Parma capitale de ché? Delle belle donne!

Mia sorella diceva di me, giustamente, che non è tutto oro quel che luccica: intendeva criticamente vedere i pochi pregi e i molti difetti della mia persona. Il discorso vale anche per Parma: speriamo che questo anno, vissuto da capitale della cultura, ne esalti i pregi, ma non ne nasconda ipocritamente i difetti ai quali bisognerebbe ovviare in prospettiva.

Non smetto mai il mio abito critico ed autocritico, anche se mi è costato e mi costa isolamento ed emarginazione. Sono fatto così e non pretendo di cambiare a settant’anni. Il mio rammarico è di non poter comunicare come vorrei il mio excursus critico verso Parma, la sua cultura, la sua storia, la sua politica. Mi piacerebbe tanto poter fare una sorta di controcanto delle celebrazioni varie che ci apprestiamo a vivere. Vedremo… L’importante è che non ci facciamo incantare e incartare dai rigurgiti del presunto fascino della ex o attuale capitale. Sono perfettamente consapevole di muovermi in controtendenza.

L’inaugurazione di questa sorta di anno sabbatico avverrà al teatro Regio con l’apertura della stagione lirica. Non poteva avvenire diversamente. Da anni non metto piede nel nostro teatro: ne ho fatto a suo tempo una notevole indigestione. Ho avuto modo di frequentare il teatro Regio da appassionato, fin da bambino, poi da “addetto ai lavori”. Vado agli anni settanta e ottanta. Allora il teatro era gestito direttamente dall’assessorato comunale tramite i suoi funzionari e con la collaborazione artistica di una commissione che lavorava a titolo gratuito. Bei tempi erano quelli: si spendeva molto, molto meno; si allestivano spettacoli di notevole livello; si coinvolgevano le risorse locali (conservatorio, artisti, scenografi, etc); si dava spazio ai giovani (audizioni e selezioni); si sognava (forse troppo) un festival Verdi in collegamento con la Scala di Milano e l’Arena di Verona; si difendeva (forse troppo) il ruolo e la tradizione di Parma dall’invadenza bolognese; si discuteva e si soffriva per un teatro ed il suo pubblico.

Il teatro Regio è sempre stato lo specchio impietoso delle virtù e dei vizi di Parma: la passione musicale unica al mondo per quantità e qualità abbinata all’illusione di essere l’ombelico del mondo in materia di opera lirica. Fin qui ci poteva anche stare, ma il tempo perso a guardarsi l’ombelico è servito solo ad imbalsamare la città costringendola allo sguardo rivolto all’ indietro alla ricerca dei fasti perduti.

Non ho ancora capito se l’ambaradan di Parma capitale della cultura sarà finalmente l’occasione per guardare avanti o se sarà l’ennesima occasione sprecata nella rianimazione del cadavere eccellente. Staremo a vedere. Vigilerò, anche se la mia vigilanza, da rompicoglioni patentato, farà sì e no il solletico. A volte anche il solletico dà fastidio dal momento che può innescare attacchi di riso. Magari cercherò, strada facendo, di rispolverare i miei scritti più critici e dissacranti. Se ne avrò voglia, perché in mezzo ai peana del “ma come siamo bravi” non c’è posto per un pierino qualsiasi che abbia l’ardire di alzare la manina per dire sommessamente: sì, ma forse non è tutto oro quel che luccica… “Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Parma che s’è dritta da la cintola in su tutta la vedrai»”.

Io preferirei vederla anche dalla cintola in giù per cantare da sporcaccione evviva Parma, città delle belle donne (su questo non ho niente da eccepire, anzi…) e quindi gridare…buon anno da capitale della cultura.

 

Giuseppi, se ci sei, batti un colpo

La rubrica televisiva “cartabianca”, oltre lo spettacolo delle belle gambe esibite con una certa classe dalla petulante conduttrice, dovrebbe offrire spunti di riflessione ed approfondimento a livello politico. Dipende molto dagli ospiti intervistati sui fatti emergenti. Mi è capitato di vedere la puntata in cui, sulla crisi internazionale post uccisione dell’iraniano Soleimani, due illustri commentatori quali Paolo Mieli e Massimo Cacciari si sono espressi a ruota libera riguardo allo scompiglio venutosi a creare in conseguenza del blitz americano.

Dal dibattito è emerso un dato di fatto giustamente preso di mira: la debolezza della posizione europea all’interno della quale spicca l’assordante silenzio del governo italiano. Nessun accenno critico al di là degli stucchevoli e retorici richiami alla responsabilità, alla prudenza e al dialogo. Mentre il balbettio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio rientra nella normalità di un uomo capitato per puro caso alla Farnesina, mentre la insistita e formale diplomazia del premier Luigi Conte si giustifica con la debolezza endemica di un governo improvvisato tenuto insieme con lo scotch, il silenzio del partito democratico indispettisce  per la mancanza di quel coraggio, che storicamente , pur nella dovuta deferenza verso l’alleato Usa, la politica italiana ha dimostrato nei passaggi cruciali delle crisi mediorientali.

Mentre il filosofo (Massimo Cacciari), un tempo prestato (poco) alla politica ed ora (troppo) alla critica politica, si è giustamente scatenato contro il Pd reo di non battere nemmeno un colpo distinguendosi dal generale e paralizzante imbarazzo, lo storico (Paolo Mieli), a suo agio negli studi di “passato e presente”, ma piuttosto scialbo nei vari dibattiti in cui interviene, ha  buttato la palla nella tribuna del sarcasmo, sostenendo ironicamente come Giuseppe Conte non possa dar addosso a quel Trump che gli ha offerto un prezioso assist affibbiandogli lo storico e amichevole nomignolo di “Giuseppi”.

In effetti l’attuale presidente del Consiglio è troppo appoggiato a livello internazionale e questi appoggi forse possono finire col ritorcersi contro di lui, imprigionandolo in uno splendido isolamento acritico. Però che il rimbrotto parta dal “pulpito mieliano” mi lascia francamente molto perplesso: se c’è un personaggio che brilla per opportunismo dialettico è proprio Paolo Mieli; non manca mai all’appuntamento con l’aria fritta che tira. Quindi, come si suol dire, “medico, cura te stesso”.  Il che non toglie nulla alla sacrosanta critica verso un Conte in chiara, evidente e malcelata difficoltà.

Ascoltando i commenti più intelligenti si evidenzia un’altra incongruenza. Viene richiesta un’iniziativa forte e credibile da parte dell’Unione europea per far fronte alla pericolosa situazione in cui spadroneggiano Usa, Russia, Turchia, Cina alla ricerca di equilibri bellici e post-bellici. L’assenza dell’Europa sullo scacchiere internazionale è evidente, però non bastano gli auspici. Se all’integrazione europea si crede fino a mezzogiorno, non si può pretendere che nel pomeriggio la comunità europea trovi la forza per esprimere una posizione forte ed unitaria. Se per trovare il filo della matassa libica non basta il commissario alla politica estera, non basta tutta la commissione, non basta la conferenza dei ministri degli esteri dei paesi membri, ma bisogna riunire attorno a un tavolo i rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Inghilterra a dettare una improbabile linea comune, vuol dire che siamo messi molto male e che Trump se ne potrà fare un baffo della Ue e dei paesi europei ed avrà “carta bianca” per proseguire in un’azione in cui è molto difficile intravedere una strategia complessiva in cui potersi in qualche modo inserire.

A chi sostiene come in fin dei conti sia sempre stato così e che Italia ed Europa l’abbiano sempre dovuta bere dalla botte americana rispondo con la storiella di quel padrone che manda il giovane garzone a comprare una bottiglia di vino. Lo assaggia dicendo al garzone: «Brrr…cmé l’é brusch. Par ti el ne va miga ben…». Al che il garzone risponde: «Speta un minùd. A voj fär br… ànca mi…». Non capisco i garzoni che si accontentano di guardare le bevute del padrone sperando che qualcuno possa loro regalare il buon vino. Forse in passato riuscivamo almeno a fare qualche assaggio, oggi siamo obbligati ad essere astemi di fronte alle ubriachezze moleste dei potenti.

 

 

 

 

Le modiche piraterie

Non essendo un provetto ed esperto autista cerco di essere oltre modo attento nella guida soprattutto al fine di far fronte ai comportamenti piuttosto eccentrici di pedoni e ciclisti: spesso te li trovi davanti all’improvviso, distratti e trafelati o lenti e ingombranti.

Sta assumendo i contorni di una vera e propria carneficina la sequela di incidenti stradali in cui le persone vengono falciate da auto presumibilmente condotte a velocità pericolosa e da guidatori piuttosto alticci. In certi casi esiste il fattore del dopo-discoteca, periodo di tempo in cui le persone si comportano con irresponsabile svagatezza simile a quella dei bambini che escono da scuola. È inutile nasconderlo: in discoteca si balla in modo sfrenato, si ascolta musica altisonante, si bevono alcolici e magari a volte si fa anche qualche fumatina o sniffatina e poi in piena notte oscura si esce allo sbaraglio e può succedere di tutto e infatti succede di tutto: risse, incidenti stradali, etc. etc.

Non voglio esorcizzare le discoteche (anche perché gli incidenti succedono anche su altri percorsi) come luogo di perdizione e nemmeno voglio criminalizzare l’uso di alcolici, ma quando si scherza col fuoco è fatale rimanere scottati. Ammetto che esista la componente fatalità in tutti gli incidenti stradali e non. Tuttavia un supplemento di prudenza e di attenzione non farebbe male al fine di evitare tragedie per chi muore e per chi sopravvive.

I media, come al solito, drammatizzano ulteriormente il discorso, non hanno alcun rispetto e pietà per i protagonisti di questi incidenti: le vittime vengono immediatamente e spettacolarmente santificate e i colpevoli volgarmente demonizzati. Spesso le colpe si sovrappongono e non è così facile distinguerle di fronte alla disperazione del dopo. Forse il più bel tacer non sarebbe mai scritto a sufficienza (come si vede ci casco anch’io). Una cosa è certa: se ci si aspettava il miracolo dall’inasprimento delle pene e dall’introduzione del reato di omicidio stradale, l’aspettativa è andata delusa e si è trasformata in penosa illusione.

Se mi è consentito un paragone impossibile, vorrei confrontare il comportamento degli autisti in preda ai fumi dell’alcol con quello di Donald Trump in preda ai fumi di guerra: ci sono delle somiglianze, ma anche delle profonde differenze. I primi si giustificano dicendo di aver bevuto poco (e può essere relativamente vero) e di non aver visto i pedoni mimetizzati nel buio o spuntati improvvisamente dall’angolo; il secondo sostiene di agire per legittima difesa senza cattiveria e di avere risposto alle provocazioni terroristiche.  I primi sono disperati (e ci posso credere) per i disastri più o meno colpevolmente combinati; il secondo non è affatto disperato, anzi. Dopo una giornata passata dal segretario di Stato Pompeo a rassicurare che gli Usa in ogni caso gestiranno la crisi iraniana restando nell’ambito della legalità e della responsabilità, il capo della Casa Bianca ha confermato di essere pronto a colpire i siti culturali storici della Repubblica islamica, se gli ayatollah reagiranno con la violenza all’uccisione di Soleimani. Quindi ha anche avvertito l’Iraq che verrà soffocato da sanzioni economiche mai viste prima, se davvero caccerà i soldati americani dal suo territorio, seguendo le indicazioni ricevute da Teheran. Poi ha telefonato al conduttore radiofonico conservatore Rush Limbaugh, per ripetere che l’attacco contro il capo dei pasdaran era giustificato, e sarebbe dovuto avvenire almeno quindici anni prima.

Assumere bevande alcoliche è tutta questione di misura: un ubriaco sostiene sempre di non esserlo. Bombardare un paese nemico è un fatto relativo: può essere un atto aggressivo e può essere un gesto difensivo, questione di opinioni. A questo mondo, se si vuole fare i furbi, tutto è possibile. Andiamo avanti così e poi non lamentiamoci troppo.

 

 

 

Donne: se con Salvini si piange, col papa non si può sorridere

“Anca i mat i g’an il so virtù”, così si dice a significare come anche le persone più strambe, in mezzo alle tante parole folli, ogni tanto ne imbrocchino qualcuna. Il leader della Lega Matteo Salvini, in un passaggio dell’intervista pubblicata da ‘La Stampa’, nega di aver cercato la polemica con Papa Francesco, in special modo sulla questione dei migranti. Proprio di recente il Papa ha sottolineato l’importanza e la centralità della figura femminile all’interno della società. “Perfetto, giustissimo – dice il leader della Lega – ma voglio ricordare che il rispetto della donna è incompatibile con un certo tipo di Islam: non si possono spalancare le porte agli immigrati di religione islamica e poi parlare di rispetto della donna. Il Cardinale Biffi sosteneva l’immigrazione dai Paesi più vicini e non islamici perché sono più compatibili dal punto di vista culturale e hanno una diversa considerazione delle donne”.

Il papa nell’omelia del giorno in cui la Chiesa ha celebrato Maria Madre di Dio ha fatto sentire la sua voce con un No alla violenza contro le donne. Il pontefice ha chiesto anche di dare un ruolo alle donne nei processi decisionali per la pace, perché sono “mediatrici di pace”. “Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio – ha sottolineato il Papa -, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità”. Poi ha evidenziato che “la donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna – ha detto ancora il Papa – è una conquista per l’umanità intera”. “Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica”. Lo ha detto con uno sguardo particolare a quelle donne in attesa di un bambino che cercano di emigrare. “Ci sono madri – ha proseguito Papa Francesco -, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore”.

Discorso troppo alto, completo e serio, per essere coinvolto in una polemichetta qualsiasi. Tuttavia Salvini ha messo il dito in una piaga. Volendo concedere all’attuale dottrina cristiana un giudizio obiettivo, mi sentirei di ammettere che sulla questione femminile non siamo ancora tornati a Gesù, ma ci siamo significativamente allontanati dal pensiero paolino.  Purtroppo non è così per l’Islam, che rimane saldamente ancorato ad una impostazione coranica scriteriatamente maschilista e antifemminista da cui non riesce a schiodarsi. Mentre il cristianesimo è riuscito gradualmente e parzialmente ad affrancarsi da una tradizione pesante e alienante, l’islamismo ne rimane tuttora vittima, anche perché non ha il riferimento evangelico (e non è poca cosa) a fargli da sponda.

Al di là dei miei dubbi, delle rispettabili opinioni di filosofi, sociologi, teologi, mi sembra resti aperta nell’Islam (non solo quello radicale o radicaleggiante), grande come una casa, la questione femminile che è da considerare centrale. Se i musulmani non superano questo tabù, temo che la loro fede resti compromessa da regole religiose assurde e discriminatorie. Intendiamoci bene, non è che la religione cattolica sia esente da colpe nel discorso femminile: è ancora a metà del guado e lo dimostrano i fermenti esistenti all’interno della Chiesa su questo argomento, a cui viene dato un rilevo stucchevole, perché si ferma alle soglie dei veri punti nodali (sacerdozio femminile, partecipazione della donna alle decisioni, etc.) per svicolare clamorosamente e nascondersi dietro pur apprezzabili dichiarazioni di principio.

A livello politico-sociale qualcosa è stato fatto, negli ultimi tempi in particolare: oltre alla nascita dei centri anti-violenza, dotati spesso anche di case-rifugio, in Italia sono stati istituiti corsi di formazione dei carabinieri, mentre in tutto l’Occidente è stato introdotto il reato di “femminicidio”, con il quale si tenta di passare il messaggio che uccidere una persona perché ci si ritiene proprietari del suo corpo, della sua vita, della sua libertà, è un’ aggravante giuridica, e non più una attenuante. Sono grandi passi avanti, ma purtroppo non basta una legge per salvaguardare il sesso femminile, occorre cambiare la cultura e le mentalità.

Non sarà certo Salvini a contribuire a questo processo: la sua reazione provocatoria va relativizzata in quanto proveniente da un pulpito sostanzialmente razzista, contestualizzata in una politica che semmai teorizza e pratica la difesa (?) soltanto delle nostre donne. Tuttavia, sforzandomi di vedere obiettivamente quanto di positivo può esserci anche nelle più strampalate analisi, colgo l’invito ad esigere dall’Islam un cambio radicale di mentalità verso la donna e a sollecitare alla Chiesa cattolica ulteriori passi avanti su una strada su cui, nonostante le reiterate aperture papali, essa rischia di segnare il passo. Tutti vogliono difendere, valorizzare, promuovere, il ruolo della donna, poi si constata quotidianamente che la donna, dappertutto, è trattata da essere inferiore in base ad una sub-cultura imperante. Le religioni, come del resto la politica, hanno non poche colpe. Il ping-pong serve a poco, solo a disorientare ulteriormente le donne, costrette a girare il capo da una parte all’altra fino a farsi venire un tremendo torcicollo.

 

L’apprezzabile prosopopea dalemiana

Ho ascoltato in rassegna stampa l’intervista rilasciata da Massimo D’Alema a Repubblica a commento della situazione internazionale venutasi a creare dopo la bellicosa iniziativa trumpiana che ha portato all’uccisione dell’importante esponente del regime iraniano Qassem Soleimani. Ne riporto di seguito una sintesi tratta dall’Agenzia giornalistica Italia Spa.

“Una missione dell’Unione Europea in grado di interloquire con i protagonisti per fermare l’escalation” tra Iran e Stati Uniti e “costruire una soluzione nella quale gli attori fondamentali della regione possano sentirsi garantiti”: è la proposta lanciata dall’ex premier e ministro degli Esteri. Per D’Alema è necessario più che mai “uscirne con un’iniziativa forte e unitaria per fermare la spirale” di tensioni innescata dall’uccisione del generale Qassem Soleimani.

L’ex premier, peraltro, non vede “all’orizzonte una guerra mondiale” e avverte di andare cauti “nel maneggiare certi paragoni storici” come il fatto che il mondo possa trovarsi davanti a un nuovo 1914. D’Alema più che altro vede un Trump che “vuole andare al voto a novembre in un clima di tensione, creando una situazione in cui non si può cambiare il comandante in capo” e perciò quando “le ragioni della politica interna dominano quelle della politica estera, allora la spiegazione è sempre una leadership in difficoltà!”.

Per D’Alema la vera novità sul piano diplomatico “è che la comunanza di valori di Europa e America non c’è più”. Con il risultato che “gran parte dei guai, dall’insicurezza all’aumento del prezzo del petrolio, resteranno a noi”. “Siamo di fronte a un leader che attizza il fuoco e scappa ed è l’ultima cosa che ci si aspetterebbe da un alleato”. “Clinton nei Balcani intervenne, ma per risolvere il conflitto”, ha ricordato l’ex premier, “mentre qui l’attuale presidente Usa i conflitti li lascia in eredità agli altri”.

Infine, un’annotazione su Di Maio e il suo operato come ministro degli Esteri: “Apprezzo le sue buone intenzioni anche se a volte sembra essere distratto dalle questioni di politica interna e dalle vicende del suo Movimento”, chiosa l’ex premier che ha governato anche la Farnesina.

Mi sono detto: finalmente un politico che esprime una credibile, equilibrata ma critica ed autonoma, linea di politica estera; ancor prima, finalmente un politico in mezzo a tanti baluba della politica. È un vero peccato che D’Alema, di cui riconosco peraltro limiti e difetti, sia ormai fuori dai giochi; meriterebbe di essere ancora in sella, non sfigurerebbe e non ci farebbe sfigurare. Matteo Renzi ha fatto il diavolo a quattro per rottamarlo, per poi promuovere nel suo entourage personaggi scialbi se non squallidi. I primi della classe sono certamente antipatici, però si possono sopportare quando sono veramente tali. Il brutto è quando il primo della classe si crede e sente tale senza esserlo: allora è un disastro. Nella prima categoria colloco Massimo D’Alema, nella seconda Matteo Renzi. Entrambi non sanno valorizzare gli altri, ma soltanto mortificarli e quindi non sono dei leader. Se però fossi costretto al gioco della torre, non avrei esitazione alcuna, butterei giù Renzi. Antipatici e gassati li sono entrambi, ma D’Alema ha un’intelligenza politica superiore, anche se condizionata e rovinata da un egocentrismo spropositato.

Dato a D’Alema quel che è di D’Alema, vorrei tornare solo un attimo sulla sua più ficcante dichiarazione, vale a dire che “la comunanza di valori di Europa e America non c’è più”. Si tratta di una realtà gravissima, di cui tuttavia bisogna prendere realisticamente atto ed a cui è necessario reagire. L’Europa deve trovare in se stessa le idee e la forza per svolgere il ruolo che le compete: un ulteriore impulso al processo di integrazione, senza il quale per gli Usa non saremo più dei partner, ma dei servi sciocchi.  Sissignore, dei servi sciocchi di un padrone sempre più assurdo. A meno che gli americani non si scuotano dal torpore populista e riprendano a ragionare con il cervello, nel qual caso il discorso potrà riprendere da dove era stato interrotto. Temo che non sia possibile individuare questo “dove”, tanta la confusione intervenuta nel frattempo, e sia necessario ricominciare daccapo. Ad una follia distruttiva rispondere con una follia costruttiva.

 

 

Trumpolini di guerra

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente).

Ebbene purtroppo è tornato Mussolini, per la verità ne sono arrivati parecchi, nuovi di zecca, anche in Italia, riveduti e corretti, ma il più pericoloso e potente si chiama Donald Trump. Stiamo correndo rischi enormi, ma in tutto il mondo si grida: «Aridatece er puzzone», come fecero i romani esasperati, nel giugno del 1944, invocando il ritorno di Mussolini, nonostante il fascismo e la guerra avessero lasciato solo macerie, miseria e fame. Poco importava ai romani, i quali si illudevano di ottenere pane, lavoro e la soluzione dei loro problemi. Proprio come oggi.

La scorciatoia fascista è sempre dietro l’angolo, la si imbocca senza considerare dove può portare. Gli americani (per la verità una minoranza) hanno fatto così e magari lo rifaranno, scegliendo il salto nel buio trumpiano. A distanza di parecchi decenni, dopo aver combattuto il fascismo ne sono rimasti vittime come se niente fudesse. Nella strategia di Trump il concetto fondamentale è “la guerra”: quella commerciale dei dazi, quella dei muri contro l’immigrazione, quella terroristica contro il terrorismo, quella contro l’Ue in base alla teoria degli interessi Usa prima di tutto.

Ogni suo atto ha questo macabro sottofondo bellicista, figuriamoci adesso che è nel mirino della giustizia, che rischia grosso con l’impeachment in via di esecuzione, che è impegnato a ripresentarsi alle urne con rinnovato piglio guerrafondaio. L’uccisione di Soleimani, il generale degli ayatollah iraniani di stanza in Iraq, non ha nessuna motivazione seria dal punto di vista strategico, è soltanto un colpo di teatro a livello internazionale, che costerà assai caro a tutti. Le conseguenze si profilano piuttosto inquietanti e non tarderanno a farsi vedere e sentire. Trump ha buttato benzina sul fuoco iraniano e sui rapporti incandescenti a livello mediorientale: una riconferma alla Casa Bianca val bene una terza guerra mondiale.

Non ho parole di fronte a tanta irresponsabilità da parte dell’uomo più potente del mondo. Meglio, ne ho solo una. Quella usata appena prima della Brexit dagli scozzesi.  La loro propensione verso l’Unione Europea, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’allora aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Mi associo convintamente.

 

E se facessimo un Paragone…

Mi è capitato spesso di ascoltare le dichiarazioni di Gian Luigi Paragone in concomitanza con i passaggi problematici della politica grillina: sembrava un giornalista intrufolatosi nel movimento cinque stelle, alla ricerca di scoop e di colpi di scena, sempre in atteggiamento da bastian contrario, una continua spina nel fianco di questa compagnia di (s)ventura, un infiltrato con lo scopo di creare confusione e disagio.

Il tutto veniva svolto con la levità di un inviato speciale, con la nonchalance di uno pseudo-simpatizzante, con l’ironia di un estraneo. Mi chiedevo: come fanno a sopportare un simile atteggiamento? Hanno resistito anche troppo. La corda si è strappata, Paragone è stato espulso dal M5S, se la canta e se la ride in libertà, non dà l’idea di un politico in crisi d’identità, ma di un parlamentare alla ricerca di visibilità, di uno spretato felice e sorridente.

Ha votato contro la costituzione del governo giallo-rosso, ha votato contro la manovra economica, si è dichiarato apertamente vicino alle posizioni leghiste: non poteva che finire così.  Che stupisce non è la contrapposizione all’interno di un partito, ma la farsesca diatriba all’interno di un non partito. Le scaramucce nel M5S hanno il sapore di una commedia, che sta andando fuori tempo massimo. La compagnia di giro è fuori controllo, il capo-comico latita e lascia fare, la recita impazza, il governo soffre.

Non è questione di numeri: una cura dimagrante potrebbe essere anche salutare se potesse servire a chiarire una linea politica. Si ha la sensazione invece di un’uscita alla spicciolata: tutti i fuggiaschi, alla faccia del tanto auspicato vincolo di mandato, si guardano bene dal dimettersi dalla carica e farneticano di nuovi gruppi, di nuovi partiti, che durano lo spazio di un’intervista. Ognuno va per conto suo alla ricerca di chissà cosa. Si sta profilando una fine ingloriosa di un movimento nato male, che si sta preparando a finire malissimo.

Sembra che il redde rationem decisivo sia rinviato al dopo elezioni regionali in Emilia e Calabria. Forse solo per vedere l’aria che tira e adeguarvisi opportunisticamente. Esperimento fallito nonostante la testardaggine giornalistica di Marco Travaglio, l’ultimo giapponese del M5S, simile a quel tale che, essendosi sbilanciato nel ritenere fredda la minestra, per non rimangiarsi la parola, fu costretto a ingoiarla bollente scottandosi lingua, bocca e stomaco.

In una compagnia teatrale piuttosto raffazzonata e dilettantesca, un attore, alle prese con un copione che non aveva sufficientemente studiato e imparato, si rifugiò nella ripetizione di una battuta: “questa casa va a catafascio”. Sperava che qualcuno gli venisse in aiuto per superare l’impasse. Nessuno riusciva a saltarci fuori e lui imperterrito continuava a ripetere: “questa casa va a catafascio”. A questo punto il problema non è tanto la compagnia grillina, che sembra andare a catafascio, ma l’equilibrio politico che si fonda anche sulla gamba grillina. Se vanno avanti così, tre dissidenti oggi, cinque dissidenti domani, un Fioramonti oggi, un Paragone domani, il governo Conte II, un animale che cammina con quattro zampe, dovrà fare a meno di una, dovrà cioè, come si dice in dialetto parmigiano, andär a pè sopètt.

Paragone, giornalista e conduttore televisivo prestato alla peggiore politica, annuncia il ricorso contro l’espulsione, ammettendo di essere un rompicoglioni, che però adirà le vie legali avverso i probiviri pentastellati. Alessandro Di Battista, il leader ombra del M5S, afferma che “Paragone è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali”. Vittorio Sgarbi, che di professione oltre il critico d’arte fa il soffiatore di fuoco, sta con Paragone e Di Battista, che, a suo dire, devono rifondare il movimento. Stefano Fassina, suona a sinistra una estemporanea trombetta, fa appello a Di Maio e abbraccia Paragone, in quanto il dissenso politico, motivato da ragioni serie, va affrontato con discussione e chiarimento politico, non con i probiviri.  Prima di parlare di Paragone, occorrerebbe a monte fare un Paragone con la politica seria e allora tutto si chiarirebbe. Invece ci si intestardisce a scherzare.

 

La pazienza di Francesco ha dei limiti

È simpaticamente umana l’incazzatura di papa Francesco conseguente alla strattonata di una donna ed è nobilmente e cristianamente bella la richiesta di scuse. Questo fatto innesca un ricordo evangelico: l’episodio dell’emorroissa che si fa largo tra la folla per riuscire a toccare il mantello di Gesù, che reagisce fra lo stizzito e il sorpreso chiedendo agli apostoli chi lo avesse toccato.

Una donna, che soffriva di emorragia da dodici anni e aveva consultato inutilmente molti medici, gli si avvicinò alle spalle, toccò il suo mantello e guarì all’istante. Gesù domandò chi lo avesse toccato; alcuni ironicamente ribatterono come fosse impossibile capire donde venisse il tocco in mezzo ad una simile calca, tutti negavano, ma alla sua insistenza si fece avanti una donna tremante, che dopo avere dichiarato davanti a tutti il motivo per cui l’aveva toccato, comunicò che era guarita. Gesù le disse: “la tua fede ti ha salvata, vai in pace”.

Una donna affetta da emorragia era considerata impura e per questo motivo la protagonista dell’episodio toccò Gesù cercando di non essere vista. Gesù la fece venire allo scoperto non per svergognarla, ma perché tutti ascoltassero la sua storia, in modo da lodare la sua fede e reintegrarla nella comunità. Gesù inoltre fece ciò che i medici non erano riusciti a fare. La fede è nell’episodio il mezzo per attingere da Dio la forza risanatrice e superare le forze negative che sminuiscono la vita di ciascuno.

La donna che si è attaccata al braccio di Francesco non sarà affetta da cronica emorragia, almeno si spera, e probabilmente non aveva alcun miracolo immediato da strappare, così come il papa non aveva alcuna intenzione di sottoporre la donna ad una prova di fede. È un episodio curioso anche se piuttosto normale. Francesco, come del resto anche i suoi predecessori, si sottopone ad autentici tour de force per salutare cordialmente la gente, esprimendo una carica umana notevole e assai apprezzata.

Sono gli incerti della popolarità portata all’eccesso, al limite del divismo e del fanatismo. Ho recentemente scritto e ribadisco che questa eccessiva personalizzazione della religione non è positiva: la Chiesa, la religione e ancor meno la fede non sono da identificare nella figura papale. È pur vero che nel grigiore dei personaggi pubblici, papa Francesco è l’unico a possedere ed esprimere un carisma eccezionale, l’unico a cui si può guardare con fiducia e speranza. Ma non bisogna esagerare: Gesù, quando si accorgeva di essere troppo corteggiato dalla folla, si sottraeva, scappava, si ritirava. Un po’ più di sobrietà forse non guasterebbe anche a livello papale, così come un certo autocontrollo da parte della gente non sarebbe da disprezzare. Nell’Unione Sovietica, quando volevano far fuori un leader, lo accusavano di “culto della personalità”: speriamo che i non pochi detrattori di Francesco non colgano la palla al balzo e non gli buttino addosso anche questa critica.

Al di là delle opportune scuse richieste pubblicamente ex fenestra, non dovrebbe essere difficile per papa Francesco rintracciare quella persona troppo espansiva per capirne la situazione psicologica e cristiana. Se personalizziamo tanto il discorso papale, tentiamo di personalizzare anche quello dei suoi fans. Non mi stupisco affatto dell’emozione che si può provare a contatto col papa: in giovane età feci un’esperienza analoga con papa Paolo VI, per la verità lo vidi molto più da lontano e non potei nemmeno tentare di toccarlo o di salutarlo direttamente. Ricordo tuttavia la grande e indimenticabile sensazione che riportai. Non sottovaluto quindi questi rapporti.

Sarebbe però molto meglio ascoltare quanto papa Francesco dice e ripete: costituirebbe il miglior modo per rendergli omaggio. Dai gelidi riti ai bagni di folla: vorrei chiedere al papa se, tutto sommato, si sente più a disagio in san Pietro o in mezzo alla gente; se non desideri affibbiare una manata anche al suo cerimoniere che rompe le palle certamente più di quella donna pur invadente ed esagerata che sia stata.

Quante sciocchezze riesco a scrivere partendo da un fatto banale e marginale!? Peraltro mi sembra non sia la prima volta che Francesco ha un inconveniente del genere. Ma siamo sicuri che siano fatti da passare sotto silenzio o da affrontare con l’ironia e il sarcasmo degli scatenati social? Papa Giovanni ad una ragazza paralizzata confidò: “Come vorrei dire alzati e cammina, copiando il mio più illustre predecessore Pietro…”. La religione non è fatta di regole, di comandamenti, di precetti. È fatta di rapporti fra Dio e l’uomo o la donna e fra questi e gli altri. Anche la Chiesa, meglio dire la comunità ecclesiale, è fatta di rapporti, che non devono però diventare un red carpet vaticano.

 

 

La brutta copia di Penelope

Il messaggio augurale del presidente della Repubblica, anche e soprattutto per merito dei presidenti stessi, esce dalla retorica per affondare le parole nella carne viva del Paese. Sergio Mattarella al riguardo è un maestro, perché, con la massima discrezione e senza offendere alcuno, riesce a toccare i punti dolenti, offrendo però una percorribile e positiva via di fuga.

La sintesi di questo virtuoso atteggiamento l’ho trovata nella sua sobria, ma efficacissima, citazione di un episodio: “ Due mesi fa vicino ad Alessandria, tre Vigili del Fuoco sono rimasti vittime dell’esplosione di una cascina, provocata per truffare l’assicurazione. Nel ricordare – per loro e per tutte le vittime del dovere – che il dolore dei familiari, dei colleghi, di tutto il Paese non può estinguersi, vorrei sottolineare che quell’evento sembra offrire degli italiani due diverse immagini che si confrontano: l’una nobile, l’altra che non voglio neppure definire. Ma l’Italia vera è una sola: è quella dell’altruismo e del dovere. L’altra non appartiene alla nostra storia e al sentimento profondo della nostra gente”.

Purtroppo l’altra immagine che giustamente Mattarella esorcizza non accenna a scomparire, nemmeno a diminuire, ma continua imperterrita nella sua scriteriata ascesa. A poche ore di distanza dal messaggio presidenziale, arriva una notizia: “Capodanno tragico ad Ascoli Piceno. Un ragazzo di 26 anni è morto a seguito di una caduta a Colle San Marco. Secondo una prima ricostruzione, allo scoccare della mezzanotte, dopo il lancio di alcuni fuochi d’artificio che avevano innescato un principio di incendio nella sterpaglia, il giovane ha cercato di intervenire per evitare il propagarsi delle fiamme ma è caduto, precipitando per almeno cinquanta metri in una zona impervia. Le persone che erano con lui hanno immediatamente dato l’allarme e sul posto si sono precipitati Vigili del fuoco e sanitari del 118 che, dopo averlo raggiunto con difficoltà, a lungo hanno tentato di rianimarlo, senza successo. Il ragazzo era infatti in arresto cardiaco. Intorno all’1:50 ne è stato dichiarato il decesso”.

Non so se questo ragazzo fosse coinvolto nel lancio dei fuochi d’artificio o se stesse solamente assistendo alla scena. Fatto sta che è, come al solito, scoppiata la guerra dei botti e il relativo bollettino ci comunica che c’è scappato il morto: un giovane ha cercato, con un gesto coraggioso e generoso, di riparare un danno enorme che si stava generando. Da una parte c’è chi fa irresponsabilmente e colpevolmente il danno e dall’altra chi cerca disperatamente di mettere a posto le cose. Se le due parti sono riconducibili alla stessa persona, la questione diventa ancor più paradossale e inquietante.

Qualcuno dirà che sto esagerando facendo d’ogni erba selvatica un fascio inquinante e infestante: non si può assimilare l’abuso dei botti alle truffe, alla corruzione, alle manifestazioni razziste, all’odio sociale. Sono d’accordo, ma la mala pianta dell’irresponsabilità va estirpata, altrimenti “si propaga e si raddoppia e produce un’esplosione, come un colpo di cannone…” (la calunnia dal Barbiere di Siviglia di Rossini).

Bene ha fatto il presidente a portare degli esempi concreti, altrimenti le sue parole rischiano di essere sommerse da unanimi e opportunistici applausi e nella conseguente notte pseudo-buonista tutti i gatti diventano bigi. Il suo discorso ha ricevuto un’immediata e inopinata conferma: l’Italia-Penelope, che fa e disfa continuamente. O riusciamo a far prevalere, in tutti i campi e a tutti i livelli, l’Italia nobile o sprofondiamo nell’Italia ignobile. C’è chi si fa il mazzo per accogliere, aiutare, integrare e c’è chi irride a questi sforzi e deride chi soffre. Non è una visione manichea e caricaturale della realtà nazionale, è la nitida immagine di un Paese che ha urgenza di fiducia, coesione, senso civico e cultura del dialogo. Mattarella sta facendo egregiamente la sua parte, a noi toccherebbe darci una mossa nel solco da lui tracciato.

Si vis pacem, para pacem

Giornata mondiale della pace. Le giornate internazionali e nazionali suscitano sempre in me molte perplessità: un modo elegante per mettere a posto la coscienza. Passata la festa, gabbato lo santo. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.

Tutti siamo d’accordo sulla pace salvo fare la guerra in famiglia, nel condominio, coi parenti, nell’ambiente di lavoro. Non riusciamo nemmeno ad essere in pace con noi stessi, figurarsi se possiamo predicare bene dopo aver razzolato così male. Meglio smetterla con l’ipocrisia e pregarci su.

Preferisco quindi trattare il tema della pace, riportando il testo di una bella preghiera a corredo della “Luce della Lampada della Pace dalla grotta della natività di Betlemme”. La propongo quale impegnativa adesione alla vera pace: “Pace! La Pace verrà e fiorirà dalle nostre mani se avrà trovato posto già dentro di noi. E verrà presto, domani, se sapremo fare nostre le necessità di chi vive o passa accanto a noi, se sapremo far nostro il grido degli innocenti, se sapremo far nostra l’angoscia degli oppressi. La pace verrà se avremo posto nella nostra casa per chi non ha un tetto o non ha patria. Se avremo posto nel cuore per chi non ha affetto o muore solo. Se avremo tempo nel nostro giorno per un disperato da ascoltare. La pace verrà se non cederemo alla provocazione, se sapremo sanare ogni divisione, se saremo uniti con tutti. La pace verrà e sarà il frutto più vero dell’unità, dell’armonia tra i popoli”.

Mi accorgo però di essere stato un po’ troppo religiosamente buonista e allora corro ai ripari e riprendo il pensiero di Emmanuel Mounier, filosofo cattolico, così sintetizzato da Emilia Bea: «La borghesia si è appropriata del cristianesimo convertendolo in una “religione utilitaristica”, in cui la fede, la speranza e la carità cedono il passo al gusto della sicurezza, dell’economia, della bella vita e dell’immobilismo sociale. Le virtù cristiane si degradano fino a convertirsi in una caricatura di loro stesse: l’allegria creativa si perverte in felicità conformista, la pace in semplice tranquillità e la pienezza in mera soddisfazione».

Poi abbiamo la discussione sulla differenza tra pace e pacifismo. La vera pace, si dice, non è debolezza, non è acquiescenza verso le prepotenze, mentre il pacifismo sarebbe un’astratta ed unilaterale rinuncia all’uso della forza per puntare tutto sulla rimozione preventiva delle vere cause che alimentano la violenza. Non riesco a capire se sono un uomo di pace o un pacifista. Una cosa so per certo, che sono d’accordo con mio padre e chiedo scusa se lo cito ancora. Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guéri?”.

Nel suo piccolo non era distante da quanto solennemente affermò Paolo VI il 04 ottobre 19165 davanti all’assemblea dell’Onu: “E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!”.