Al secónd cavagn al vól bón

Domanda curiosa, oserei dire retorica, quella posta dal M5S ai suoi aderenti: dobbiamo presentarci alle prossime elezioni regionali? La risposta è talmente scontata che, probabilmente, chi l’ha posta aveva la malcelata intenzione di farsi dire di no per guadagnare tempo, scommettendo sull’umore da bastian contrario dei pentastellati. Invece gli iscritti hanno risposto di preferire la partecipazione alla contesa elettorale: un partito, o movimento che sia, impegnato, da ormai diverso tempo, nelle istituzioni del Paese, ha l’obbligo di fare proposte per il governo e di rimettersi al giudizio degli elettori a qualsiasi livello e non può fuggire dalle proprie responsabilità.

La situazione sembra essere la seguente: un capo (?) politico che dimostra un imbarazzo crescente nel guidare il proprio movimento, un capo carismatico che evidenzia una certa (in)spiegabile latitanza di fronte alla confusione regnante nelle fila dei suoi seguaci (se intervenisse non potrebbe fare altro che mandarli tutti a … , come da spunto iniziale movimentista), una flotta di parlamentari che parlano lingue diverse (meglio sarebbe dire che non conoscono la politica e quindi non la sanno fare pur avendone l’obbligo), che brancolano nel buio, che oscillano paurosamente fra il richiamo della foresta dei vaffa e l’imperativo istituzionale di operare scelte di campo e di governo, un elettorato presumibilmente sempre più stordito, deluso e smagrito.

Non si tratta di un piccolo e marginale partitino, siamo di fronte alla formazione politica di maggioranza relativa a livello parlamentare, investita di importanti responsabilità a livello governativo, presente a livello periferico con significativi ed emblematici incarichi amministrativi. Stanno imparando a (non) fare politica in una sorta di perpetuo stage sulla pelle degli italiani, che li hanno o non hanno votati.

La caricatura di democrazia diretta che inscenano nei momenti topici serve solo a enfatizzare le loro lacune: gli iscritti si sono espressi per la partecipazione alle elezioni, ma rimane il problema se presentarsi in solitudine, se allearsi con altre formazioni ed eventualmente con quale di esse. Altri referendum sulla piattaforma Rousseau? Ma fatemi il piacere… Questi inqualificabili signori sono passati nel giro di pochi giorni dall’alleanza contrattuale con l’estrema destra a quella più politica con la sinistra, nascondendosi dietro il dito del non considerarsi né di destra né di sinistra (una menata che va di moda, ma che non significa un bel niente); hanno provato a stringere un rapporto preferenziale a livello regionale (vedi le recenti elezioni in Umbria) per poi ripiegare  su una pausa di riflessione laddove il gioco si fa pesante (leggi le prossime elezioni in Emilia-Romagna); esprimono il presidente del Consiglio (Giuseppe Conte nelle due versioni), salvo metterlo continuamente in difficoltà e prenderne le distanze; sui temi e problemi non riescono ad avere uno straccio di linea e creano una confusione pazzesca nella quale chi ci capisce qualcosa è molto bravo.

Se la politica è in gravi difficoltà, l’antipolitica, così come incarnata dai pentastellati, sta facendo un fallimento spaventoso e deleterio. “Al primm cavagn al vól bruzè”, si dice con una saggia espressione dialettale. Avanti il prossimo. Si profila all’orizzonte un tentativo interessante, ricco di elementi nuovi e diversi rispetto al vaffa grillino. Innanzitutto una precisa scelta di campo culturale e storica contro il salvinismo e quanto rappresenta. Poi il richiamo a certi fondamentali valori umani. Poi la politica intesa come alto servizio ai cittadini e non come protesta verso tutto e tutti. Poi la proposta positiva che viene prima della protesta distruttiva. Poi, staremo a vedere. Mi riferisco al movimento spontaneo delle sardine. Mi auguro non sia l’edizione riveduta e corretta del M5S: un tentativo al buio andato male si può anche sopportare (errare humanum est), un secondo tentativo sprecato sarebbe un vero disastro, perché chiuderebbe ogni e qualsiasi rapporto innovativo fra la politica ingessata e la società in movimento (perseverare autem diabolicum).

 

 

Allerta rossa a Hong Kong

Ammetto di avere glissato sulle proteste di Hong Kong e sulle realtà che esse denunciano: sono stato fuorviato dai fatti di casa nostra e ho ripiegato sulle polemiche di basso profilo, dimenticando che alla base della convivenza ci sta il rispetto dei diritti umani in qualsiasi parte della terra.

Da alcuni mesi Hong Kong è al centro di forti tensioni a causa di proteste di massa e manifestazioni contro il governo. Tutto è cominciato dall’opposizione a una legge controversa sulle estradizioni in Cina, che con il passare delle settimane si è trasformata in qualcosa di molto più grande. I milioni di cittadini che marciano puntualmente nell’ex colonia britannica chiedono fondamentalmente più democrazia. La maggior parte dei manifestanti sono pacifici, ma non mancano episodi di violenza. Il quartier generale del governo è stato preso d’assalto e l’aeroporto internazionale della città è stato bloccato varie volte. Intanto i disordini sono cresciuti nel corso delle settimane e a Pechino la temperatura si alza, facendo temere per un intervento militare della Cina.

Hong Kong appartiene alla Cina, ma di fatto è una regione amministrativa speciale. Ha una sua moneta, un sistema politico e una sua identità culturale. Questo rapporto che mette insieme appartenenza e indipendenza è previsto dalla formula “Una Cina, due sistemi”, espressione con cui si indica la soluzione negoziata per il ritorno nel 1997 di Hong Kong sotto la giurisdizione cinese, dopo che per 150 anni dalla fine della Guerra dell’Oppio era stata una colonia britannica. Oggi il sistema giuridico di Hong Kong rispecchia ancora il modello britannico e i principi sono garantiti dalla costituzione, la Basic Law, che si basa sulla Common Law e che tutela diritti diversi da quelli dei cinesi continentali. Tra questi ci sono il diritto di protestare, stampa libera e libertà di parola. In generale la legge stabilisce anche che la città abbia “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto la politica estera e la difesa. La Basic Law assicura “la salvaguardia dei diritti e le libertà dei cittadini” per 50 anni dopo la riconsegna alla Cina (fino al 2047).

Molti residenti sostengono che Pechino stia già iniziando a violare questi diritti. Già nel 2014 Hong Kong era stata scossa da proteste durate quasi tre mesi, note come la “rivolta degli ombrelli”. Le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino di riformare il sistema elettorale di Hong Kong. La proposta, poi non adottata, è stata percepita come una misura estremamente restrittiva dell’autonomia della regione, perché comportava l’equivalente di una “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito Comunista Cinese (Pcc). L’attrito tra gli abitanti di Hong Kong e la Cina continentale non è dunque una novità degli ultimi mesi. Questa percepita minaccia allo stato di diritto di Hong Kong ha fatto riaccendere il timore nell’ex colonia britannica innescando le proteste che finora, hanno visto centinaia di manifestanti finire in manette.

I manifestanti hanno avanzato richieste sostanzialmente riconducibili all’ottenimento di maggiori libertà democratiche. Con il passare delle settimane i funzionari di Hong Kong e di Pechino sono diventati sempre più duri nei confronti delle proteste. Su Hong Kong grava l’ombra dell’intervento militare di Pechino. Da metà agosto Pechino ha schierato contingenti di truppe armate a Shenzhen, sul confine continentale di Hong Kong. Si sta lentamente avvicinando il momento per l’ex colonia britannica di cominciare a negoziare con Pechino per mantenere anche solo una minima parte del grado di autonomia di cui ora gode. Per la Cina, stabilità e sicurezza sono legate a doppio filo con i propri obiettivi di sviluppo economico, e proprio per questo Pechino le ritiene fondamentali: alla luce delle proteste di questi giorni, c’è il rischio concreto che in nome della stabilità la leadership comunista cinese accentui il livello di risolutezza nei confronti della società civile di Hong Kong, incrementando nel corso dei prossimi anni le ingerenze in un territorio considerato come “instabile”. Il timore è quindi che la Cina possa ordinare un intervento di forza.

Le note di cui sopra le ho tratte da un articolo pubblicato su Sky Tg24. Ho anche visto qualche servizio televisivo, che mi ha scosso e interrogato. “Le immagini che arrivano da Hong Kong sono tremende, così forti e drammatiche da sembrare scene di un film d’azione esagerato. Invece è la drammatica realtà, di fronte a cui restiamo inerti spettatori. Il silenzio dell’Italia e dell’Europa è vergognoso “. Lo dichiara la segretaria di Possibile (partito politico italiano, fondato a Roma nel 2015 da Giuseppe Civati, uscito dal partito democratico), Beatrice Brignone, sulla repressione delle proteste a Hong Kong. “I manifestanti – aggiunge Brignone – chiedono solo più democrazia e diritti, ricevendo in cambio la violenza delle forze dell’ordine. Il governo italiano deve denunciare con forza questi fatti gravissimi, portando la questione all’ordine del giorno nell’Unione europea e chiedendo un confronto civile. Bisogna farlo subito, anche perché la situazione sta precipitando”.Un bel tacer non fu mai scritto” (più raramente, il bel tacer non fu mai scritto oppure un buon tacer non fu mai scritto) è un noto proverbio italiano il cui significato è: “la bellezza del saper tacere al momento opportuno non è mai stata lodata a sufficienza”. Lo stanno (lo stiamo) applicando alla lettera confondendo però il saper tacere con la paura di parlare.

In effetti tutti tacciono e nessuno ha il coraggio di inimicarsi la Cina, che sta spadroneggiando in tutto il mondo, comprandosi aziende, terre, strutture di vario tipo. Ogni Stato ha “buoni” motivi per tenere rapporti decenti con la Cina, ci sono in ballo interessi economici enormi e nessuno vuole rischiare di aprire spiacevoli contenziosi. Gli Usa di Trump fanno finta di litigare con la Cina inscenando la pantomima della guerra dei dazi. Il colosso cinese è riuscito nel processo inverso a quello innescato da Michail Gorbaciov in Unione Sovietica: Gorbaciov è partito dalle riforme in senso liberale delle istituzioni politiche, fallendo purtroppo nel suo intento e consegnando l’economia nelle mani del peggior capitalismo, quello di stampo squisitamente mafioso; i cinesi sono partiti dalle riforme economiche omologando il loro sistema al più sfrenato dei capitalismi, salvando la brutta faccia del loro sistema politico comunista.

Il mondo occidentale deve fare i conti con lo strapotere economico cinese e non può permettersi “il lusso” di contestarne il regime comunista, che mantiene intatte le smanie dirigiste ed espansioniste. Come leggo sul Corriere della Sera, in Vaticano stanno analizzando da mesi la causa e le implicazioni delle proteste a Hong Kong, ma non hanno ancora assunto una posizione ufficiale. Sanno che si tratta di un tema al quale la Cina è ipersensibile: ancora di più dopo gli ultimi scontri sanguinosi. Qualunque presa di posizione può incrinare l’accordo temporaneo e segreto di due anni con il regime di Pechino sulla nomina dei vescovi: un’intesa da confermare e rinnovare nel settembre del 2020, e tuttora circondata da un alone di mistero e diffidenze. Si tratta di un attendismo che rischia di apparire, oltre che frutto di realpolitik, di subalternità a Pechino. «Forse», è la novità delle ultime ore, «il Papa parlerà delle proteste a Hong Kong sul volo per il Giappone. Ma solo se sarà sollecitato da una domanda», spiegano gli uomini di Francesco. Si tratterebbe dunque di un commento sollecitato, non di una dichiarazione ufficiale e scritta: a conferma della delicatezza del tema.

Ancora una volta la ragion di Stato prevale, come diceva Marco Pannella, sullo stato di diritto. Nell’indifferenza generale: spero che mentre gli Stati fanno i pesci in barile, almeno il nascente e interessante movimento delle “sardine” abbia la sensibilità di alzare lo sguardo verso i luoghi dove si calpestano i diritti dell’uomo e si incarcera o ammazza chi osa protestare.

 

 

 

Il mes…tiere di guastagoverno

Il governo Conte II era partito col piede giusto nei rapporti con l’Unione Europea, lasciando intravedere una nuova linea di apertura e collaborazione, ma anche su questo fronte emergono incertezze e polemiche: non basta l’autorevolezza di cui gode a Bruxelles il ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri, non è sufficiente l’equilibrio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non aiuta più di tanto al momento il benvisto commissario in pectore agli affari economici, Paolo Gentiloni. Anche a livello europeo è emersa una delicata questione, che rischia di diventare una grana esplosiva per la maggioranza di governo, la quale non perde occasione per evidenziare notevoli divergenze al proprio interno. Si tratta della riforma del Fondo Salva-Stati (Mes).

L’Esm, l’European stability mechanism, ribattezzato in italiano Mes, è il meccanismo permanente di stabilizzazione finanziaria d’Europa creato nel 2011 per far fronte agli choc innescati dalla crisi del debito sovrano nell’Eurozona ed è stato utilizzato nel salvataggio della Grecia. Sottoscritto dai Paesi Ue l’11 luglio 2011, ha sostituito il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf). Il Mes per ‘stabilizzare’ la zona euro mette a disposizione risorse finanziarie ai Paesi in difficoltà, ma solo a condizione che sia rispettato un piano di risanamento economico elaborato sulla base di un’analisi di sostenibilità del debito pubblico compiuta, nella versione attuale, dalla Commissione europea insieme al Fondo monetario internazionale e alla Bce.

Secondo quotidiano.net, a cui ho attinto a livello informativo, la polemica nasce dal fatto che la Ue sta pensando di riformare il Mes e questo potrebbe essere un rischio per i Paesi con un debito pubblico alto come l’Italia. Ma è giallo su uno dei nodi della riforma, il punto focale su cui si insiste da giorni: ovvero l’intervento del fondo solo se vincolato a una ristrutturazione ex-ante del debito. Sia il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, sia Bankitalia, precisano che la riforma del meccanismo non prevede uno ‘scambio’ tra assistenza finanziaria e ristrutturazione del debito. Via Nazionale spiega che la verifica della sostenibilità del debito prima della concessione degli aiuti è già prevista dal Trattato vigente. Tanto che il governatore Visco non avrebbe espresso nessun giudizio sfavorevole sulla riforma, al contrario di quanto trapelato ieri. E Gualtieri rincara: “Le condizioni per l’accesso di un paese ai prestiti del MES non sono cambiate, anzi, per una fattispecie specifica, sono state sia pur solo parzialmente alleggerite”. Per il ministro dell’Economia sulla vicenda c’è “molta confusione”.  Ammette Gualtieri: “Effettivamente, all’inizio del negoziato alcuni Paesi avevano chiesto che la ristrutturazione del debito divenisse una condizione per l’accesso all’assistenza finanziaria”. Però, rivela, “anche grazie alla ferma posizione assunta dall’Italia, queste posizioni sono state respinte e le regole sono rimaste identiche a quelle già in vigore”.

Come ormai succede ad ogni piè sospinto il leader leghista Salvini sparge veleni e soffia sui fuochi, non ha importanza se tali questioni fossero già ben presenti e siano state affrontate nel precedente governo, l’importante è creare zizzania populista: trappola in cui cade quasi sistematicamente il M5S col suo sempre più incerto e indisponente capetto. Su ogni torta problematica i grillini (forse sarebbe il caso di non chiamarli più così, vista la latitanza di Grillo) mettono la ciliegina, tanto per complicare le cose, avendo la preoccupazione più di distinguersi che di contribuire a risolvere i problemi sul tappeto.

Per il salvataggio dell’ex Ilva si è trattato di togliere velleitariamente lo scudo legale, facendo credere che sia una sorta di impunità per gli acquirenti dell’azienda, mentre, da quanto ho capito, si tratterebbe solo di garantire ai nuovi gestori di non dover rispondere di eventuali reati riconducibili alle situazioni irregolari precedenti, che dovrebbero comunque col tempo essere sanate. Per il fondo Salva-Stati si starebbe imponendo un alt su una riforma europea che non creerebbe ulteriori problemi all’Italia, mentre si vuol far credere che per attingere a tale fondo in futuro occorrerà la ristrutturazione preventiva del debito pubblico. Il premier Conte non ha un feeling particolare col M5S e ne soffre l’influenza, trovandosi a fare i conti un giorno sì e l’altro pure con le sfuriate pentastellate, che servono solo a sollevare polveroni elettoralistici e a nascondere i contrasti interni sempre più clamorosamente evidenti e paralizzanti.

Non so come finirà la trattativa con la Ue sul Mes e come riuscirà a destreggiarsi Conte tra le pesanti ipoteche del suo primo governo e le vaghe prospettive del secondo. Ogni giorno che passa rivaluto le perplessità che nutrivo alla nascita del governo giallo-rosso; mi ero illuso che alcuni punti forti, seppure tattici, dell’alleanza potessero avviare un periodo di “sollievo” (per dirla con Beppe Severgnini), invece sta sopraggiungendo il panico. Non penso si possa andare avanti così. Qualcuno lascia intendere che su molte questioni abbia decisiva e salvifica importanza la generosa e sapiente azione sotto traccia di Sergio Mattarella. Ho notato come, ogni volta che scoppia una grana, Giuseppe Conte si precipiti dal presidente della Repubblica: probabilmente e giustamente il capo dello Stato vorrà essere informato sullo stato dell’arte e non mancherà di fornire i migliori consigli, anche perché a lui guardano parecchi soggetti, dai lavoratori dell’Ilva ai sindacati che li rappresentano (?), dalla gente che mantiene una certa fiducia nelle Istituzioni ai rappresentanti europei. Confesso di nutrire immensa stima verso Sergio Mattarella e lo considero “l’ultimo dei giusti”. Per favore non trascinatelo nella bagarre, perché l’Italia ha molto bisogno di lui.

 

 

Sul filo del rasoio elettorale

Cifre da capogiro: al Senato sono stati presentati 4.550 emendamenti alla manovra economica varata dal governo Conte II e di questi ben 1.700 sono proposti dai parlamentari della maggioranza. L’approvazione della legge di bilancio, con tutti gli annessi e connessi, è sempre stata un tormentone politico-parlamentare, ricettacolo di tutte le questioni, di tutte le rivendicazioni, di tutte le marchette possibili e immaginabili. In un certo senso, niente di nuovo sotto il sole.

La questione assume però i contorni di una beffa se si pensa a come è nato e sta vivendo il governo Conte II: la compagine ministeriale avrebbe bisogno di cercare e trovare una sostanziale legittimazione con un minimo di compattezza a livello parlamentare fra le diverse forze della maggioranza e invece su ogni problema si scatena una litigiosità, che costringe il governo a stare in bilico come fa un equilibrista sul filo.

È vero che il Parlamento non è un organismo di mera ratifica dell’operato governativo, ha una sua funzione specifica a livello istituzionale, è titolare del potere legislativo, ma deve pur sempre esprimere una maggioranza altrimenti diventa un “pirlamento” qualsiasi, degno soltanto di essere sciolto e mandato a casa.

È inutile nasconderlo: prevalgono clamorosamente gli interessi di partito, tutti stanno a calcolare le convenienze in tal senso e l’unico collante rischia effettivamente di essere quello di evitare le elezioni anticipate, guadagnare tempo in vista della scadenza elettorale per la presidenza della Repubblica, rinviare a tempi migliori il redde rationem con il centrodestra a guida leghista. Non mi scandalizzo affatto: la politica è fatta anche di scelte contingenti riguardo al male minore. Se è così, bisogna però avere la freddezza ed il buon senso di condizionare la propria specificità politica all’obiettivo. Se non ci si può dividere per precisi calcoli di convenienza politica, ci si deve rassegnare a vivere in casa, seppure da separati, ed è perfettamente inutile continuare velleitariamente a rivendicare la propria libertà di manovra.

I cinquestelle sanno perfettamente che buttare all’aria il governo e andare alle elezioni sarebbe per loro un suicidio assistito; gli italiani vivi (amici di Renzi) si rendono conto di non essere assolutamente pronti a sostenere una prova elettorale che li  ridurrebbe ai minimi termini; i piddini sono consapevoli di vivere un momento di grande incertezza strategica e di notevole impaccio tattico e otterrebbero con ogni probabilità la vittoria di Pirro di monopolizzare per lungo tempo l’opposizione alla destra governante.

E allora si litiga nel poco per andare d’accordo nel molto, ma il poco è molto e può saltare il banco da un momento all’altro. Non c’è questione su cui la maggioranza di governo dimostri uno straccio di compattezza. Figuriamoci sulla madre di tutte le questioni, la manovra economica. Tirare la corda è lo sport preferito all’interno della maggioranza giallo-rossa nella convinzione che la fune non si spezzerà, perché irrobustita dalle convenienze di cui sopra.

Anche il precedente governo, fondato sulla coesistenza rissosa tra pentastellati e leghisti, giocava a litigare, ma c’era uno dei litiganti che era sicuro di poterselo permettere, la lega di Salvini, fino al punto da buttare tutto all’aria per andare alla conta elettorale. Volevano le elezioni e non le hanno ottenute. Paradossalmente il governo giallo-rosso non può permettersi di litigare più di tanto perché non vuole le elezioni e…rischia di averle. Credo che la causa fondamentale di eventuali prossime elezioni politiche anticipate non sarà tanto il risultato elettorale emiliano-romagnolo del prossimo gennaio, ma la insulsa e inconcludente litigiosità della maggioranza di governo.

I partner sono sostanzialmente quattro: il movimento cinque stelle con una leadership apparente in stato confusionale, una leadership occulta volutamente e cinicamente nascosta, una strategia completamente assente e camuffata dietro le solite e banali sparate populiste da quattro soldi; il partito renziano o Italia viva come dir si voglia, a cui non manca la leadership, ma con una strategia a misura strettamente ed asfitticamente renziana; Leu (Liberi e uguali, ex Pd) alla disperata ricerca dell’asettico purismo di sinistra, vedovi della lotta e delle masse, con molte chiacchiere e pochi fatti; il Partito democratico, l’unico vero partito superstite del nostro sistema democratico, dotato di una classe politica presentabile, sempre in mezzo al guado fin dai tempi del PCI, diviso al proprio interno e amleticamente incerto fra una scelta progressista moderata e una opzione ideologicamente radicale.  Quattro giocatori intorno al tavolo: dovrebbero essere costretti ad andare d’accordo per i motivi suddetti, ma la tentazione di rompere infantilmente il giocattolo è molto forte. E si vede.

Sardine, omega 3 contro l’alta pressione leghista

“L’Emilia-Romagna non abbocca”, “Bologna non si lega”: questi gli slogan che hanno portato ad adottare “le sardine” come simbolo della protesta anti-Salvini e della mobilitazione spontanea partita da Bologna, ma già arrivata a Modena e Torino. Le sardine sono infatti piccoli e indifesi pesci, che, di fronte allo squalo dell’ex ministro dell’Interno, si muovono compatti, si stringono e si spostano in gruppo e fanno massa. La mobilitazione, lanciata via Facebook, rilanciata con volantinaggi e campagne social, sta promuovendo vere e proprie masse di protesta: nessun legame di partito, niente bandiere, niente insulti. Si tratta di una sollevazione popolare spontanea contro l’onda salviniana che avanza, contro le idee divulgate dalla Lega, contro le derive populiste e sovraniste avviate dalla destra.

Ho già scritto, e ripeto con piacere, che sto respirando finalmente una boccata d’ossigeno, sto scoprendo una reattività impensata da parte soprattutto dei giovani, sto registrando una inaspettata voglia di ragionare con la propria testa.  A casa mia si chiama democrazia! Quindi non è vero che i ragazzi delle sardine con la politica non c’entrano e non vogliono c’entrare nulla: si tratta di iniziative squisitamente politiche anche se al di fuori dei partiti. Al momento non ho la più pallida idea di dove si vada a parare; non lo sanno nemmeno i promotori e ancor meno le migliaia di partecipanti a queste manifestazioni spontanee. L’avvio è promettente nella misura in cui testimonia un rigurgito di vitalità democratica in una società ripiegata su se stessa.

Mi sono posto diverse domande. La prima riguarda il timore che possa trattarsi di un vaffa-day riveduto è corretto, di una minestra pseudo-grillina scaldata, della solita sparata dell’antipolitica, della protesta contro tutto e tutti. Questi rischi esistono, ma forse il gioco vale la candela: meglio rischiare di sbagliare che stare fermi ad aspettare gli errori altrui. Lasciamo tempo al tempo, anche se di tempo sembra essercene pochino, se si vuole fermare l’ondata di piena salviniana, prevista per le prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna.

Palmiro Togliatti, se non erro, sosteneva che i partiti dovrebbero rappresentare la democrazia che si organizza e si struttura. D’altra parte la stessa Carta Costituzionale all’articolo 49 recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale “. Fino ad ora, volenti o nolenti, i partiti, pur con tutti i limiti e i difetti, hanno costituito l’ossatura della vita democratica italiana e non solo italiana. Sinceramente non credo che possano essere sostituiti da una sorta di assemblearismo piazzaiolo: quindi le sardine possono costituire solo una massa critica del sistema partitico, in particolare dei partiti di sinistra, dando voce positiva alla sfiducia distruttiva e trasformandola in sfiducia costruttiva. Il partito democratico, principale e potenziale interlocutore di questo movimentismo volutamente senza capo né coda, deve evitare la tentazione di strumentalizzarlo e/o di sottovalutarlo.

Sarebbe un gravissimo errore farsi prendere dalla smania di incassarne il consenso: ognuno faccia il suo mestiere, chi all’interno degli schemi istituzionali e partitici, chi al di fuori di tali schemi, vale a dire nelle piazze, sui social e in tutte le mobilitazioni spontanee. Il tutto in un benefico interscambio di influenze: il Pd scosso da questa ventata di aria fresca, il movimento delle sardine incalzato dalle esigenze politiche prospettate dal Pd. L’importante era che si muovessero le acque: qualche sasso nello stagno lo stanno buttando.

Qualcuno sta ironizzando: se la sinistra ha bisogno delle sardine vuol proprio dire che è a dieta. Rispondo con lo stesso tono ironico: il pesce fa bene, si digerisce bene, è nutriente e ricco di sostanze capaci di intervenire positivamente sui trigliceridi e sulla pressione sanguigna, preziose alleate del sistema cardiovascolare. Si tratta degli Omega 3, acidi grassi essenziali in grado di avere un effetto positivo anche sul sistema nervoso, il sistema immunitario, l’attività cerebrale, l’umore, le articolazioni. Contrastano poi le infiammazioni e l’invecchiamento cellulare, rallentando l’azione dei radicali liberi. Viste queste proprietà davvero straordinarie e dal momento che le sardine ne sono portatrici non dovremmo mai farle mancare alla tavola politica.

La politica tra botteghe e salotti

Durante le animate ed approfondite discussioni con alcuni carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta, in clima di pieno crollo delle ideologie, si constatava come alla politica rischiasse di sfuggire l’anima buttando via il bambino delle idee e dei principi assieme all’acqua sporca delle incrostazioni ideologiche , come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo, in un certo senso, facili profeti.  È giusto infatti che la politica parta dai problemi e non dalla teorizzazione astratta delle soluzioni sistemiche, ma l’approccio ai problemi può essere di vario tipo.

Si può addirittura far finta che non esistano e che tutto vada bene: in questo è stato maestro Silvio Berlusconi con l’evidenziazione dei ristoranti affollati, delle spiagge stracolme, dei week end praticati da milioni di persone che intasano le autostrade. Da un certo punto di vista non aveva tutti i torti, a volte cado anch’io in questa semplicistica e fuorviante analisi, ma la realtà è molto più complessa e diversificata. Si tratta della politica del facciamo finta che le cose vadano bene, che la disoccupazione sia un problema per i fannulloni, la difesa ambientale sia una mania salottiera dei cretini ecologici, la povertà esista solo nelle encicliche papali e nelle smanie filantropiche delle anime belle, l’immigrazione sia una preoccupazione eccessiva e un fenomeno facilmente arginabile.

All’estremità opposta vi è l’atteggiamento di chi prende atto in modo enfatico, spaventoso e strumentale della realtà problematica, gonfiandone i contorni, alimentando le ansie e le paure, drammatizzando le situazioni, per poi cavalcare il tutto con soluzioni illusorie e populistiche. Si tratta della politica mordi e fuggi, della soluzione consistente nel gettare la palla in tribuna, dei programmi sparati alla viva il parroco, della ormai scientifica e organica raccolta del consenso in base alle balle confezionate dai social. L’attuale destra, italiana e non solo italiana, adotta questi schemi ottenendo, almeno nel breve periodo, un certo successo. Non si tratta più di esorcizzare il comunismo mangia-bambini, di difendere la libertà dall’invadenza della sinistra pigliatutto, si tratta invece di cavalcare l’insicurezza pompata ad arte, la paura dell’immigrato discriminato e criminalizzato, l’angoscia dell’impoverimento fatto risalire all’invadenza fiscale e burocratica dei pubblici poteri. Alla drammatizzazione delle situazioni fa riscontro normalmente la proposta di soluzioni facilone e sbrigative quanto inutili se non dannose, ma prima che la gente se ne accorga passa del tempo e la fola può anche essere riciclata vergognosamente.

Esiste però anche la politica perbenista della ritrosia fatta stile: i problemi vengono schematicamente sottovalutati, il popolo viene lasciato ai populisti, l’immigrazione viene trattata coi guanti bianchi della solidarietà di prima accoglienza e lasciata vivacchiare ai margini della società senza impegno di integrazione, la disoccupazione viene combattuta con i pannicelli caldi senza il coraggio di trovare le risorse (con tagli drastici agli sprechi e con una effettiva lotta all’evasione e con tassazioni di scopo) per effettuare investimenti pubblici (soprattutto nella difesa del territorio, nella salvaguardia ambientale, nella valorizzazione della cultura e del turismo), che invertano la tendenza recessiva dell’economia. È la politica del balbettamento di sinistra, del tira e molla dei progressisti, del parolaio approccio degli sviluppisti.

In mezzo a queste (non) proposte è fatale che possa prendere piede la protesta, la sfiducia, il ripiegamento su chi più grida e si agita, la tentazione al disimpegno, la voglia di mandare tutti al diavolo. Purtroppo anche questo senso di smarrimento viene accolto dalla destra leghista, quella più estrema, che ne riesce a fare tesoro, mentre la protesta sbracata stenta a ritrovare la sponda grillina, che si sta sgretolando a vista d’occhio.

La sinistra fa molta fatica a riappropriarsi delle giuste battaglie ed a coniugarle con la modernità. Da lei il popolo si attende questo, perché in demagogia c’è chi è maestro e quindi ha ben più appeal con i suoi arruffapopolo patentati e imbellettati. Non è mai esistito il destino cinico e baro di saragattiana memoria e quindi bisogna elaborare idee e proposte e raccogliere il consenso con la pazienza dovuta e i tempi necessari: le scorciatoie non servono a niente. Partire dai valori per non fermarsi lì.

 

Se protesta fa rima con destra…

Siamo un po’ tutti affezionati, si fa per dire, allo schema politico che vede la destra al potere e la sinistra all’opposizione in Parlamento e a condurre la protesta nelle piazze, a volte anche durissima, ai limiti della violenza. Un altro conseguente e semplicistico schema prevede la destra al governo nei periodi di vacche grasse, quando ce n’è un po’ per tutti, e la sinistra al governo nei momenti difficili, quando cioè occorrono sacrifici per il bene comune.

Se mai questi schemi avevano una loro ragion d’essere dettata dal solo buon senso, oggi sono saltati, se non sono stati addirittura ribaltati. Forse è anche per questo che mi trovo sistematicamente spiazzato nelle mie analisi. L’ho presa su larga per trovare una spiegazione plausibile al fatto che in Italia, ma un po’ in tutto il mondo, la protesta viene catturata, interpretata e cavalcata populisticamente dalla destra politica più estrema, talora caratterizzata da venature nazionaliste e razziste.

Non è una novità storica in assoluto: i precedenti sono tragicamente preoccupanti, perché simili fenomeni hanno trovato la loro soluzione in regimi autoritari o dittatoriali conditi in salsa populistica. Inutile fare degli esempi. Per arginare queste derive occorre però non partire dall’esorcizzare le estreme conseguenze, ma, se possibile, affrontarne le cause.

Questa volta faccio un esempio. La manifestazione piuttosto spontanea, svoltasi a Bologna in concomitanza e in contrasto con la tournée salviniana volta a raccattare consensi in Emilia-Romagna in vista delle prossime elezioni regionali, ha visto una notevole partecipazione di popolo ed una sorta di scatto d’orgoglio della gente stanca di subire l’aggressione di una destra meramente distruttiva. Ho preso una boccata d’ossigeno e mi sono detto: finalmente il popolo di sinistra batte un colpo, si riappropria delle sue piazze, rispolvera la sua storia, rivendica la sua tradizione, richiama i suoi valori, riprende il filo della matassa nella regione emblematica ed esemplare. Il messaggio era molto chiaro: ci siamo e nessuno si illuda di farci fuori.

Poi, a parte il famoso discorso delle piazze piene e urne vuote che sembra aver funzionato sempre e solo a sinistra, mi sono chiesto: basterà il sacrosanto agitarsi contro Salvini, basterà togliere dall’armadio le bandiere, basterà gridare al lupo contro chi vuole buttare all’aria la democrazia, basterà fare appello alla mente dei cittadini per toglierli dalla pancia di cui si stanno accontentando? Non credo, a volte purtroppo si ottiene il contrario e quindi è meglio non farsi trascinare in una rissa pseudo-ideologica. Mi si risponderà: bisognerà pure farsi sentire e per farsi sentire serve anche scendere in piazza! Sono d’accordo e infatti sento tanta nostalgia dei tempi in cui, di fronte ad eventi interni ed internazionali, si trovava la voglia e il coraggio di mobilitarsi anche al di là degli stretti schieramenti partitici. Come era bello trovarsi in piazza a gridare il proprio dissenso!

La sinistra non deve però illudersi di riconquistare così, o solo così, il consenso della gente. Deve avere il coraggio di cogliere le cause del malcontento e di elaborare risposte credibili e concrete ai problemi, senza negarne l’esistenza o la portata, si chiamino sicurezza, immigrazione, delinquenza, etc. Finora i cittadini hanno la sensazione che le uniche ricette per certe malattie sociali le abbia miracolisticamente in mano la destra, che, prima enfatizza e drammatizza le situazioni di disagio e difficoltà, per poi proporre soluzioni sbrigative ed egoistiche, che tanto simpatia incontrano nell’ingenuità della gente.

Non è vero che il partito democratico non abbia identità, ce l’ha eccome, è l’unico partito che possa vantare una storia, una tradizione, una cultura. Il problema è che tutto questo patrimonio genetico è stato relegato in soffitta, perché serviva a fare opposizione e quindi… Sbagliatissimo! Sarebbe come se una persona mettesse in soffitta i testi su cui ha studiato, illudendosi che non servano più. Quante volte mi è capitato di andarli a riaprire e rileggere durante la mia vita professionale, trovando in essi risposte sempre attuali e adeguate.

Si provi ad individuare i valori fondamentali della sinistra e si cerchi di incarnarli spietatamente nella situazione attuale. Se si vuole fare in fretta, senza paura di sbagliare, si prenda la Costituzione e, a fianco di ogni articolo, si prevedano i contorni della sua attuale e pratica applicazione. L’identità è quella, ma la carta d’identità ogni tanto va rinnovata anche se si rimane la stessa persona. Non è facile, mi rendo perfettamente conto, ma bisogna assolutamente provarci. Buon lavoro!

L’armadio della fobia meteorologica

Non ho alcuna intenzione di iscrivermi al partito negazionista dei cambiamenti climatici, del riscaldamento terrestre e dell’inquinamento atmosferico e non vorrei quindi essere equivocato se non ne posso più delle continue notizie ansiogene sulle previsioni del tempo. Un tempo si temeva che fossero truccate per non disturbare i flussi turistici, oggi mi viene il dubbio che siano cavalcate da un’informazione esagerata, che sfrutta le notizie sugli andamenti atmosferici a livello di vero e proprio business.

Un conto è predicare e adottare precauzione, cautela, attenzione, oculatezza, altro conto è puntare direttamente o indirettamente sull’allarmismo fine a se stesso. Mi sembra si stia esagerando! Siamo bombardati da un susseguirsi di allarmi, gialli, arancioni, rossi: la fine del mondo sembra essere imminente.   È pur vero che un segno evangelico di imminenza della fine dei tempi, da intendersi non tanto in senso cronologico, ma etico e morale, è rappresentato da calamità naturali come terremoti, carestie, pestilenze e fenomeni atmosferici terrificanti come tifoni e super tifoni, che sono anche il risultato del nostro modo irresponsabile di trattare uomini e natura. Tuttavia non bisogna cadere nella trappola del catastrofismo.

È altrettanto vero che è meglio soffrire per eccesso di zelo precauzionale che per incuria e rassegnazione, ma tutto ha un limite. Anche perché persino la neve sta creando il panico: quando ero bambino la neve abbondantissima accompagnava tutto l’inverno, condizionava anche allora la circolazione, la viabilità, la vita quotidiana, ma a nessuno veniva in mente, peraltro in periodi in cui si era tecnologicamente assai meno organizzati ed attrezzati, di trasformarla nello spauracchio esistenziale dell’inverno e finanche della primavera.

Il discorso delle alluvioni è decisamente e drammaticamente più preoccupante. Certo sarebbe meglio che invece di piangere sul latte versato, si facesse qualcosa di più in via preventiva. Sicuramente creare un clima di panico spargendo a piene mani allarmismo, non serve a niente e a nessuno. Forse abbiamo acquisito una mentalità illuministica tale per cui tutto dipende dall’uomo e quindi, quando si verifica qualche evento clamorosamente dannoso e disastroso, occorre cercare a tutti i costi un colpevole su cui scaricare le colpe. Non sono certo un fatalista, ma nemmeno un giustizialista climatico. Occorre equilibrio prima e dopo le sciagure: prima, per prevenirle nei limiti del possibile, dopo per non aggiungere angoscia ad angoscia. Basti pensare agli appelli mediatici a fornire immagini dei disastri: un tempo andavano a ruba le registrazioni pirata degli eventi musicali, oggi vanno a ruba le immagini pirata delle alluvioni. Tutto fa spettacolo!

In passato si sono colpevolizzati molti soggetti per non aver divulgato per tempo gli allarmi provenienti dalla protezione civile ed è quindi normale che gli amministratori e tutti coloro che hanno responsabilità a livello pubblico stiano dalla parte del manico e divulghino allarmi a piene mani. So di dirla grossa, ma se andiamo avanti così, forse si dovrà imparare a proteggersi dalla protezione civile.

Innanzitutto bisognerebbe distinguere ciò che, pur creando disagio e difficoltà, rientra nella norma e quindi non deve essere vissuto con le mani nei capelli, ma semmai  con le maniche arrotolate. In secondo luogo sarebbe oltre modo necessario mobilitarsi, impegnarsi, lavorare prima e non fare un gran casino dopo. In terzo luogo occorre chiarire che le scelte a favore della salvaguardia ambientale, climatica e territoriale presuppongono sacrifici e rinunce: cose che nessuno vuol fare. In questo bailamme ansiogeno alla fine chi ci rimette sono coloro che vengono effettivamente colpiti, davanti ai quali rimango veramente angosciato e paralizzato.

Mia madre, quando vedeva gente che rimaneva senza casa per effetto di eventi atmosferici, si commuoveva al punto da augurare a se stessa di morire piuttosto che vivere simili drammi. Attenti però a non fasciarsi la testa prima di cadere, lasciando nella cacca chi è caduto e spargendo ansia da probabili attacchi di caduta. Una mia anziana conoscente, quando aveva sentore dell’arrivo di un temporale si rifugiava dentro l’armadio. Non vorrei che ci stessimo chiudendo involontariamente e collettivamente in una sorta di armadio della paura, aggiungendo a quella dell’insicurezza economica e sociale, a quella verso gli immigrati, anche quella della precarietà atmosferica e climatica. Sono consapevole di avere toccato tasti delicati, spero di essermi spiegato e di non avere dato l’impressione di insensibilità e scetticismo e soprattutto di non aver aggiunto confusione a quella che già purtroppo esiste.

 

Pizzarotti: cause note ed effetto a venire

Nel marzo 2012 Federico Pizzarotti si candida per il Movimento 5 Stelle alla carica di sindaco di Parma per le elezioni amministrative del 6 e 7 maggio 2012, successive alle dimissioni del sindaco di centrodestra Vignali e al commissariamento della città. Al primo turno ottiene il 19,47% e accede al ballottaggio contro il candidato del centrosinistra Vincenzo Bernazzoli, presidente della provincia di Parma, forte del 39,20% dei consensi.

Faccio un fermo immagine. Cosa era successo a Parma? Mentre all’orizzonte si profilava il grillismo, il partito democratico, che aveva la strada spianata dalla disastrosa esperienza del centrodestra camuffato da “civiltà parmigiana”, falliva a porta vuota un rigore, facendolo battere dal candidato totalmente sbagliato, per precedenti e discutibili sue esperienze amministrative, per inadeguatezza politica, per il vezzo insopportabile di lasciare una carica per un’altra più importante, ma soprattutto perché a bordo campo c’era pronto il goleador Giorgio Pagliari, candidato naturale a sindaco, unanimemente considerato come l’uomo ideale, per preparazione, esperienza e coerenza, capace di dare una svolta all’amministrazione comunale parmense. Gli fu inspiegabilmente preferito Bernazzoli.

Ricordo il confronto elettorale in vista del ballottaggio: un esercizio di presunzione post-comunista nei confronti di un neofita della politica. Se al primo turno elettorale mi ero astenuto, al ballottaggio non resistetti alla tentazione di dare una lezione esemplare alla sinistra incapace di leggere la realtà e sempre pronta a sovrapporsi alla realtà. Votai Pizzarotti, che uscì clamorosamente vincitore con il 60,22 dei consensi e si trattò del primo sindaco di un capoluogo di provincia appartenente al Movimento 5 Stelle: non era un’elezione con il riconoscimento politico del candidato e del suo partito, era semplicemente un atto di protesta contro il Pd, impegnato a guardarsi l’ombelico, e contro il forno inceneritore dei rifiuti ormai in fase di avanzata costruzione, avversione cavalcata dai grillini con la promessa  di una impossibile retromarcia .

Ebbi modo di pentirmi amaramente di aver votato Pizzarotti (non certo di non aver votato Bernazzoli), perché ne capii alla svelta i limiti e i difetti. Pizzarotti ha capito, fin troppo bene e da subito, che, come lui stesso afferma, “il Movimento doveva prendere la strada della maturità e diventare un partito serio e di governo, invece ha sbragato con uno al comando e senza che il gruppo crescesse”. Inizia quasi subito a fare il rompiballe fino alla sua fuoriuscita dal movimento, dopo un’assurda parentesi giudiziaria ed una pretestuosa sua sospensione, mai rientrata dopo l’archiviazione delle accuse a suo carico. Questo è il suo merito storico, al di là della sua amministrazione che giudico comunque insufficiente e di basso profilo.

Infatti nel 2017 dovetti astenermi ancora alle elezioni amministrative: il Pd sbagliava per l’ennesima volta il candidato, rincorrendo un fantomatico esponente del civismo alla parmigiana, Pizzarotti si ripresentava con una lista indipendente chiamata “Effetto Parma”, fondata da lui e da un notevole gruppo a lui fedele. Non mi convincevano e restai a casa, pur riconoscendo che, come diceva Montanelli, Pizzarotti non si era arricchito, dimostrandosi un galantuomo, non aveva voluto strafare ed era riuscito a galleggiare sul mare di debiti lasciati in eredità dalle precedenti amministrazioni megalomani e spendaccione. Fu rieletto con il 57,87% dei voti contro il pallido esponente del centrosinistra Paolo Scarpa.

Liberato dalla corsa all’impossibile terzo mandato, Federico Pizzarotti si monta la testa, fondando “Italia in comune”, auto-dichiaratosi il “Partito dei sindaci”, che si presenta con alterne vicende e risultati modesti alle elezioni regionali in Abruzzo, Sardegna e Piemonte. Alle elezioni di maggio per il Parlamento europeo il movimento promosso dagli spretati grillini punta su +Europa e Pizzarotti è candidato nella Circoscrizione Nord Est e si piazza secondo con 22.127 preferenze, ma non viene eletto in quanto la lista non supera la soglia minima di accesso.

Ho fatto una breve cronistoria della vita politica di Pizzarotti. Oggi ce lo troviamo a sostenere convintamente la ricandidatura di Stefano Bonaccini alla guida della regione Emilia-Romagna in vista delle elezioni del prossimo gennaio. Gesto obiettivamente apprezzabile anche se quasi scontato nel bel mezzo di un girovagare fine a se stesso (in nome dell’ambientalismo parmense, vicino a quello dei Verdi tedeschi che puntano su crescita e infrastrutture), espresso senza smania di potere, senza puntare ad una seggiola (anche se è ancora presto per dirlo), senza entrare nel Pd a cui assicura di non mandarle a dire (lo giudica un partito senza programma, fisionomia e identità), esprimendo, con tutta la comprensibile asprezza dell’ex, tutta la sua avversione per l’alleanza nazionale e regionale fra PD e M5S, distribuendo giudizi (positivi su Calenda, negativi su Renzi).

Naturalmente non poteva mancare un libro, “Il meglio deve ancora venire”. In conclusione concordo pienamente col titolo del libro e mi auguro che, per Federico Pizzarotti e quella Parma che lui dal 2012 amministra senza infamia e senza lode, arrivino tempi migliori. In cauda venenum: un tempo un personaggio come Pizzarotti avrebbe sì e no fatto il segretario di sezione di un qualsiasi partito; oggi pontifica politicamente sui massimi sistemi e si pavoneggia sul poco o nulla della sua amministrazione comunale in attesa del bagno culturale rigenerante del 2020. Chi si contenta gode.

Per Venezia: Mose o Mosè

Sono stato solo due volte a Venezia: per vedere un Otello di Verdi al teatro La Fenice in una giornata torrida, nel periodo ante incendio; precedentemente in gita di piacere (?) con il gruppo giovanile parrocchiale che frequentavo. In entrambi i casi andiamo molto indietro nel tempo. La gita però ha tutta una sua drammatica particolarità e attualità, perché capitò proprio nel giorno dell’acqua altissima del 1966: l’alluvione di Venezia del 4 novembre 1966, conosciuta anche come aqua granda o acqua granda, fu un evento meteorologico eccezionale che travolse la città con un’alta marea eccezionale senza precedenti, che raggiunse un’altezza record di 194 cm. Peraltro quello stesso giorno ci fu anche l’alluvione a Firenze (come dice il famoso proverbio, le disgrazie non vengono mai sole e purtroppo, nel caso di Venezia, si sono anche ripetute).

Al mattino non riuscimmo a sbarcare se non a Sant’Elena, il punto più alto e lì ci fermammo alcune ore. Al ritorno  anche a Sant’Elena l’acqua aveva interamente allagato le passarelle e fummo costretti a reimbarcarci sul vaporetto nei modi più strani: chi, come il sottoscritto, si fece letteralmente portare sulla groppa da un disponibile addetto al servizio, naturalmente dietro adeguato e improvvisato compenso;  chi si tolse pantaloni, scarpe e calze e si immerse nell’acqua gelida per poter raggiungere il pontile; ricordo che un amico si rimboccò i pantaloni e poi entrò nell’acqua con scarpe e calze (tanta era la tensione di quei momenti).

Lungo il tragitto col vaporetto fino ad arrivare a piazzale Roma ho visto scene apocalittiche: l’acqua sfondava le vetrine dei negozi e all’interno si notava la distruzione di tutta la merce, gente che alla vista dei propri esercizi commerciali devastati sveniva cadendo in acqua, i vigili del fuoco che accorrevano coi loro mezzi acquatici, ma finivano col fare onde e creare ancora più danno alle cose. Riuscimmo a salire sul pullman ed a tornare a casa: ci fermammo a cena in un ristorante lungo la strada e ci accorgemmo dalla televisione che era successo il finimondo anche a Firenze. Avevamo scelto il peggiore dei periodi per fare una gita a Venezia, ma ci consolammo nella convinzione di aver assistito ad un drammatico evento storico.

L’acqua alta di questi giorni non ha infatti superato il record del 1966. A distanza di oltre cinquant’anni Venezia è ancora esposta agli stessi rischi e pericoli. Non avrei mai più pensato che i fatti del 1966 potessero ripetersi, invece… Del fenomeno dell’acqua alta a Venezia se ne è parlato parecchio. Ci si è accapigliati e divisi sui progetti per contrastare il fenomeno. Mi sembra che tutto sia rimasto come prima e… la città è stata pazzescamente allagata. Ora comincia lo scaricabarile delle responsabilità. Sul Mose, il progetto che prevede le dighe, che dovrebbero alzarsi per difendere la citta di Venezia, è scoppiata la polemica: chi si chiede perché non funzionino ancora; chi dice che non funzioneranno mai; chi ritiene che i commissari, incaricati del funzionamento del progetto, avrebbero dovuto avere il coraggio di alzare le dighe, mentre loro si difendono affermando che non spettava a loro la decisione se alzare o meno il Mose, perché servirebbe al riguardo una cabina di regia istituzionale, ed attestando che nel 2019 erano previsti solo dei test di sollevamento in via di svolgimento e che il ministero delle Infrastrutture era al corrente della situazione. Mancherebbero inoltre anche i presupposti organizzativi per far funzionare il Mose: non ci sarebbero infatti le sufficienti risorse umane, adeguatamente preparate dal punto di vista tecnico.

Limitarsi a far funzionare solo alcune bocche di porto, a detta del Commissario Ossola, non sarebbe servito a nulla o addirittura avrebbe potuto creare maggiori danni alla città. La data di consegna del progetto definitivo funzionante, dopo ulteriori sperimentazioni e collaudi, dovrebbe essere il 31 dicembre 2021. C’è naturalmente chi accusa i responsabili di notevole lentezza nei lavori, chi mette il dito nella piaga dei finanziamenti.  Mi sono limitato a registrare quanto scritto, in modo obiettivo ed articolato da Alberto Zorzi sul Corriere del Veneto.

Aggiungo che personalmente sono tentato di pensare ancor più male e immaginare (?) la solita megastruttura, su cui si scaricano inefficienze, ritardi, rinvii, polemiche: insomma una Cattedrale sull’acqua. Certo, in questi casi vale più che mai quanto sostenne mio padre con una battuta velenosa in occasione di un’alluvione in Italia. Allora c’era da rispondere al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”.   Mio padre rispose: “Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. È indubbiamente una delle più belle battute di mio padre per stile, eloquenza, brillantezza, spontaneità e parmigianità. Non sopportava infatti, sempre e comunque, la faziosità, detestava la mancanza di obiettività e nelle sue frequentazioni terra-terra, nonché nel parlare a livello di base, lanciava questi missili fatti di buon senso più che di analisi politica. Non so cosa direbbe oggi. Sono passati molti anni dalla mia gita a Venezia e dalla battuta sferzante di mio padre. Leggendo ed ascoltando le polemiche scoppiate, da una parte ho fatto silenziosamente la parte del privato e globale accusatore, dall’altra mi sono trattenuto dal buttare la croce addosso a Tizio e Caio ricordando i rinvii paterni al mittente delle accuse faziose, facilone, opportunistiche e distruttive. Non rivedrò certamente un’acqua così alta a Venezia: mi auguro che ciò sia dovuto non solo alla mia ormai tarda età, ma ad un rigurgito di vitalità di tutti coloro che possono intervenire.