria in Questura. A sparare è stato un rapinatore che avevano fermato e che era insieme al fratello. Secondo una nota della stessa Questura, “i due fratelli erano stati accompagnati in Questura da personale delle Volanti dopo un’attività di ricerca del responsabile della rapina di uno scooter, avvenuta nelle prime ore del mattino. Per motivi in fase di accertamento – si legge nella nota – uno dei due ha distolto l’attenzione degli agenti e ha esploso a bruciapelo più colpi verso di loro. Entrambi hanno tentato di fuggire dalla Questura, ma sono stati fermati”. I due fratelli sono originari della Repubblica Dominicana. A sparare ai due poliziotti è stato quello descritto come affetto da disagio psichico.

Immediatamente, a latere di una sacrosanta ondata di sdegno per questo inquietante atto criminale, di spontanea condanna del clamoroso gesto criminale e di doveroso solidarietà verso gli operatori delle forze dell’ordine che rischiano la vita nell’adempimento del loro delicatissimo e importantissimo compito spesso dimenticato e sottovalutato, è partita la vergognosa strumentalizzazione del fatto che gli autori di questa folle azione criminale siano stranieri: vale sempre più la xenofoba e razzista espressione secondo la quale “straniero è uguale a delinquente”. Dimostrare, dati alla mano, che gli stranieri, gli immigrati in particolare, sono perfettamente in media rispetto alla delinquenza nostrana, non serve a nulla: non vale la temperatura reale, ma quella percepita, che risente del tasso di menagramo esistenti.

Adesso, da una parte si avrà la stucchevole invettiva di chi vuole fornire i cannoni alla polizia per battere la delinquenza, senza sapere che con i cannoni è difficile mirare sul giusto bersaglio ma si spara nel mucchio; dall’altra parte si criminalizzeranno tutti gli immigrati, con una generalizzazione assurda e dettata soltanto dalla paura alimentata da chi vuol creare un clima di scontro sociale su cui basare le proprie fortune politiche. Magari si tenderà scriteriatamente persino a bloccare l’iter parlamentare di una sana e positiva legge sulla cittadinanza agli stranieri, si chiami ius culturae, ius soli o come dir si voglia.

Di fronte a questo dibattito falsato, oltre a chi ci guazza dentro e soffia irresponsabilmente sul fuoco, esiste chi cerca di usare i guanti di velluto sollecitando e promettendo i soliti impossibili rimpatri: come se bastasse un decreto per scovare e riportare in patria i clandestini, senza contare che nei clandestini sono compresi anche soggetti che, pur non rientrando formalmente nelle categorie da accogliere, vivono comunque nei loro Paesi in situazioni disperate dal punto di vista economico e sociale.

Sarebbe molto più serio e onesto, ammettere innanzitutto che degli immigrati abbiamo bisogno, che quindi il fenomeno va gestito con razionalità e buon senso, che occorre affrontarlo in un clima costruttivo a livello nazionale ed europeo,  che nessuno può velleitariamente sbandierare ricette assurde, inapplicabili ed inumane come la chiusura dei porti e che dobbiamo rassegnarci  a fare i conti col fenomeno migratorio di cui siamo quanto meno corresponsabili, fenomeno che, al momento, non presenta peraltro quantitativi allarmistici, ma che, se non affrontato seriamente sulla base di politiche razionali ed umanitarie, può effettivamente creare grosse preoccupazioni. Insomma, in ordine all’immigrazione si può dire, parafrasando il noto proverbio, che la lingua batte a sproposito dove si vuole a tutti i costi che il dente dolga.

 

 

 

 

La prosopopea dimaiana

Nell’opera lirica Tosca, tratta come vicenda dal dramma storico di Victorien Sardou, durante la tortura del pittore bonapartista Mario Cavaradossi, il barone Scarpia, spietato Capo Della polizia, non sopporta che il torturato riesca a parlare per dare consigli a Tosca e ad un certo punto sbotta e grida. “Ma fatelo tacere!”.

La similitudine è ingenerosa, ma nell’attuale fase politica Luigi Di Maio si sente un grillista sottoposto a tortura e, forse proprio per questa ragione, continua a sciorinare, dal confino del ministero degli Esteri a cui è stato condannato, affermazioni gratuite sul programma di governo alla ricerca di un’identità perduta e di un ruolo politico misconosciuto da tutti. Vuole far vedere che conta ancora qualcosa e non perde occasione per distinguersi e ricattare il partner piddino.

La sua ultima trincea è l’iva: guai a toccarla per rimodularla; se il governo avrà l’ardire di toccare i fili dell’imposta sul valore aggiunto, cadrà miseramente sotto le picconate dimaiane. Giuseppe Conte avrà nei secoli il merito di avere spazzato via Matteo Salvini dal ministero degli Interni, da dove avvelenava la politica spargendo fiale di sovranismo e populismo. Non sarebbe il caso di riservare lo stesso trattamento a Luigi Di Maio allontanandolo definitivamente dal governo? Alla Farnesina non si capisce cosa ci stia a fare. La leadership del M5S l’ha perduta. La sua credibilità è finita nell’abbraccio soffocante con Salvini. Se resta in pista lui, facendo il pesce in barile fra governo e movimento, i pentastellati arriveranno a crollare ulteriormente nei consensi.

Forse Giuseppe Conte lo sta cuocendo a fuoco lento con la tacita benedizione di Beppe Grillo. È l’uomo dallo strafalcione facile e la storia gli dedicherà quella rassegna di svarioni linguistici e culturali che i giornali gli hanno già ampiamente riservato. Mi aspettavo che il presidente Mattarella gli mettesse il veto, ma era pretendere troppo. Sembra uno che rientri da un lungo viaggio e pensi di essere ancora in regime pentaleghista: nessuno l’ha informato e lui continua a fare il verso all’alleato Salvini. Qualcuno, prima o poi, gli dovrà pur dire, che il governo è cambiato, che non è più vice-presidente del Consiglio, che i grillini lo vedono come un “bego nella minestra”, che all’estero lo considerano un poveretto e che in Italia fa ormai la parte del poveraccio. Nel frattempo lui continua a dare aria ai denti. Quelli che…votano M5S perché Di Maio sparla bene.

È l’insopportabile ultimo della classe, che gioca a fare il primo. Possibile che nessuno riesca politicamente a toglierlo di mezzo (discorso solo ed esclusivamente politico: non voglio istigare nessuno contro di lui, su queste cose non si scherza). Se devo essere sincero, mi sta più sulle scatole lui di Salvini. Se servisse al riguardo aumentare un pochettino l’iva, ci starei. Sì, perché nella sua immaginazione farebbe cadere il governo, ma in realtà cadrebbe lui e ci libererebbe per sempre dall’ignoranza fatta politica. Sarebbe il secondo atto del sollievo, concetto acutamente introdotto da Beppe Severgnini per il governo Conte II. Al sollievo per l’emarginazione di Salvini e delle sue dannose sparate si aggiungerebbe quello per un “fatti più in là” riservato a Di Maio. In democrazia non si chiude la bocca a nessuno, ma farei una pacifica, morbida e democratica eccezione.

Nella sua stucchevole battaglia contro gli aumenti dell’iva ha trovato un occasionale alleato in Matteo Renzi anche lui impegnatissimo nel fare implacabilmente le pulci a Conte ed a pungerlo in continuazione: cose che capitano. Per quel poco di stima che mi rimane verso il leader di “Italia viva”, il nuovo partito senza storia e senza futuro, sotto sotto e cinicamente mi auguro che la vena rottamatrice renziana si possa scaricare su Di Maio, trascinandolo nel gorgo dell’antigoverno per poi giubilarlo con il solito spregiudicato ritornello dello “stai sereno”. A meno che nel gorgo non ci finiscano entrambi e vi trascinino il governo e il Paese.

Stato di diritto e ragion di Stato

A distanza di parecchi anni si sta facendo luce e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi, una persona arrestata per presunti reati a livello di tossicodipendenza e letteralmente massacrata di botte durante una sorta di calvario fra penitenziario e ospedale militare. Per un certo periodo di tempo ha resistito una ricostruzione morbida dell’accaduto: una morte per complicazioni dovute al già precario stato di salute accentuato dalla carcerazione. Bastava guardare le fotografie del suo corpo per capire che era stato selvaggiamente colpito. Partirono i depistaggi per coprire i responsabili di questo disgustoso episodio, ma alla fine non hanno retto e la verità è venuta finalmente a galla: merito dell’ostinata opera dei famigliari di questo ragazzo e del coraggio di alcuni magistrati, che non si sono fatti condizionare ed intimorire dalla “ragion di stato”.

È difficile capire perché alcuni carabinieri si siano lasciati andare ad una simile porcheria: capisco la frustrazione, la fatica e il fastidio verso la delinquenza di strada; non dico di usare i guanti di velluto, ma non è possibile scendere alla violenza ed alla crudeltà da parte di chi dovrebbe difendere tutti dalla violenza e dalla crudeltà. La cosa ancor più grave è però il tentativo di coprire questi comportamenti, depistando le indagini e sollevando polveroni dietro i quali nascondere questi fatti vergognosi ed inaccettabili da tutti i punti di vista.

La requisitoria del pubblico ministero al processo che si sta volgendo in questi giorni è stata ammirevole, coraggiosa ed equa. Un aspetto però non mi ha convinto: la difesa d’ufficio dell’Arma dei carabinieri. Con tutto il rispetto possibile e immaginabile per gli appartenenti all’Arma stessa, non mi convince che i suoi capi fossero all’oscuro della vicenda in tutto il suo divenire; in modo particolare i depistaggi non possono essere stati iniziativa esclusiva di singoli, lo scopo era quello di difendere nel modo peggiore il buon nome  e l’immagine dei carabinieri e quindi c’era in campo qualcosa in più delle mele marce a cui si fa riferimento: la pianta non è malata, sono d’accordo, ma c’è qualche ramo da verificare e da tagliare.

In Italia si tende a esagerare colpevolizzando i partiti quando un loro esponente sbanda e si rende responsabile di qualche reato, mentre nei confronti di alcune istituzioni non si può nemmeno pensare male, facendo due più due uguale quattro. La mossa dell’Arma di costituirsi parte civile è positiva, ma tardiva e non può togliere quanto avvenuto prima e rimettere automaticamente le cose a posto. Chi ad un certo livello ha ispirato, deciso, organizzato o quanto meno tollerato i depistaggi? Non lo si saprà mai, ma almeno ammettiamolo. Se poi queste cose avvengono per una sorta di omertosa legge militare, non scritta ma impressa nelle menti malate, il discorso si fa ancor più grave. Non voglio far risalire le colpe a chi comanda, perché capisco che non possa riuscire a controllare tutto e tutti, ma non accetto che chi comanda se ne lavi le mani.

Ammetto si sia fatto qualche passo avanti e sia emersa una verità che sembrava impossibile da ammettere. Però non mi basta: devono cambiare la mentalità e il clima nell’assetto e nell’impostazione delle forze dell’ordine. Ognuno si prenda le sue responsabilità. Fatti come quelli della morte di Stefano Cucchi, al di là dell’orrore che suscitano, al di là delle verità che vanno scoperte e punite in modo giusto (sono d’accordo col Pm, non in modo esemplare), devono insegnarci qualcosa ed è quel qualcosa che non si può ottenere appunto nemmeno con le pene esemplari.

 

Le sciocchezze disonorevoli

 

“Onorevole Meloni, mi scusi, ma sta dicendo una sciocchezza”, così ha detto Lilly Gruber durante una puntata di “otto e mezzo”, la trasmissione de la7 condotta appunto dalla nota giornalista, che ha ospitato la leader di Fratelli d’Italia. È una vita che Giorgia Meloni dice sciocchezze e finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dirglielo nei denti e fuori dai denti.

Si stava parlando di Europa e di regole da rispettare: Giorgia Meloni sosteneva che tali regole variano a seconda del gradimento europeo verso i governi italiani. Guai se non fosse così! Cosa ci starebbe a fare il governo nei rapporti con la Ue, se bastasse applicare degli indici: non siamo a scuola durante l’ora di matematica. Come ha giustamente affermato il nuovo commissario europeo agli affari economici, Paolo Gentiloni, c’è modo e modo di applicare le regole e c’è anche la possibilità di derogare ad esse in tutto o in parte in base a motivazioni serie sul piano dello sviluppo economico, degli investimenti e dell’occupazione.

È ovvio che se un governo si limita ad andare a Bruxelles per battere i pugni sul tavolo, per insolentire i dirigenti, per prendere le distanze dalle istituzioni europee, avrà un ascolto e una credibilità tendente a zero; se invece si dialoga, si presentano piani di sviluppo, si giustificano certe politiche espansive, il discorso può essere diverso e più possibilista. Si deve tener conto inoltre del contesto economico in cui si opera: un conto è sforare sul deficit con la previsione di un notevole aumento del Pil, un conto è sforarlo in una situazione recessiva etc. etc.

L’Unione europea ha le sue regole, ma anche la diplomazia ha le sue. Bisogna essere diplomatici, altrimenti sarebbe sufficiente farsi rappresentare in Europa da bravi ragionieri o da bravi polemisti.  Mario Draghi ne è la dimostrazione: è riuscito a rispettare le regole dell’Istituto da lui presieduto, ma ha puntato anche a sostenere la crescita europea e indirettamente ha dato una manona all’Italia. Pensiamo se a capo della Bce ci fosse Giorgia Meloni, quante sciocchezze riuscirebbe a dire e fare nell’interesse della patria.

Ma torno alla scaramuccia televisiva. Nelle interviste ai politici osservo come i giornalisti si limitino a fare domande peraltro piuttosto scontate e poi non ascoltano le risposte o, se le ascoltano, le ignorano per comodità o per piaggeria, non si permettono mai di contraddire l’interlocutore, per convenienza o per ignoranza. Mi sembra che, pur con tutti i limiti e i difetti, Lilly Gruber faccia eccezione e ragioni con la sua testa anche di fronte ai suoi interlocutori. Complimenti!

Gianfranco Fini era definito un politico che non sa un cazzo ma lo dice bene. Quanto a Giorgia Meloni, credo faccia parte di quella categoria di persone che non sa un cazzo e non riesce nemmeno a dirlo bene. La destra estrema fa dei passi avanti, ma la gente, ma il consenso, ma…

Giocare alle guardie del dazio

Ai bei tempi della mia fanciullezza, quando un gioco pendeva versa la sconfitta, il bambino, proprietario del pallone o di altro strumento ludico, ritirava il tutto e andava a giocare nel suo cortile dove era sicuro di vincere. Gli adulti facevano e fanno di peggio: per non perdere truccano il gioco, barano di brutto. Non si può cavarsela scuotendo il capo o pensando che l’uomo è fatto così e non c’è niente da fare. Sul fatto che l’anti-giochino di cui sopra sia una costante nei rapporti umani posso essere d’accordo, mentre non mi rassegno a subire passivamente questa impostazione egoistica. Prendo e riporto di seguito dal quotidiano “La stampa”.

Il tanto atteso verdetto del Wto, l’organizzazione mondiale per il commercio, alla fine è arrivato: gli Stati Uniti potranno imporre dazi sui prodotti provenienti dall’Europa per un ammontare annuo fino a 7,5 miliardi di dollari, quasi sette miliardi di euro. Un conto salato in grado di scatenare una guerra commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, frenare ulteriormente una crescita economica già stentata e dare un duro colpo all’export italiano. A cominciare da quello agroalimentare, ma senza dimenticare il settore moda e le motociclette, arrivando a costare al sistema Italia fino a un miliardo di euro.

La decisione del Wto è legata a quella con cui a suo tempo sono stati giudicati illegali alcuni aiuti pubblici destinati al consorzio Airbus e la cifra indicata dall’organismo che ha base a Ginevra è destinata a compensare il danno (stimato) subito dal sistema economico statunitense. Ma lo stesso Wto ha anche ritenuto illegali alcuni aiuti forniti dall’amministrazione di Washington alla Boeing e nei prossimi mesi dovrebbe emanare un verdetto analogo a quello odierno, stavolta per quotare il valore delle misure compensative che potrà adottare l’Ue.

Un gioco che potrebbe teoricamente avere somma zero, se non fosse per la vena particolarmente battagliera dell’amministrazione Trump e la sua attitudine a voler negoziare partendo sempre da una posizione di forza. I segnali giunti in questo senso da Washington non sono mancati ed hanno spinto la commissaria europea al Commercio uscente, la svedese Cecilia Malmstroem, a mettere le mani avanti. “Anche se gli Stati Uniti hanno avuto l’autorizzazione dal Wto – ha sottolineato – scegliere di applicare le contromisure adesso sarebbe miope e controproducente. Restiamo pronti a trovare una soluzione equa, ma se gli Usa decidono di imporre le contromisure autorizzate dal Wto, l’Ue non potrà che fare la stessa cosa”. Con il rischio di alimentare un clima già teso tra le due sponde dell’Atlantico e arrivare ad una guerra commerciale che, come già indicano l’andamento degli scambi mondiali e le reazioni dei mercati azionari (le borse sono crollate), avrebbe un effetto decisamente recessivo. “L’imposizione reciproca di contromisure – ha avvertito la commissaria – avrebbe solo effetti negativi per tutti”.

Fin qui la cronaca. Mi corre l’obbligo di aggiungere due brevi riflessioni: una di ordine etico-sociologico, l’altra di carattere politico. Che la globalizzazione sia un “gioco” pericoloso e poco divertente posso anche essere d’accordo, ma che sia meglio rifugiarsi nel proprio cortile e divertirsi a lanciare sassate nei cortili altrui non sono per niente convinto. La convivenza è difficile, ma non può essere sostituita dalla rancorosa solitudine. Non vale ricercare chi abbia fatto la prima mossa sbagliata ed aggressiva e ancor meno vale rispondere alle sassate rigettando indietro i sassi. Prima o poi ci rimetteremmo tutti.

La seconda riflessione riguarda il divertimento assai poco innocuo per i bambini della politica italiana. Abbiamo deciso di scherzare col fuoco del sovranismo e del populismo, di alzare la voce nazionalistica, di gridare per difendere i nostri interessi: di giocare nel nostro cortiletto. In una parola detta fuori dai denti, abbiamo deciso di votare la Lega e di darla su a Salvini. Ebbene, si sappia che così facendo si finisce nel tritacarne delle guerre commerciali e non solo commerciali. Forse siamo ancora in tempo per riprendere a giocare correttamente nel cortile comune.

 

Rigorista, ma non troppo

Ho ascoltato l’autopresentazione che Paolo Gentiloni, nella sua qualità di commissario agli affari economici, ha fatto davanti alla commissione competente del Parlamento europeo convocata per dare il suo placet alla nomina avvenuta a livello di vertice e di spartizione fra gli Stati-membro. Una relazione molto garbata, ma anche molto densa di significato.

Paolo Gentiloni, come riportano le agenzie di stampa (ho ripreso quanto scritto a caldo da Huffington post), ha assicurato da subito che si concentrerà sulla riduzione dei debiti più alti. In audizione davanti al Parlamento europeo, nell’esame da superare per la nomina a commissario Ue agli Affari economici e monetari, l’ex premier ha teso, ma non troppo, la mano ai rigoristi, assicurando che i debiti devono scendere, ma chiarendo il suo pensiero. “Nell’applicare le nostre regole, mi concentrerò sulla riduzione del debito pubblico come qualcuno a cui sta profondamente a cuore l’impatto potenzialmente destabilizzante del debito alto quando l’economia va male”. Nel suo mandato si occuperà quindi anche di un “uso adeguato dello spazio di bilancio per far fronte al rischio di rallentamento delle nostre economie”.

Le regole vanno applicate, “supervisionerò l’applicazione del Patto di Stabilità e crescita per assicurare la sostenibilità dei conti, farò uso delle flessibilità quando necessarie, per ottenere una posizione fiscale appropriata e consentire alle politiche di bilancio di giocare un ruolo di stabilizzazione e promuovere gli investimenti”. Più flessibilità, quindi – “non è una concessione a qualcuno, è nelle regole” chiarisce – per stimolare gli investimenti e sostenere la crescita economica.

Le regole potrebbero anche essere riviste. “Il Patto di stabilità e crescita – afferma Gentiloni – non è perfetto, userò l’opportunità, che ci dà la revisione delle regole contenute nel Patto di stabilità e crescita, per riflettere sul futuro, basandomi sull’evidenza del passato e prendendo in considerazione il contributo del Fiscal Board (l’organismo che ha aperto alla golden rule per gli investimenti)”.

Un parlamentare tedesco lo ha messo alla punta chiedendogli come si comporterà di fronte al disavanzo e al debito pubblico dell’Italia: domanda legittima, ma assai maliziosa e petulante. Gentiloni ha risposto con grande abilità e stile. Nessun commento infatti sulla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza presentata dal Governo italiano: “a quel progetto – assicura – dedicherò la stessa attenzione e serietà sul rispetto delle regole con cui esaminerò quelle degli altri stati membri”. Ed ancora: “Non sono e non sarò il rappresentante di un unico Governo nella commissione, mi occuperò di tutti e 27 i progetti di bilancio”.

Lo stile, l’abilità e l’esperienza non gli mancano, ma i nord-europei la devono smettere di fare i primi della classe. Gentiloni avrebbe potuto rispondere tranquillamente: «Accetto la sua domanda provocatoria, ma è sicuro che i membri della commissione e i dirigenti della Bce provenienti dai Paesi settentrionali della Comunità, in particolare dalla Germania, siano sempre stati equidistanti e imparziali nello svolgimento dei loro compiti istituzionali? Non guardi in anticipo la pagliuzza nel mio occhio e non dimentichi quelle negli occhi dei suoi connazionali».

Di fronte al presuntuoso atteggiamento rigorista vado su tutte le furie. Alla Germania, come del resto anche all’Italia, fu riservato un trattamento di favore alla fine della seconda guerra mondiale. Fu aiutata non poco nel processo di riunificazione. Ha spadroneggiato assai a livello europeo e internazionale. Con chi è più forte, ma soprattutto con chi è più bravo credo si debba tenere un atteggiamento di ammirazione e di disponibilità. Ma mi son sempre piaciuti i primi della classe che fanno copiare i compiti e non quelli che fanno mettere i meno bravi dietro la lavagna. L’Italia ha sicuramente molti scheletri negli armadi, molti peccati da farsi perdonare, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra.

 

 

 

 

Votare per crescere

Mi è sempre stato riconosciuto un certo carisma nel rapporto con i giovani, addirittura con i giovanissimi. Succedeva nelle associazioni cattoliche che ho bazzicato, nel mondo della scuola che ho purtroppo solo sfiorato da insegnante, nel campo professionale che ho calpestato per decenni, nel settore sociale che ho frequentato direttamente dopo il raggiungimento dell’età pensionabile. Riuscivo e riesco tuttora a dialogare con loro, a mettermi in sintonia, a comunicare la mia esperienza.

Preferisco quindi coltivare rapporti concreti col mondo giovanile piuttosto che teorizzare e pontificare sul modo di essere dei giovani d’oggi e di ieri. Quando lo faccio, tirato per la giacca dalle provocatorie circostanze, oscillo fra l’assegnare ai giovani una patente di benefica diversità rispetto alle generazioni precedenti e l’osservare criticamente la loro mancanza dei fondamentali della cultura e della politica in particolare.  Pretenderei magari di abbinare gioventù ed esperienza, dimenticando che il bello dei giovani è proprio quello di non essere condizionati e frenati dall’esperienza. Mio padre diceva argutamente: «Se un ragas al gaviss al sarvél ‘d n’omm, al ne sariss miga un ragàs…».

Diciamo pure che più i giovani sono “diversi” più svolgono la loro benefica funzione critica nei confronti della società. Se posso permettermi una valutazione generale sul comportamento giovanile odierno, trovo in essi una scarsa capacità di contestazione, conseguente al loro piatto conformismo rispetto alle proposte della società corrente. Quando li vedo assorti e alienati con le cuffiette alle orecchie, chiusi nella disperata ricerca del nulla informatico, mi prende una grande pena. Per fortuna c’è qualche impennata: ultima la contestazione ecologica, che mi lascia ben sperare.

Chiedo scusa per l’autocitazione. In un breve saggio pubblicato nella sezione “libri” del mio sito internet, intitolato “Dialogo tra un trolley ed uno smartphone” ho intentato un brillante processo ai giovani d’oggi tra luoghi comuni, forti provocazioni, pessimismo di maniera, ottimismo di facciata, realismo quasi disperato, lumi di speranza: dal bamboccionismo, con venature di sfigatismo, alle azioni coraggiose per la conquista dei diritti civili.

Il punto dolente è la politica: i giovani non riescono ad inserirsi negli schemi e tendono ad appartarsi, sottovalutando le istituzioni democratiche e la partecipazione ai processi decisionali. L’offerta politica è indubbiamente deludente, ma non c’è nemmeno da parte loro la domanda politica. Potrà servire concedere il voto ai sedicenni? Questa idea sta paternalisticamente mettendo sotto i riflettori i giovani. Non l’hanno chiesto loro, rischiano di subirlo quasi come un’imposizione, come un diritto gentilmente concesso e non come una conquista. Fossi giovane, mi sentirei quasi offeso e restituirei al mittente questo peloso regalo, che puzza di strumentalizzazione e di compromissione col potere costituito. Ma bisogna ragionare!

Viene prima la coscienza democratica o il diritto di voto? Viene prima la gallina della partecipazione politica o l’uovo della scheda elettorale nell’urna? Si è in grado a sedici anni di esprimere un giudizio sulla proposta proveniente dai partiti? Tutti dobbiamo essere in grado di partecipare e quindi ben venga l’apertura di nuovi spazi, ma il problema rimane quello della cultura politica, del come porsi di fronte alla società, della capacità critica nei confronti del sistema. Tutto sommato però meglio rischiare l’omologazione politica col voto che rifugiarsi nell’antipolitica inconcludente e contraddittoria dei venditori di fumo. Il voto conterà poco, ma viene da lontano, profuma di battaglie popolari, è un’occasione di crescita da non perdere. È un diritto per la conquista del quale tante persone hanno dato la vita: ricordiamocelo e viviamolo come un modo di essere uomini, donne e cittadini.

 

 

Le parole che coprono la musica

Speravo vivamente che il Governo Conte II si caratterizzasse per una maggiore discrezione a livello di contrasti interni: non mi illudevo che potessero miracolosamente sparire, ma che venissero esternati e gestiti con maggiore senso di responsabilità. Se infatti le clamorose contrapposizioni erano quasi la cifra del governo Conte I e su di esse veniva paradossalmente costruita la gara al consenso, per l’attuale governo la quotidiana rissa parolaia mette in seria difficoltà il già precario e risicato equilibrio politico-programmatico.

Tutti hanno la penosa necessità di distinguersi. Il M5S deve sbandierare continuamente la sua demagogia: su ogni argomento fa una sorta di controcanto rispetto alla linea emergente e, quando proprio non sa come contrapporsi, si rifugia nel taglio dei parlamentari, che è diventato lo specchietto delle allodole di questa stagione politica. Di Maio deve distinguersi dal premier Conte, che gli contende (il bisticcio di parole è voluto…) la leadership del movimento; le diverse correnti movimentiste scaricano sul governo le loro insoddisfazioni e frustrazioni; l’aria interna è piuttosto pesante e allora bisogna aprire le finestre governative (meglio il raffreddore a Conte che la polmonite al M5S).

Matteo Renzi vuol tenere viva la sua Italia e non tace un attimo in un continuo altalenare di promesse di fedeltà e di minacce di distinzione. Se il parlare troppo è il suo segno distintivo, questo vezzo è direttamente proporzionale alla necessità di trovare una propria identità: sì, perché ormai siamo al punto che prima si fonda un partito e poi se ne cercano le radici, ammesso e non concesso che esistano.

Il partito democratico, sgravato dal peso contestatore renziano, è relativamente più calmo, anche se le correnti non mancano e l’accordo col M5S è duro da digerire. In compenso, per il momento, parlano poco i ministri e forse parla un po’ troppo il presidente del Consiglio, che assomiglia a Roberto Baggio quando finalmente approdò alla nazionale: ogni giocata doveva stupire il pubblico, i colpi di tacco si sprecavano anche se non servivano a niente. Giuseppe Conte ha trovato un suo spazio, dovrebbe cercare di gestirlo con molta discrezione senza rovinare l’immagine che è riuscito a creare di se stesso.

In conclusione non ne posso più della politica parolaia e ho tanta nostalgia dei tempi in cui si discuteva nelle sezioni di partito e non si bevevano le chiacchierate mediatiche, in cui le tribune politiche televisive erano poche ma buone, in cui i giornalisti facevano il loro mestiere e non invadevano il campo delle primedonne, in cui i partiti facevano politica e la politica non faceva i partiti. Bei tempi, in cui, per dirla con Berlusconi, molti politici attuali sarebbero andati a pulire i cessi di Montecitorio, palazzo Madama e palazzo Chigi.