I pulpiti, le prediche e…le piazze

Se in tutto il mondo le formazioni politiche collocabili a sinistra soffrono un consistente calo di consensi e regalano alle destre categorie di cittadini, intere zone e periferie tradizionalmente schierate a sinistra, ci saranno motivazioni non solo di ordine tattico, ma di carattere ideale e politico. Non sono quindi certamente fra coloro per i quali “tutto va ben madama la sinistra”. È inoltre una caratteristica dei partiti di sinistra esercitare una forte autocritica al limite del purismo ideologico e del masochismo tattico.

Non essere soddisfatti di un certo andazzo dei partiti progressisti costituisce per me lo sfondamento di una porta aperta. In politica nessuno ha la verità in tasca, da tutti c’è da imparare e non sopporto chi con tanta supponenza spara ricette facili e decisive. Il cammino da compiere dovrebbe essere quello di ascoltare anche e soprattutto le voci critiche, rifletterci sopra seriamente e approfonditamente per poi arrivare a decisioni significative sul piano strategico, programmatico e della conquista del consenso.

Sono però stanco di ascoltare raffiche di prediche a livello giornalistico e politologico rivolte snobisticamente alla sinistra, come se fosse rappresentata e costituita ai vertici da un’armata Brancaleone di coglioni alla ricerca di mera sussistenza. Tutti questi solerti critici sputano sentenze da dubbi pulpiti e con improvvisata vena di analisti: a loro dire mancherebbe l’identità, la spinta a rapportarsi con i ceti sociali di riferimento, la capacità di incarnare i valori nella storia contemporanea, il coraggio di coniugare la tradizione con la modernità, l’abilità di tradurre in pratica le idee fondanti, l’acutezza di capire la novità e di cavalcarne gli spunti.

Sono critiche generiche ed inconcludenti, molto spesso contraddittorie, secondo le quali la sinistra sbaglia se è radicale, sbaglia se è manovriera, sbaglia se è pragmatica, sbaglia se è ideologica. In poche parole sbaglia sempre. Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Concludeva rassegnato: Con chil bàli chi, mi an so mai…».

Ecco perché, quando ascolto tanta e poco credibile gente, che vuole insegnare a fare la sinistra alla sinistra, cambio canale, esco da internet, chiudo il giornale. Ecco perché invece sono molto interessato alle piazze “sardinere”, che non pontificano, ma gridano un desiderio di cambiamento e vorrebbero spingere la sinistra a rivedere tanti suoi schemi di comportamento. Sono credibili queste persone più o meno giovani? Certamente più dei frequentatori abituali dei salotti televisivi, perché, a differenza dei soloni catodici, sono spontanee, vere, sincere e provocatorie. Cantare “bella ciao” per i commentatori della politica è un anacronismo imperdonabile e infruttifero e loro la cantano a squarciagola. Chiedere giustizia sociale per gli osservatori della politica è pura demagogia e loro la chiedono insistentemente. Potrei proseguire, ma penso di avere chiarito il concetto. Occorre togliere il monopolio delle piazze al populismo di destra per restituirlo al popolarismo di sinistra.

Non si tratta di fare un bagno di giovanilismo, ma di cogliere le spinte popolari e di farne tesoro. Ho ripetutamente ricordato e lo rifaccio volentieri ancora una volta: durante le animate ed approfondite discussioni con alcuni carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta si constava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti. La gente preferisce comprare da chi vende facili illusioni e allora forse bisogna recuperare in magazzino la merce di qualità, quella che stupisce e affascina anche se costa cara, ma di cui vale la pena pagare il prezzo. La gente capirà? Bisogna almeno provarci seriamente.

 

 

 

Parchè il banchi, ät capì…

Torno con la mente a Roma, all’EUR, ai lavori di un lontano congresso della Democrazia Cristiana a cui ho assistito come semplice ma interessatissimo invitato. Durante l’intervento dell’allora ministro del Tesoro, Emilio Colombo, si alzò un isolato, ma forte e netto, attacco verbale all’azzimato esponente democristiano ed al suo pistolotto lungo e tecnicamente pesante: «Te lo ha scritto Carli?», gli chiesero provocatoriamente. Guido Carli era all’epoca il potente governatore della Banca d’Italia. Scaramucce, che segnavano la vivacità ma anche la profondità del dibattito. Allora come ora ci si chiedeva se l’economia dovesse essere indirizzata dal potere delle banche centrali o dalla politica governativa.

Anche oggi il tema è attualissimo ed è oggetto di vivaci discussioni a livello governativo nel momento in cui si è deciso di intervenire con soldi pubblici per salvare la Banca Popolare di Bari da un devastante fallimento. Quali e quante sono le responsabilità di Bankitalia in queste aggrovigliate vicende finanziarie: la banca centrale controlla effettivamente gli istituti di credito o dà loro una mano ad andare nel fosso?

Il compito di controllare la vita finanziaria di un ente è molto difficile ed è al limite dell’impossibile. Ciò non toglie che qualcosa di meglio si potrebbe fare. Poi viene la discussione sul salvataggio: è giusto ed opportuno intervenire con fondi pubblici a tutela dei risparmiatori? Se fossi un risparmiatore in odore di fregatura, non esiterei a rispondere con un convinto “sì”. Da semplice cittadino mi permetto di nutrire qualche dubbio: o si riesce ad intervenire nelle regole con cui funziona il sistema bancario, in poche parole, o si interviene a monte, oppure arginare a valle i torrenti in piena è impresa ardua e quasi impossibile. Si riesce tutt’al più a chiudere qualche falla in rassegnata attesa della prossima ondata di piena.

Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. Questo per dire che a volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli).

Ogni volta che succede qualche fattaccio bancario spunta l’idea di una commissione d’inchiesta: facciamola una buona volta, senza però farci troppe illusioni. Il giustizialista di turno chiede sacrosante azioni di responsabilità verso gli amministratori più o meno bancarottieri: facciamole, ben sapendo che chiudere la stalla quando i buoi sono scappati serve a poco. Il garantista a tempo pieno ipotizza carenze ed omertà nel sistema partendo dall’alto, dalla stessa Banca d’Italia, che parlerebbe sempre bene e spesso razzolerebbe male: affrontiamo pure anche questo problematico nodo, ben sapendo che non lo si potrà né sciogliere, né tagliare di netto.

L’importante sarebbe non attestarsi sui massimi sistemi o rifugiarsi nella demagogia anti-sistema. Mi accontenterei di capire bene fin dove arriva l’intervento governativo e di monitorarne gli effetti nel tempo. Qui si apre un altro discorso: è ora di ripensare all’intervento pubblico diretto nelle banche, così come nell’economia in generale? Se essere liberisti vuol dire lasciare che il mercato lavori in proprio per poi colmarne le lacune a babbo morto e quasi a fondo perduto, tanto vale essere dirigisti e ipotizzare qualche investimento pubblico diretto ben mirato e ben gestito. Sempre più difficile!!!

 

 

Lo star trek vaticano

Dai giochi a quiz televisivi, per quel poco che (s)fortunatamente di essi seguo, emerge clamorosamente l’ignoranza dei concorrenti in materia religiosa: sanno tutto sui divi del cinema e non sanno un bel niente di bibbia e vangelo. Sintomo di una disaffezione, culturale prima che esistenziale, verso i temi religiosi, di una incolta laicità che prelude alla mancanza di valori e ad uno stile di vita gretto e superficiale. Non preoccupa tanto la calante partecipazione alle pratiche religiose, ma la scarsa attenzione ai massimi sistemi della vita.

Come mai allora hanno tanto successo e fanno tanta audience e cassetta i documentari (?), le fiction, i film, le serie cinematografiche e televisive sulla figura e la vita del papa e/o dei papi? All’interno della Chiesa col papato di Wojtyla si è aperta una fase storica di forte personalizzazione accentratrice: parlare di religione cattolica vuol dire parlare del papa. Tendenza sbagliatissima e pericolosa. Sbagliatissima perché il papa non è la Chiesa e la Chiesa non è il papa: il discorso è molto più comunitariamente articolato e religiosamente complesso. Pericolosa perché si mette la fede in Dio alla mercé del carismatico fascino papale e della sua capacità di bucare il video e di trascinare i cuori e le masse.

Quando Gesù si accorgeva di essere in odore di successo popolare, si ritirava in preghiera e si sottraeva al facile consenso della folla che lo stringeva da tutte le parti. I papi sembrano invece cercare il contatto, peraltro mediatico, con le masse, sono portati alle radunate oceaniche delle quali è difficile capire cosa rimanga nell’animo dei singoli al di là dell’entusiasmo del momento. Sono passati dalla prigionia alla smania di visitare il mondo intero: la tela della realpolitik vaticana non è più tessuta solo nelle stanze della curia, ma a margine e dei viaggi papali.

Ricordo con tanta nostalgia il primo breve e semplice viaggio in treno di papa Giovanni XXIII da Roma a Loreto e sembrava già un fatto rivoluzionario e forse lo era assai più delle odierne papali circumnavigazioni del globo. Strada facendo infatti i pellegrinaggi  sono diventati viaggi intorno al mondo, acquisendo indubbia influenza etico-politica, ma perdendo progressivamente carica kerigmatica e testimonianza dirompente.

Di fronte a questa insistente ostentazione di protagonismo la cultura ufficiale non può che sbizzarrirsi a trattare il papa come un divo costantemente sfilante sul red carpet globale. Generalmente non ne esce un’immagine edificante del papato e della curia romana: prevalgono le trame, gli intrighi, le manovre, le macchinazioni, i complotti, le congiure. Ma non è questo il dato mediatico preoccupante. Ben venga infatti un bagno di realistica, implacabile e dissacrante trasparenza, ma stanca e disturba l’ormai stucchevole e fantasioso retroscenismo.  Molto negativa è la pretesa di analizzare e ridurre la presenza e la vita della Chiesa guardando dal buco della serratura del Vaticano o costruendo surreali, e talora macchiettistiche, rappresentazioni delle vicende ecclesiali.

Papa Francesco è riuscito a volgere in chiave rinnovatrice la sovraesposizione mediatica papale: coniuga la superficiale attenzione verso la sua persona con il richiamo alle scelte evangeliche più genuine e profonde. Non basta: corre comunque il rischio di meteorizzare la sua ventata di novità senza istituzionalizzare le riforme e lisciando comunitariamente solo il pelo ai cattolici catturati dal suo indubbio appeal. Egli gode di grande popolarità, di enorme attenzione a tutti i livelli: se le è conquistate con una genuina e coraggiosa scelta, anche se talora contraddittoria (urlante ad extra e balbettante ad intra), a favore dei poveri e degli oppressi. Lo stanno (lo stiamo), suo malgrado, banalizzando e trasformando in una star. È pur vero che il mondo gira in un certo modo, ma vale anche per il papa l’invito evangelico ad essere nel mondo ma non del mondo.

 

Il lettone proporzionale

Quando i maschi discutono in modo animato e divisivo, se intendono trovare un massimo comune divisore che li unisca nei limiti del possibile, si mettono a parlare di donne per raggiungere, in un contesto squallidamente machista, un punto in comune. I partiti ed i loro esponenti, quando litigano un po’ su tutto, ripiegano sull’argomento del sistema elettorale, convinti di trovare più facilmente la quadra tramite una pesatura inattaccabile e liberatoria dei loro consensi.

Non ho mai capito e condiviso l’uso del sistema elettorale come grimaldello per condizionare o rivoluzionare la politica: a nessun meccanismo di voto assegno la forza di indirizzare la politica in un senso o nell’altro. Mi fanno sorridere quanti desiderano e puntano ad un sistema che la sera delle elezioni consacri il vincitore indiscusso e consenta di avere una governabilità garantita. Non si tratta di una partita di calcio ad eliminazione diretta, dove per forza di cose uno deve vincere e l’altro deve perdere, la politica è una faccenda molto più complessa, che non finisce con i dati elettorali, ma semmai comincia proprio da quelli per innescare la ricerca di equilibri, accordi e compromessi.

Ragion per cui leggo con scetticismo dell’accordo che si starebbe profilando per il ritorno ad un sistema elettorale proporzionale, abbandonando l’attuale sistema misto, che, per la verità, in un miscuglio assurdo e concepito appositamente per creare zizzania, mette insieme tutti i difetti del maggioritario e del proporzionale. Si tratterebbe di un accordo che finirebbe con l’accontentare tutti e toglierebbe la politica dall’asfittico clima di scontro a tutti i costi, che la sta paralizzando. Mi permetto di nutrire seri dubbi.

La scelta proporzionalista metterebbe d’accordo un po’ tutti: la Lega con il suo 35% (tutto da dimostrare) sarebbe una forza politica imprescindibile senza necessità di preventive donazioni di sangue agli ipotetici alleati. Rimanendo sul fronte del centro-destra, Forza Italia non sarebbe più costretta a fornicare con la Lega, Fratelli d’Italia consacrerebbe la sua autonoma spinta nazionalista in linea con un passato che sta tornando di moda. Il Partito Democratico potrebbe andare alla ricerca del suo spazio senza stipulare matrimoni d’interesse con Renzi, Calenda e Bersani. Gli uni potrebbero illudersi di raccattare voti nel cosiddetto centro moderato (Cacciari sostiene che non esiste più e, secondo me, non ha tutti i torti), mentre Leu raschierebbe il barile di quanto rimane della sinistra identitaria e ideologica. Il M5S potrebbe riproporre i suoi vaffa senza paura di disturbare alcuno a destra e a sinistra: poi si vedrà. I piccoli partiti, bloccati da eventuali e obbligate soglie di sbarramento, chineranno il capo e dovranno confluire in qualche lista di peso a loro più o meno vicina (cosa diversa dallo sfruttare l’utilità marginale per la vittoria di uno schieramento sull’altro). I partiti maggiori non dovranno più donare il sangue e saranno in grado di fare il pieno della spettante rappresentanza parlamentare.

C’è sicuramente il rischio di una frammentazione del quadro politico, che comunque esiste già, ma almeno tutti passerebbero al setaccio delle urne. Le maggioranze si farebbero in Parlamento. Per dirla con Renzi, il proporzionale rimetterebbe in moto i processi politici, costringerebbe tutti a far funzionare il cervello, tutti dovrebbero dotarsi di nuove strategie. Dario Franceschini dice: «La cosa importante è la legge elettorale. Ormai siamo avanti, la scelta proporzionale è fatta, incardineremo il provvedimento in Parlamento entro questo mese e tutti i partiti e i protagonisti della politica dovranno immaginare nuove strategie. Con una legge elettorale di questo tipo si liberano tutti. Tana libera tutti e torniamo giovani».

A me piacciono le bionde. Io preferisco le brune. Io stravedo per la coscia lunga. Io impazzisco per i seni grandi. Io cerco la bellezza. Io mi accontento della sensualità. E va bene, ognuno si tiene i suoi gusti. Tanto sappiamo tutti dove vogliamo parare…La politica omologata al machismo. Tutti contenti in teoria, in pratica sarà ben altra cosa. Il letto-parlamento chiarirà i ruoli e i rapporti.

 

I sassi nella piccionaia dell’indifferenza

Il grande Mario Tommasini, amico carissimo ed indimenticabile, protagonista ed alfiere della vicenda solidale parmense, rappresentante laico del nostro sentimento altruistico, così si esprimeva con la spinta e la forza che lo caratterizzavano (non so sinceramente se il discorso che segue fosse letteralmente farina del suo sacco, lo era certamente il senso): «C’è un male che affligge il mondo. Un male che se ti prende ti fa morire dentro. E che se lo subisci ti fa soffrire il dolore più inaccettabile, più insopportabile. Questo male è l’indifferenza, che è sinonimo di freddezza, di disinteresse. L’insensibilità è figlia della rassegnazione, non del disamore. Non è odio, non è volere il male, è però accettare che il male ci sia. Che ci sia il dolore. Casa, lavoro, affetti, salute: questo è l’essere umano. Ogni essere umano. Se di questi elementi ne manca anche uno solo, la persona vive il disagio. L’equilibrio si fa precario. Inevitabile? No».

Ebbene, in questo periodo l’apatia e l’indifferenza la stavano facendo da padrone: niente sembrava più smuovere le coscienze appiattite sui luoghi comuni di una destra capace solo di seminare paura e odio. Anche i giovani sembravano distrattamente coinvolti in questa deriva qualunquista. Finalmente si sono accese due lampadine nel buio conformistico: a livello mondiale il rigurgito di vitalità indotto dalla protesta di Greta contro la disperata, progressiva e masochistica corsa verso la distruzione dell’ambiente; a livello italiano la mobilitazione promossa dal movimento delle sardine, vale a dire la riscossa costituzionale contro l’assuefazione ad una politica senza memoria, senza valori, senza prospettiva e senza speranza.

I giovani, pur con tutti i loro limiti esperienziali, ci stanno suonando la sveglia. Ci sarà certamente chi scuoterà il capo, alzerà le spalle o si volterà dall’altra parte. Tuttavia è in atto una bella provocazione, che riporta la politica con la “p” maiuscola al centro dell’attenzione. Era ora! La mobilitazione è spontanea e convinta, scendere in piazza riprende ad essere il metodo per mobilitarsi e combattere pacificamente a servizio dei valori più alti del vivere civile. Sto respirando una boccata di aria giovanile, ne avevo bisogno, non solo anagraficamente parlando.

La società soffre la mancanza di rappresentanza che le offrivano le cosiddette forze intermedie, i partiti, i sindacati, le organizzazioni professionali. In questa situazione di crisi di rappresentatività e partecipazione è alto il pericolo di frustrazione e di avvitamento sulla sfiducia e la storia insegna che c’è sempre chi è pronto a colmare il vuoto valoriale con proposte capziose e pericolose. Ben vengano quindi i movimenti che rompono questo nebbioso conformismo. Non so dove potranno sfociare, se rimarranno a livello di denuncia e proposta o se potranno addirittura configurare una nuova strutturazione socio-politica.

Il sasso in piccionaia è stato gettato, i piccioni hanno preso il volo, non so dove andranno, ma certo il loro comodo e statico nido è messo in seria discussione. Per ora mi basta. Mi sembrano prematuri altri discorsi, così come rifiuto lo scetticismo dei soliti gufi e la sbrigativa definizione di minestra scaldata rispetto ai fuochi fatui del M5S. Qualcosa di diverso si è mosso ed era ora. Guardavo ai personaggi della politica, del mondo sindacale, della Chiesa e invece è saltata fuori una ragazzina qualsiasi, si è mosso un gruppo di ragazzi qualsiasi: spero che serva a mobilitare e coinvolgere direttamente o indirettamente tanta gente qualsiasi. Sia ben chiaro che qualsiasi non vuol dire qualunque.

 

Lo zar Boris di Gran Bretagna

Da europeista convinto avevo sperato che il Regno Unito si ravvedesse, tornasse sui suoi passi e desse una dura lezione ai conservatori, rappresentati e guidati da quel Boris Johnson a cui non affiderei nemmeno il governo di una bocciofila, men che meno l’amministrazione del mio condominio. Invece, come scrive Alberto Simoni su “La stampa”, il Regno Unito ha votato per la Brexit e per il cavaliere più spregiudicato e geniale, rigettando il manifesto e i timori laburisti. E lo ha fatto in maniera netta e travolgente.

Se errare è umano e perseverare è diabolico, i britannici hanno scelto convintamente il diavolo e rifiutato drasticamente l’acqua santa. Ce ne dobbiamo fare una ragione. Sono crollati i muri rossi e i bastioni laburisti, i ravvedimenti operosi e ragionevoli che sembravano profilarsi sono spariti come d’incanto, il Regno Unito si è confermato il Paese che tre anni e mezzo fa votò Leave. In effetti la proposta di Johnson metteva la Brexit davanti a tutto, come se il resto dipendesse esclusivamente da questa folle scelta isolazionista e anacronistica. Gli elettori gli hanno dato ragione.

In Italia molti alzeranno le spalle e se ne fregheranno altamente, pensando che si tratti di questioni altrui. Altri saluteranno con malcelato interesse e godimento questo voto a supporto delle loro miserevoli aspirazioni nazionaliste e sovraniste. Sbagliano e se ne accorgeranno forse più presto di quanto si possa prevedere. Prima dell’Europa, piange la storia privata di un contributo democratico, piange il mondo occidentale dilaniato dagli egoismi, piange la politica ridotta a scelte radicalmente pressapochiste, piangono i parlamenti relegati nelle cantine della democrazia rappresentativa.

Speravo che avesse ragione Indro Montanelli quando introduceva nel giudizio politico il criterio del “guardatelo in faccia!”: non ha funzionato con Boris Johnson. Forse ormai la gente non è alla ricerca di qualcuno che sappia incarnare o tenti almeno di incarnare le virtù, ma di qualcuno che sappia coltivare i vizi privati, illudendosi che possano diventare pubbliche virtù. Nel triste attuale pantheon di questi paradossali personaggi della storia dei nostri giorni entra prepotentemente anche Boris Johnson, che si colloca vicino ai Trump, ai Putin, agli Erdogan, ai Bolsonaro, ai Duterte e compagnia brutta.

Saprà l’Europa darsi una scossa, reagire, rinserrare le fila, proseguire il cammino di integrazione, ergersi come oasi democratica nel deserto mondiale? La speranza è obbligatoria, anche se i segnali piuttosto equivoci e preoccupanti sono tanti. Manco a farlo apposta all’indegna gazzarra antieuropea, scatenata nel parlamento italiano con la pretestuosa battaglia contro il “fondo salvastati”, ha fatto riscontro la pazza performance antieuropea dell’elettorato britannico.

Le reazioni sono ben sintetizzate dal giornalista citato all’inizio: Trump ha twittato congratulandosi per la vittoria dell’amico Boris (come volevasi dimostrare); la sterlina già ai primi exit poll è schizzata rispetto al dollaro a livelli che non si vedevano da tempo (la finanza se ne frega della politica); a Bruxelles, ormai rassegnati all’addio britannico, tirano un sospiro di sollievo per la ritrovata chiarezza politica a Londra (la realpolitik vince sempre). La politica italiana al momento tace e forse una sua consistente parte, sotto sotto, è soddisfatta. Chi si contenta gode. Tutti cercano di vedere il bicchiere mezzo pieno delle loro convenienze particolari. Io vedo il bicchiere vuoto degli interessi generali.

 

Il vuoto delle coscienze

L’anarchico Pinelli precipita da una finestra della questura di Milano: un fatto che continua ad essere inquietante e che simboleggia il mistero che tuttora avvolge la strage di piazza Fontana, avvenuta cinquant’anni fa. Innanzitutto smettiamola una buona volta di chiamare Pinelli come anarchico tout court. Se il sottoscritto fosse chiamato il democristiano di sinistra Mora, pur senza rinnegare niente del mio passato politico, risponderei di considerarmi innanzitutto, laicamente parlando, un cittadino democratico. Pinelli era un cittadino, un lavoratore, impegnato politicamente, un contestatore, una persona che testimoniava la sua contrarietà verso i meccanismi ingiusti e oppressivi del sistema.

Criminalizzare gli anarchici in quanto tali è un crimine perpetrato dagli investigatori nei giorni successivi alla tragica esplosione della bomba alla sede della Banca dell’Agricoltura: si cercò sbrigativamente un colpevole a tutti i costi. Considerando la totale estraneità al fatto di Giuseppe Pinelli, appurata senza alcuna ombra di dubbio, i casi sono due: o Pinelli si buttò dalla finestra vistosi disperatamente vittima innocente e irreversibile di un complotto e fatto oggetto in tal senso di pressioni psicologiche inumane oppure lo buttarono volendo far credere ad un suicidio con tanto di ammissione di colpa. Una ipotesi è zuppa, l’altra è pan bagnato. Alla fatalità non credo: nessuno cade dalle finestre; o si butta giù o glielo buttano.

Qualcuno alla questura di Milano si è reso responsabile di qualcosa che nessuno mai è riuscito a provare, ma che lascia intravedere un omicidio o un’induzione al suicidio per motivi politici. La pista anarchica, che proseguì con l’incarcerazione e l’incriminazione di Pietro Valpreda, pure lui risultato estraneo ai fatti, venne testardamente battuta per gettare la colpa dell’attentato addosso a un non meglio precisato mondo dell’antagonismo di sinistra. Quel mondo che purtroppo, per lo meno in parte, raccolse ideologicamente la provocazione, criminalizzando la polizia e i suoi superiori ed arrivando, forse involontariamente, a creare un clima di odio e di violenza, che ha magari spinto indirettamente i soggetti più fanaticamente labili alla spietata e generica vendetta.

La verità storica, che va oltre quella giudiziaria, è ormai abbastanza chiara: l’attentato fu pensato ed eseguito da uomini della destra eversiva, fu coperto da uomini appartenenti a pezzi deviati delle pubbliche istituzioni, fu ideato allo scopo di creare un clima di confusione e di sbandamento generale, dandone la colpa alla sinistra, su cui basare le premesse per una svolta autoritaria nel Paese. È un rischio che le democrazie corrono soprattutto se non hanno gli anticorpi necessari alla difesa.

Ma voglio tornare per un attimo sulla morte di Giuseppe Pinelli. Chi ha sulla coscienza questo fatto? Se l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, divenuto il capro espiatorio della faziosa, rissosa e pazzesca purga pseudo-rivoluzionaria, ha trovato i colpevoli, a livello di esecuzione, per loro spontanea confessione, la morte di Pinelli resta avvolta nel mistero (?). Sicuramente qualche esecutore avrà vissuto e sarà morto con la coscienza sporca, divorato dai rimorsi, mentre i mandanti della strage e della morte di Pinelli sono, restano e resteranno senza coscienza, senza coscienza democratica, laddove la democrazia è da considerare il contenitore ideale dei migliori valori dell’uomo e del cittadino. Nel vuoto delle coscienze non si riesce ad entrare, non si può nemmeno fare pulizia dove non c’è nulla. La democrazia se si vuole difendere e crescere deve riempire questi vuoti.

Il moralistico duello delle ville

C’è indubbiamente nei fatti un accanimento giudiziario e giornalistico nei confronti di Matteo Renzi. Non si è certamente comportato in questi anni da angioletto della politica (e chi è un angioletto?), ma gli strali contro di lui mi paiono eccessivi e spesso ai limiti della correttezza a livello mediatico.

Prescindo da ogni giudizio politico anche perché sono rimasto piuttosto deluso dalla sua parabola: il suo apprezzabile attivismo governativo purtroppo copriva una carenza politica di fondo, che si è poi evidenziata e si sta tuttora evidenziando in modo clamoroso. Ho guardato con un certo interesse al suo governo, non ho capito perché gli italiani lo abbiano così sbrigativamente bocciato al referendum costituzionale, non ho compreso le sue scomposte mosse successive e soprattutto non ho affatto condiviso la scissione procurata nel PD con la costituzione del suo nuovo partito (Italia Viva) e prima ancora non ho intuito dove voglia andare a parare al di là del ritornello sul recupero del voto moderato in cerca d’autore.

Di qui a farlo oggetto di continui attacchi la distanza è piuttosto lunga. Mi sembra forzata e maliziosa la ricostruzione sulla vicenda finanziaria della sua villa: vedere un collegamento fra la nomina a consigliere della Cassa depositi e prestiti di un suo adepto e il successivo ottenimento di un parziale prestito ponte da questo amico di famiglia per l’acquisto di una villa mi sembra il voler vedere conflitti di interesse dappertutto. Non è solo questione di privacy, è moralismo bello e buono.

Si dice che i giornali devono fare il loro mestiere: non si facciano però prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi ed ancor meno dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione. Di cose scorrette ce ne sono già tante, è perfettamente inutile inventarne.

Oltre tutto si finisce con l’innescare un’assurda catena di moralistici duelli da cui si rischia di uscire tutti sporchi e malconci. Non è infatti condivisibile la stizzita reazione all’interessamento alla villa di Renzi con il tirare in ballo la villa del giornalista colpevole di lesa maestà. Della serie “chi di villa ferisce, di villa perisce”. Se andiamo su questa strada, non ne usciamo più.

Certamente chi è rivestito di incarichi pubblici, come recita la Costituzione, deve adempiere alle sue funzioni con disciplina ed onore e preoccuparsi di evitare alla radice ogni e qualsiasi dubbio nel suo comportamento. Nessuno è obbligato ad assumere cariche pubbliche e chi lo fa deve sapere di avere giustamente addosso gli occhi della pubblica opinione e di chi la alimenta.

Però anche chi fa opinione deve rispondere a una deontologia professionale e alla sua coscienza: i bavagli non devono esistere, ma occorre maggiora cautela e prudenza nel tranciare giudizi di carattere etico e nello squalificare con leggerezza chi è impegnato a vario titolo nelle istituzioni.

Discorso ancor più delicato e difficile è quello riguardante l’azione della magistratura: lasciamola lavorare in santa pace, anche se a volte può venire il dubbio di qualche sbavatura e di qualche esagerazione. Il corso della giustizia non dovrebbe comunque funzionare da detonatore per le bombe scandalistiche. Tutti sappiano che si fa presto a rovinare la reputazione di un individuo: è molto più difficile rimetterla a posto.

 

La (s)quadratura della prescrizione

Tutto è politica, ma non tutto può rientrare nella bagarre partitica. Uno dei motivi su cui le forze, che sostengono o dovrebbero sostenere l’attuale governo, per la verità succedeva anche per quello precedente, stanno litigando è la riforma legislativa dell’istituto della prescrizione. La cosiddetta prescrizione della pena si basa sull’idea che sia incongruo far eseguire una pena nel caso in cui dalla pronuncia del provvedimento di condanna (o dalla sottrazione volontaria del reo all’esecuzione della pena) sia decorso un dato periodo di tempo. Questo periodo di tempo lo si vorrebbe allungare per evitare di premiare, con i tempi biblici della giustizia, i furbi che tergiversando finiscono col farla franca.

Non entro nei meccanismi giuridici e nemmeno nel merito dei principi: troppo difficile per me. Lo stanno già facendo, con poca o tanta cognizione di causa fior di esperti e di commentatori. Voglio solo soffermarmi su una questione pregiudiziale. Non credo che un simile argomento possa formare oggetto di un programma di governo e di una trattativa a tale livello. Sono in gioco questioni troppo elevate e troppo delicate per farne oggetto di diatriba partitica. Occorrerebbe l’umiltà di discutere, prescindendo dalle scelte di schieramento, uscendo dalla fasulla contrapposizione fra garantismo e giustizialismo che da tempo imprigiona la legislazione, la giurisprudenza e la dottrina.

L’esigenza di salvaguardare il diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo deve essere coniugata con la necessità di assicurare alla giustizia chi si rende responsabile di reati penali: il compromesso deve essere trovato mediando fra questi sacrosanti principi, non con patti partitici del do ut des, non cercando medaglie elettorali nella lotta alla corruzione e alla delinquenza.

Esistono questioni che vanno stralciate dalla lotta politica ed affrontate con una visuale di livello superiore. Credo che le regole sulla prescrizione rientrino appunto in questa categoria. Il governo dovrebbe rimettere il problema al Parlamento e il Parlamento dovrebbe affrontarlo al di fuori degli schemi di partito, non abdicando al proprio ruolo, ma ascoltando il parere di esperti per poi decidere a ragion veduta e non sulla spinta contingente e faziosa. Ci si provi almeno, abbassando i toni della discussione ed approfondendo cause ed effetti della materia.

Invece purtroppo stiamo assistendo ad una battaglia squisitamente politica fra i partiti e squisitamente ideologica fra le diverse correnti di pensiero. Forse chiedo troppo alla bassa politica, vale a dire di fare un passo indietro e all’alta politica, vale a dire di usare il fioretto di tipo costituzionale e non la clava di carattere polemico. C’è un clima tale per cui alle argomentazioni prospettate da una parte si collega immediatamente un interesse di partito, se non addirittura personale. Alla fine in qualche modo troveranno la quadra. In qualche modo!

La cagata pazzesca degli italiani

Mia sorella non era una sociologa e tanto meno presidente o segretaria generale del Censis, il prestigioso ed autorevole istituto italiano di ricerca socio-economica, ma ha sempre sostenuto quanto emerge dal recente rapporto del suddetto istituto, vale a dire che gli italiani sono affascinati dall’ «uomo forte». Lei lo diceva con la sua solita schiettezza e in modo un po’ meno aulico ed elegante: «Gli italiani sono rimasti fascisti».

Se posso fare una premessa, aggiungendo la mia brutale opinione, devo ammettere che nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti e studiosi: psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Chiudo questa breve e provocatoria parentesi per tornare al rapporto sulla situazione sociale del Paese. Il Censis, come sintetizza “La stampa”, racconta chi siamo diventati, fa la radiografia assai amara di un’Italia che soffre di «sindrome da stress postraumatico», quasi stesse emergendo da una guerra, piena di sospetti (il 75% non si fida degli altri) e che, crollata definitivamente la fiducia nei partiti (76%), guarda con speranza messianica all’avvento dell’uomo forte al potere che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni. Ad attenderne l’arrivo è il 48% degli italiani, percentuale che sale al 56% tra chi ha un reddito basso, al 62% tra i meno istruiti e al 67% tra gli operai. In uno scenario «affollato da non decisioni», con «troppe riforme strutturali annunciate ma mai avviate», la politica «ha fallito», lasciando così spazio a pulsioni antidemocratiche. Abbandonati a se stessi, i cittadini guardano con incertezza al futuro: sono convinti che l’«ascensore sociale» che un tempo permetteva di migliorare la propria condizione sia definitivamente rotto (69%), e hanno paura, al punto che anche il 64% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme di scivolare verso il basso. Il futuro è un rebus: il 38,2% è convinto che figli e nipoti staranno peggio di loro.

Non è una situazione edificante, ma ci voleva poco a capirla. Tutti si preoccupano o fanno finta di preoccuparsi dell’inquietante discorso consistente nel diffuso desiderio dell’uomo forte e vanno alla ricerca dei motivi che spingerebbero gli italiani su questa assurda strada. Certo, esistono difficoltà, ansie, incertezze, disillusioni, drammi umani, sfiducia, paure: non mi sembrano tuttavia ragioni plausibili per rifugiarsi in una deriva anti-democratica.

Mi piace molto di più la spietata e recente analisi di Gino Strada, che prendeva spunto dalla paradossale vicenda dei respingimenti degli immigrati: “Quando si è governati da una banda dove la metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni non c’è una grande prospettiva per il Paese”.

Il problema quindi sta nel capire se sono gli italiani a desiderare l’uomo forte al potere senza parlamento ed elezioni o se siano gli eletti in parlamento a dare così brutta prova di sé da spingere gli italiani a prescindere dalla politica ed inseguire il miraggio di una scorciatoia populista ed autoritaria. Sono i cittadini ad avere il governo che meritano o sono i governanti a portare i cittadini su strade sbagliate?

«Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!», così diceva don Andrea Gallo. Aveva mille ragioni! Infatti la scelta democratica è pregiudiziale, è una questione di “fede”, un ideale imprescindibile, per il quale tanta gente in tutto il mondo si è fatta e si fa ammazzare. Non v’è Censis che tenga: l’uomo forte al comando è una cagata pazzesca!

Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy in un suo storico discorso consigliò: “Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese”. L’attuale presidente Trump in un suo celebre aforisma confessa. “L’esperienza mi ha insegnato alcune cose. Una è quella di ascoltare la propria pancia, non importa come suoni bene sulla carta. La seconda è che si sta generalmente meglio attaccati a ciò che si conosce. E la terza è che a volte i migliori investimenti sono quelli che non si fanno”. L’aria è cambiata, mi fa piacere che se ne sia accorto anche il Censis.