I 5+5 di Angela Merkel

Negli anni cinquanta del secolo scorso esisteva un celebre gruppo musicale, i 4+4 di Nora Orlandi, che faceva un ritmico accompagnamento vocale alle canzoni: erano simpatici e bravi nelle loro semplici esibizioni agli spettacoli principali di musica leggera. Non erano interpreti principali, ma costituivano un coretto fisso che dava un certo tono alle canzoni.

A distanza di tanto tempo, me ne sono ricordato in concomitanza con la probabile nascita di un ben altro coretto, i 5+5 della commissione militare libica, previsto dalla conferenza di Berlino, tenutasi per cercare faticosamente uno sbocco diplomatico alla gravissima e delicatissima situazione della Libia. Finalmente l’Europa ha battuto un colpo e, soprattutto per merito di Angela Merkel, sembra aver ottenuto qualche risultato. Non riesco ad andare oltre rispetto ad alcune considerazione (quasi) da bar sport: ho anch’io il diritto di entrare e dire la mia in questo affollato punto d’incontro del qualunquismo politico? Me lo prendo.

Quando ho sentito parlare di un accordo in cinquantacinque punti, un brivido mi è corso lungo la schiena e a stento ho trattenuto una sardonica risata. “Ci possiamo ritenere soddisfatti – è stata invece la dichiarazione di Giuseppe Conte – perché comunque abbiamo compiuto passi avanti, 55 punti condivisi, che includono il cessate il fuoco, l’embargo sull’arrivo di nuove armi ed un percorso politico-istituzionale ben definito. È stato nominato anche il comitato militare congiunto che veglierà, monitorerà che la tregua sia rispettata, abbiamo dei passi avanti significativi”.

I due litiganti libici non hanno voluto incontrarsi né sedersi congiuntamente a tavoli plurilaterali ed hanno costretto addirittura la playmaker Angela Merkel a fare separatamente la spola come portavoce nei loro confronti. Se si potesse, andrebbero mandati al diavolo, ma meglio stare calmi e trattare fino allo sfinimento.

La palla passa ora all’Onu che dovrebbe gestire questo accordo: l’importante è che chi soffia sul fuoco la smetta. Non sarà facile chiudere il becco a Putin ed Erdogan, ma soprattutto non sarà facile riportare ad un minimo di unità una realtà divisa in tante tribù l’una contro l’altra armate.

Il premier francese Macron ha fatto il divo, ha distribuito baci e abbracci, mentre avrebbe dovuto spargersi il capo di cenere in nome e per conto del suo infausto predecessore Nicolas Sarcozy, fautore di una guerra al buio contro il regime di Gheddafi, col quale peraltro sembra avesse mantenuto opachi rapporti di carattere finanziario.

Come al solito non si capisce dove voglia parare Donal Trump che si è ben guardato dal partecipare direttamente e si è limitato ad inviare il suo segretario di Stato, il quale dà l’impressione di contare come il due di coppe e di limitarsi a fare il ventriloquo del suo capo.

Il governo italiano, pur essendo fortemente coinvolto e interessato alle questioni libiche, ha giustamente tenuto un profilo piuttosto basso: dire e fare cazzate in questi frangenti non è difficile e quindi è meglio usare molta prudenza e limitarsi ad atteggiamenti disponibili a facilitare le trattative faticosamente avviate.

Purtroppo quasi tutti i protagonisti hanno la cosiddetta “pataglia sporca”, operano in base a interessi innominabili, o meglio affari che si chiamano soprattutto petrolio, ed hanno trovato nella Libia un terreno adatto alle loro esercitazioni di realpolitik. Non ho sinceramente capito cosa dovrebbe fare quel fantomatico comitato militare paritetico dei 5 + 5. Staremo a vedere e speriamo che la Libia non diventi il focolaio permanente di guerra, una sorta di sfogatoio bellico per scolmare la pentola in perenne ebollizione. Volenti o nolenti l’Europa, o per meglio dire i governi europei, potrebbe giocare un ruolo pacificatore. Lo capiranno i due contendenti? Uno appare come un leader di cartapesta, l’altro come un mini-guerrafondaio prestato alla politica: sono sul ring. Tutti gridano ipocritamente “fuori i secondi”. Angela Merkel ha avuto il coraggio di chiedere un breve rinvio del match. Sarà il suo canto del cigno? Chissà, vedremo e speriamo bene.

 

Condannare il passato per non criticare il presente

In questi giorni, girovagando su internet, mi sono imbattuto nella riproposizione delle udienze del processo Cusani per le tangenti Enimont, celebrato quale simbolica battaglia giudiziaria portata vanti dalla magistratura milanese. Per processo Enimont s’intende il principale processo giudiziario della stagione di Mani pulite, svoltosi a Milano tra il 1993 e il 2000, che vide coinvolti i maggiori esponenti politici della Prima Repubblica, accusati, insieme ad alcuni imprenditori (tra cui molti del gruppo Ferruzzi, padrona della Montedison), di aver versato e aver intascato una maxi-tangente di circa 150 miliardi di lire: soldi utilizzati per finanziare i partiti in maniera illegale (il cosiddetto finanziamento illecito). Si scoprì che buona parte di quei soldi (circa 2/3) passò per conti detenuti presso l’Istituto per le Opere di Religione, versati sotto forma di titoli di Stato.  Le tangenti vennero pagate dal finanziere Raul Gardini perché si arrivasse alla conclusione di un accordo che non andava in porto, l’affare Enimont (fusione dei due poli della chimica, l’Eni, a controllo statale, e la Montedison privata), attraverso l’intermediario Sergio Cusani, dirigente del gruppo Ferruzzi (azionista di maggioranza della Montedison).

Ho rivisto le testimonianze di Bettino Craxi e di Arnaldo Forlani, poi condannati pesantemente anche quali capri espiatori di un sistema di finanziamento illegale della politica, che era effettivamente degenerato a livelli incredibili di corruzione e che si era allargato a dismisura coinvolgendo anche, seppure in misura limitata il partito comunista, stretto politicamente nella morsa ricattatoria del Psi: si pagavano tangenti anche sui loculi cimiteriali. Giravano cifre enormi, si trattava allora di miliardi di lire erogati ai partiti, soprattutto per ottenere il loro interessamento affaristico. Era un giro vorticoso di dazioni in cui era difficile districarsi.

Sono passati decenni, sono cambiati i protagonisti della vita politica, sono mutate le leggi, abbiamo nuovi partiti e movimenti, ma, tutto sommato, sembra che il sistema sia rimasto più o meno lo stesso, con l’aggravante che ai tempi della prima tangentopoli i vantaggi andavano ai partiti, mentre oggi vanno prevalentemente a singoli personaggi politici. Alla relativa e presumibile omogeneità affaristica tra i due periodi fa riscontro un’abissale differenza di livello culturale e politico fra la classe dirigente della cosiddetta prima repubblica e quella odierna. Resta invece immutata ed esageratamente incisiva ed invasiva l’azione della magistratura, che sembrava e sembra più rivolta a squalificare la politica che a pulirne i contenuti.

Proprio in questi giorni è stata sentita in procura a Milano, sul caso Savoini, Irina Aleksandrova, la misteriosa donna, nonché nota giornalista dell’agenzia russa Itar Tass, che il 16 luglio dello scorso anno, a tre mesi dall’ormai famoso meeting al Metropol di Mosca, ha moderato la conferenza stampa dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, dopo la sua prima visita ufficiale a Mosca. E, al termine, davanti ai tanti giornalisti presenti in sala stampa, ha ringraziato il presidente dell’associazione Lombardia-Russia ed ex portavoce del leader della Lega, che ha reso possibile quell’incontro.

Una testimonianza chiave per mettere insieme alcuni dei pezzi raccolti nel corso dell’inchiesta per corruzione internazionale condotta dai pm Sergio Spadaro, Gaetano Ruta e Donata Costa per fare luce su un affare da un milione e mezzo di dollari: la compravendita di un grosso carico di petrolio russo all’Eni, che avrebbe dovuto far confluire 65 milioni di dollari nelle casse del Carroccio per finanziare la campagna elettorale alle Europee. Un’inchiesta che parte dall’audio dell’incontro del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca tra Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, l’ex bancario Francesco Vannucci e tre russi, tra cui Ilya Andreevich Yakunin e Andrey Yuryevich Kharchenko, legati all’ideologo di estrema destra Aleksandr Dugin e a Vladimir Pligin, uomo forte del presidente Vladimir Putin. Una registrazione finita nelle mani di un giornalista dell’Espresso, non si sa da chi effettuata. Nel frattempo, però, molte altre registrazioni audio sono state trovate dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria milanese sul cellulare di uno dei tre indagati, l’avvocato Meranda. Colloqui ma anche telefonate che il legale avrebbe registrato attraverso un’applicazione “spia” scaricata sul suo telefonino.

Siamo nel campo delle ipotesi di reato. L’inchiesta va avanti tra imbarazzati silenzi e sbrigative colpevolizzazioni. Oltre tutto, nel caso in cui fossero accertate responsabilità di Salvini e c., esisterebbe anche l’aggravante di affari assai poco puliti fatti con Stati non rientranti nelle nostre storiche alleanze. Mi è venuto spontaneo azzardare un collegamento fra la tangentopoli di alcuni decenni fa e quella di cui sopra, peraltro tutta da dimostrare (è doveroso ribadirlo, infatti il mio discorso è più politico che giudiziario), meno sistemica e più episodica, ma certamente molto simile. Sarebbe sempre l’Eni al centro di queste vicende equivoche, che ha funzionato in passato come pronta cassa per i partiti, fin dai gloriosi tempi di Enrico Mattei, il quale, pur nella sua grande, coraggiosa e ammirevole capacità imprenditoriale, non si faceva scrupolo di pagare spregiudicatamente i partiti come se fossero dei taxi. Sempre delicatissimi i rapporti fra economia di Stato e politica.

Mi sento di ridimensionare le responsabilità di certi personaggi politici del passato, protagonisti di una stagione complessa, che va rivista e storicamente ricollocata nella storia del nostro Paese. Forse non aveva tutti i torti Bettino Craxi nel sostenere che la politica aveva dei costi tali da essere costretta a finanziarsi illegalmente con le tangenti: «Sono sempre stato al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito. L’ho cominciato a capire quando portavo i pantaloni alla zuava […] In Italia il sistema di finanziamento ai partiti e alle attività politiche in generale contiene delle irregolarità e delle illegalità, io credo, a partire dall’inizio della storia repubblicana. Questo è un capitolo, che possiamo anche definire oscuro della storia della democrazia repubblicana, ma da decenni il sistema politico aveva una parte, non tutto, una parte del suo finanziamento, che era di natura irregolare o illegale; e non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere e non ne era consapevole solo chi girava la testa dall’altra parte. I partiti erano tenuti ad avere dei bilanci in parlamento, i bilanci erano sistematicamente dei bilanci falsi, tutti lo sapevano, ivi compreso coloro i quali avrebbero dovuto esercitare funzioni di controllo […]»

Di qui a costruire un vero e proprio modus vivendi corrotto, centrale e periferico, ci passa una bella, o meglio brutta, differenza. Tuttavia non credo fossero tutti ladri e tutti stupidi i politici di quell’epoca, così come non credo siano tutti onesti e furbi i politici di oggi. Se posso essere sincero, alla fine dei conti, rimpiango i tempi passati nonostante lo schifo di tangentopoli.

 

 

 

La seria agorà pensionistica

È difficile parlare di pensioni da pensionati. Prima di tutto perché si sperimenta che la pensione non è l’agognato paese di Bengodi a cui si aspira durante la vita lavorativa. Tutto si limita alla possibilità di coltivare quegli interessi forti che abbiamo potuto solo assaporare per mancanza di tempo: ognuno se li deve cercare e guai se non riesce a trovarli.

In secondo luogo perché ci si sente, e in un certo senso si è, privilegiati per aver conquistato un diritto, che, per questioni di tempo e di leggi in continua evoluzione, molti non hanno ancora raggiunto e addirittura non sanno se e quando riusciranno a raggiungere.

In terzo luogo perché vivere, seppur seriamente e con impegno, la fase pensionistica della propria vita è comunque un freno ad analizzare fiduciosamente e concretamente il futuro: nasce una sorta di spirito di insana ed egoistica rassegnazione, che ci distoglie dallo sguardo complessivo sulla società nel suo divenire.

Certo sarebbe meglio parlare di lavoro e della costruzione di nuovi posti di lavoro, invece siamo portati a discutere partendo dalla fine e non dall’inizio. Anche i sindacati sono condizionati dai molti pensionati loro associati e quindi sono portati a privilegiare gli interessi dei pensionati e dei pensionandi a discapito, in un certo senso, di quanti stanno faticosamente cercando di entrare nel mondo del lavoro. Tuttavia il problema è grande e su di esso si gioca la stabilità finanziaria dello Stato, la prospettiva di vita dei cittadini, la serenità del presente e del futuro.

Da una parte c’è l’allungamento della vita media delle persone che costringe a rivedere i conti di un impianto scricchiolante, dall’altra parte c’è il sacrosanto diritto di avere la certezza di uno sbocco dignitoso alla fine del proprio impegno lavorativo, dall’altra parte ancora c’è la necessità di raggiungere una certa equità tra i diversi trattamenti pensionistici a livello categoriale e generazionale. Si tratta di una partita fondamentale per il cosiddetto stato sociale, che dovrebbe accompagnare il cittadino nelle diverse fasi e nelle diverse problematiche della sua esistenza.

In Francia su questo tema, forse anche in modo strumentale e pretestuoso, sta succedendo il finimondo di proteste in piazza, inquinate dal ricorso alla violenza: per ora i manifestanti sembra che abbiano ottenuto il risultato di una pausa governativa di riflessione in ordine alla riforma del regime pensionistico con i relativi sacrifici legati soprattutto all’innalzamento dell’età pensionistica. In Italia il tema, da un decennio a questa parte, è diventato terreno di scontro politico fra un obbligato rigorismo finanziario e la oltranzistica, populistica ed illusionistica difesa dei diritti a prescindere dalla loro compatibilità economica. Dal responsabile, rispettabile e non esaustivo pianto di Elsa Fornero alla sbruffonata continua di Matteo Salvini. Facile promettere a tutti pensioni migliori o comunque il mantenimento di quelle in essere, molto più difficile trovare la quadratura del cerchio nei conti dell’Inps.

Rimanere fra color che son sospesi è però il peggio che possa succedere. Si faccia una riforma seria, che metta in priorità gli interessi dei giovani e di quanti svolgono lavori cosiddetti usuranti, che trovi un giusto equilibrio tale da  garantire a tutti un minimo di sussistenza dignitosa, che abbia il coraggio di chiedere qualche sacrificio a chi lo può e lo deve fare a vantaggio di chi sta molto peggio e di chi non vede un futuro, che inserisca dei meccanismi automatici di regolazione per adeguare il sistema alle aspettative di vita ed al costo della vita.

Se la sinistra vuole recuperare credibilità, superando fattivamente il tormentone del suo distacco dai problemi della gente, penso sia questo il terreno scomodo, ma giusto e doveroso, per impegnarsi. Non per difendere tutti e nessuno, ma per ragionare di diritti e del loro mantenimento nel tempo. Se il sindacato vuole uscire dal corporativismo e dal rivendicazionismo sterili, si faccia carico di elaborare proposte serie e complessive. Lasciamo da parte la propaganda spicciola e parliamo di problemi reali e di soluzioni stabili. Forse la gente capirà, sottolineo forse.

 

Le brusche ciliegine sulla torta salviniana

Nella mia ormai purtroppo lunga vita, durante la quale ho avuto l’ardire di interessarmi di politica, da attivista prima e da osservatore esterno poi, ne ho viste e sentite di tutti i colori e quindi faccio fatica a scandalizzarmi di fronte a certi episodi, anche se piuttosto fastidiosi o disgustosi.

Nell’inchiesta di PiazzaPulita, andata in onda su La7, è venuta a galla l’offerta che a Ferrara il vicecapogruppo del Carroccio avrebbe fatto a una consigliera leghista “ribelle”: «In parole povere tu ti togli dal c…o come giustamente, ingiustamente anzi, il vice sindaco auspicava e noi ti diamo un lavoro». È questo il contenuto dell’audio, mandato in onda da PiazzaPulita su La7, che imbarazza la Lega in quest’ultimo scampolo di campagna elettorale in Emilia Romagna. La persona che dovrebbe farsi da parte e ottenere così un lavoro è una consigliera comunale “ribelle” della Lega a Ferrara. E la persona che offre l’impiego è il vice capogruppo del partito. Sul tavolo un contratto a tempo indeterminato come hostess in una società di servizi.

Non so e non mi interessa in cosa consista il ribellismo della consigliera e non sono al corrente del perché la vogliano elegantemente giubilare. In sé e per sé non c’è niente di clamoroso, sono cose che possono capitare anche nelle migliori famiglie politiche e non solo politiche. E allora? Allora c’è un piccolo, grande particolare: se roba del genere viene da chi si presenta come il ribaltatore della politica, tutto diventa oltre modo ridicolo.

D’altra parte la Lega è stata più o meno stretta alleata di Silvio Berlusconi nei suoi inqualificabili governi… Ha le sue belle grane giudiziarie come partito… Ha cambiato strumentalmente strategia passando dal separatismo nordista al nazionalismo populista… Ha governato regioni in combutta col centro-destra ed è stata recentemente al governo nazionale con i “mangiaforzitalioti”… Fa la difesa d’ufficio dei bambini vessati a Bibbiano e non fa una piega con i bambini affogati nel mar Mediterraneo… Fa una bandiera del cattolicesimo identitario e simbolistico e teorizza il respingimento dei barconi carichi di disgraziati in cerca di salvezza… Sventolava il cappio nel periodo di tangentopoli e ora è portatrice di una politica ultragarantista in campo giudiziario… Strizza l’occhio al sud e punta a rafforzare deleghe di potere al nord… Attacca con violenza il premier Giuseppe Conte ritenendolo un usurpatore del potere popolare e fino a qualche mese fa le andava benissimo a capo di un governo che suonava come presa per i fondelli degli elettori… Giudica il governo giallorosso come una sciagura, mentre tale governo non fa altro che cercare di rimediare alle sciagure  fatte dal precedente governo gialloverde… Si mette perfettamente in linea con l’indirizzo politico trumpiano salvo flirtare (sic) con la Russia di Putin.

Il tutto avviene con una sorprendente e “bestiale” disinvoltura. L’episodietto da cui sono partito non è altro che una piccolissima ciliegina sulla torta, sulla quale tuttavia potrebbero scivolare le velleità leghiste in terra emiliano-romagnola. Ma cosa volete che sia un casinetto qualsiasi combinato in un comune romagnolo di fronte ad una candidata a governatore regionale leghista, che, come suo unico biglietto da visita, presenta la maglietta esibita in Senato con l’invito a parlare di Bibbiano ( e chissà che finalmente di Bibbiano tra forzature, strumentalizzazioni, polemiche e gravi errori non si arrivi finalmente a parlare veramente per capirci qualcosa di preciso), che si presenta a fianco di Matteo Salvini e sembra quei cagnolini di stoffa, postati davanti al lunotto posteriore degli automezzi, che fanno sempre sì con la testolina.

Anche le reazioni politiche degli avversari della Lega riguardo al suddetto episodio mi sono parse esagerate e strumentali. Soffiare sul fuoco delle polemichette da quattro soldi non fa bene a nessuno. Concentrarsi sulle ciliegine non serve per rifiutare la torta.  Se proprio si vuol fare un po’ di polemica, meglio andare al sodo come, nel mio piccolo, ho cercato di fare. Sono proprio curioso di vedere cosa voteranno i miei corregionali. “No pasaran”, ma solo il fatto di ipotizzare che possano passare è qualcosa di drammatico e assurdo. Il bello della democrazia? Non ne sono molto sicuro…

Le penne sparpagliate dai voltagabbana

Due notizie si sovrappongono in ordine alle prossime elezioni regionali in Calabria. Quattro candidati del centrodestra, consiglieri uscenti in corsa per un nuovo mandato, ed un consigliere del centro-sinistra non ricandidato sono stati condannati dalla Corte dei Conti per danno erariale e dovranno restituire oltre 500mila euro per uso improprio dei fondi destinati ai gruppi consiliari.

I diretti interessati, soprattutto quelli impegnati in campagna elettorale, hanno gridato allo scandalo, sostenendo che non si tratta di spese da essi sostenute, ma di cifre attribuite ai gruppi consiliari e di cui non si è fatto alcun utilizzo. Non ho elementi e voglia per entrare nel merito. Effettivamente la Corte dei Conti poteva anticipare o posticipare la sua decisione in modo da non farla coincidere con la campagna elettorale: sono finezze a cui la magistratura non è tenuta, ma dovrebbero rientrare nei rapporti corretti fra politica e giustizia. Si vedrà come andrà a finire: da una parte occorrerebbe più rigore e attenzione da parte dei consiglieri, dall’altra mi sembra che si stia esagerando nel passare al microscopio i rimborsi spese per i quali molto spesso è difficile verificare la correlazione con lo svolgimento del proprio mandato amministrativo.

La seconda notizia è che, sempre in Calabria, transfughi in uscita da sinistra e destra hanno trovato porte spalancate. In due casi si tratta dei condannati di cui sopra, ma il fatto non è rilevante. Rilevante invece è che alcuni politici calabresi cambino partito e schieramento politico con la disinvoltura con cui si cambia camicia. Non stupiamoci poi se i calabresi si asterranno dal voto.

I voltagabbana sono sempre esistiti. Un simpatico amico di mio padre, un anti-ipocrita per eccellenza, non sopportava la falsità e l’opportunismo. Quando alcuni comunisti del giorno dopo ostentavano questa loro scelta di campo politico e dimostravano un certo accanimento in tal senso, non si faceva pregare e li sbugiardava regolarmente sbattendo loro in faccia la scomoda verità: «Sta miga fär tant al comunista, parchè a t’ sér in-t-la milissia fascista con mi…». Spegneva così i bollenti spiriti di parecchi voltagabbana.

Siamo quindi in presenza di un male antico, che, tuttavia, non giustifica certi comportamenti spregiudicati e allegri come i cambi di casacca dell’ultima ora, tanto per rimanere a galla. Delle due notizie sopra riportate, andando magari contro corrente, giudico certamente assai più grave la seconda. Mi scandalizza di più un opportunistico cambio di partito che un eventuale utilizzo “spensierato” di fondi pubblici per coprire spese “non perfettamente rientranti” nello svolgimento del ruolo di amministratore pubblico.

Chiedo scusa se mi dilungo. Mentre il furtarello politico può essere metabolizzato anche se va punito, l’incoerenza politica crea un disastro perché è la negazione della politica stessa, distolta dai valori e legata agli interessi del momento. Il voltagabbanismo crea danni irreparabili nei rapporti fra i cittadini e la politica. Non voglio fare del moralismo spicciolo riportando al riguardo un episodio che si attaglia alla severa condanna di certi comportamenti. È più facile restituire un rimborso non ammesso che ripristinare il circuito virtuoso fra elettore ed eletto.

A una donna che si accusava di frequenti maldicenze, San Filippo Neri domandò: “Vi capita proprio spesso di sparlare così del prossimo?”. Molto spesso, Padre”, rispose la donna. “Figliola, il vostro errore è grande. È necessario che ne facciate penitenza. Ecco cosa farete: uccidete una gallina e portatemela subito, spennandola lungo la strada da casa vostra fin qui”. La donna ubbidì, e si presentò al santo con la gallina spiumata. “Ora”, le disse Filippo, “ritornate per le strade attraversate e raccogliete ad una ad una le penne della gallina…”. “Ma è impossibile, Padre”, ribatté la donna; “col vento che tira oggi non si troveranno più”. “Lo so anch’io”, concluse il santo, “ma ho voluto farvi comprendere che se non potete raccogliere le penne di una gallina sparpagliate dal vento, come potrete riparare a tutte le maldicenze gettate in mezzo alla gente, a danno del vostro prossimo?”.

 

 

La tentazione del non decidere

Sembra che il tormentone dei rapporti fra lo Stato e la concessionaria società Autostrade si stia concludendo con la revoca. Il problema è sorto all’indomani del crollo del ponte Morandi a Genova, che ha causato la morte di 43 persone, oltre a 566 sfollati e danni enormi da tutti i punti di vista. A questo catastrofico evento ne sono succeduti altri di modesta entità, ma in una concatenazione che dimostrerebbe una colposa carenza di controlli e di manutenzione sulle strutture la cui gestione viene data in concessione ai privati.

Non si è capito e forse non si capirà mai fino in fondo se le indiscutibili carenze siano la causa vera e propria del crollo e a chi facciano capo tali inadempienze: certamente qualcuno ha agito male, mentre la situazione delle strutture stradali si sta rivelando un autentico colabrodo.

Sono molti i problemi conseguenti: dalla validità delle scelte di privatizzazione alla impostazione delle concessioni, dai controlli al rispetto degli obblighi contrattuali. Al di là di tutto e senza voler scaricare tutte le colpe su un capro espiatorio, credo che, come ha dichiarato il premier Giuseppe Conte, la revoca della concessione alla società Autostrade si imponga quale misura inevitabile: una sorta di punto e a capo per impostare il futuro su basi più serie e credibili in un settore delicatissimo e importantissimo.

Il discorso della revoca comporta tuttavia una serie di conseguenze dal punto di vista giuridico ed economico. Al danno dei crolli rischia di aggiungersi la beffa dei risarcimenti per la risoluzione dei contratti: non ho capito fino a che punto la revoca sia giustificata da provati inadempimenti, emergenti dal dossier elaborato dalla commissione d’inchiesta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Da una parte l’analisi tecnica delle responsabilità non lascerebbe dubbi, ma esistono perplessità sulla ricaduta finanziaria delle penali e sulle conseguenze di un prevedibile contenzioso legale. La società Autostrade andrebbe in crisi se non in fallimento con ricadute negative anche dal punto di vista occupazionale.

Si tratta di una patata bollente nella pentola dell’attuale governo e c’è l’impressione che se la stiano passando di mano in mano in modo smaccatamente strumentale. Mentre posso intuire le perplessità sul piano giuridico, non riesco a capire le titubanze politiche. Posso convenire che suonino come demagogici i proclami epici di Luigi Di Maio quando afferma che «non si devono più fare profitti sulle nostre autostrade, mettendo a rischio la vita di molti italiani»: sono parole che dicono tutto e niente, buttate solo per cercare una contromisura populistica per i propri insuccessi governativi. Di qui a coprire tutto sollevando il solito polverone la distanza è abissale e inaccettabile.

Qualcuno sventola il rischio che gli italiani debbano pagare risarcimenti miliardari per una gestione pressapochista dei rapporti giuridici in essere: può anche essere, e allora? Mi sembra che le posizioni siano sostanzialmente due: chi vuole la revoca a prescindere e chi la vuole rigidamente collegare alle pronunce legali e giudiziarie. Non invidio la ministra delle Infrastrutture che, infatti, sembra si stia spazientendo di fronte ai tentennamenti vari, in primis quelli del suo partito. Si arrivi a decisioni serie e motivate e ognuno si assuma le proprie responsabilità.

Mi sta bene e posso capire dubbi e incertezze, ma mi fa letteralmente schifo chi, data ormai per scontata la revoca della concessione, si pone il problema dell’opportunità di uscire con la notizia prima o dopo il voto in Emilia-Romagna. Sono atteggiamenti che squalificano la politica in modo irreversibile. Non chiediamoci poi perché aumentino sfiducia e qualunquismo nei cittadini.

Alla sporca ricerca di un antipapa

Da credente ho sempre pensato che l’intervento dello Spirito Santo sulla Chiesa potesse essere razionalmente spiegato nello stile particolare con cui si discute (troppo poco) e si decide (troppo lentamente), nella capacità di andare oltre i normali schemi conflittuali mettendo le idee a servizio del bene comune.

Mi sto sbagliando di grosso, perché la contrapposizione all’interno della Chiesa sta prendendo una brutta piega a tutti i livelli. Il papa emerito (e già la definizione la dice lunga) non riesce a tacere e presta il fianco a capziose strumentalizzazioni; la gerarchia è divisa tra chi difende a denti stretti la tradizione e gli assetti di potere e chi sta cercando di scompigliare le carte introducendo metodi e contenuti innovativi col Vangelo alla mano; il clero si comporta in modo piuttosto omertoso, ma soffre anch’esso di nette divisioni pastorali, tra l’asettica e neutrale proposizione della fede e la coraggiosa e concreta intromissione nel mondo; il laicato è ancor più insensatamente diviso  tra una religiosità identitaria e simbolica e una testimonianza forte  e impegnata.

In mezzo a questa crescente bagarre papa Francesco, protagonista principale ma non isolato di un nuovo corso ecclesiale, può contare su un consenso popolare enorme più all’esterno che all’interno della Chiesa in senso stretto, ma deve fare i conti in casa con spinte a lui contrarie, che tendono ad assumere vieppiù i connotati di congiure di palazzo. Ogni tanto partono siluri ben architettati volti a calunniarlo, squalificarlo, combatterlo in nome di una pretestuosa fedeltà dottrinaria: il gioco è piuttosto scoperto, anche se si ammanta di argomenti civetta e finisce col preparare vere e proprie trappole.

Ultimo discorso in ordine di tempo: il celibato sacerdotale difeso in modo insensato, quale trincea di una sporca guerra per tenere la religione avvinghiata al potere interno (curia vaticana) ed esterno (sovranismi e nazionalismi vari ed eventuali). Per non parlare di sacerdozio femminile, di ruolo della donna nella Chiesa, di morale sessuale e matrimonio, di omosessualità e coppie omosessuali: ho la netta impressione che in realtà di questi argomenti non freghi niente a nessuno. L’obiettivo vero è quello di creare una cittadella dogmatica per difendere l’assetto di potere clericale e reazionario. Le lotte intestine sono fortissime negli Stati Uniti, ma non si scherza anche in Europa ed in Italia.

Il papa, al di là dello Spirito Santo che dovrebbe soffiare a suo favore (altrimenti non si capirebbe perché lo abbia portato al soglio pontificio), ha due possibilità. La prima è quella di lasciarsi condizionare, di scendere a patti, di compromettersi con gli avversari, di ammorbidire le sue convinzioni e annacquare le sue direttive. La seconda è quella di accelerare, di andare avanti spedito, di istituzionalizzare le novità, di fare squadra a tutti i livelli con chi ci sta, di non farsi impressionare dai tira e molla della falsa ubbidienza, di spingere sulle ruote comunitarie spezzando i bastoni curiali, di concentrarsi su alcune piste e percorrerle fino in fondo.

Il problema non è Ratzinger, che, tutto sommato, penso sia in buona fede e sia volgarmente strumentalizzato, fino a rischiare l’investitura di antipapa-marionetta. Non merita di finire così: se mantiene, come sembra, la lucidità, si renda conto e si tiri fuori radicalmente dalla vomitevole mischia in cui lo stanno trascinando. Il punto dolente è l’isolamento interno di cui soffre papa Francesco: lui deve sforzarsi di comportarsi da leader, che individua e valorizza le risorse umane a lui vicine; i suoi sostenitori, a tutti i livelli, devono rinserrare le fila ed aiutarlo in una battaglia assai dura, giocata contro di lui senza esclusione di colpi. Evidentemente papa Francesco sta toccando nella carne viva di una Chiesa sporca in tutti i sensi. Hanno paura di lui e lui non deve aver paura. Guai a cedere. Se guerra ha da essere, guerra sia in senso evangelico. Franceso deve mobilitare le sue truppe (i poveri, gli emarginati, i migranti, i divorziati, le donne, gli omosessuali sinceri, i volontari della carità, etc. etc.), anche se sarà uno scontro impari contro le truppe dei trumpiani, dei salviniani, dei tradizionalisti del cavolo, dei baciapile, etc. etc. Sono curioso di vedere da che parte starà lo Spirito Santo!

I cani e i gatti della democrazia

Dell’Emilia-Romagna forse non se ne è mai parlato tanto così a sproposito. Siamo diventati nostro malgrado la prova del nove della moltiplicazione dei voti alla Lega di Salvini e di conseguenza gli arbitri dell’attuale precario equilibrio governativo. Tutti aspettano il risultato delle urne delle prossime elezioni regionali, in particolar modo di quelle di una fondamentale regione come l’Emilia. Ci dovremmo sentire onorati di avere gli occhi addosso di tutti, in realtà stiamo facendo da cavia per arginare l’ondata sovranista e per recuperare la storia della sinistra. Ci viene buttata addosso una eccessiva responsabilità e temo che, comunque vada, resteremo e resteranno tutti delusi. Un illustre ed autorevole personaggio, di cui non ricordo il nome, sosteneva che la democrazia inizia il giorno dopo delle elezioni.

Sarà senz’altro così anche il 27 gennaio prossimo. Se dovesse disgraziatamente vincere, anche di strettissima misura, la finta candidata leghista capace solo di reggere il lume a Salvini, molto probabilmente ci incammineremmo in una ulteriore campagna elettorale nazionale e mi spaventa non tanto la prospettiva di un trionfo della destra, ma la messa in liquidazione della politica a favore di uno strisciante regime pseudo-fascista di cui si intravedono i contorni.

Se dovesse, me lo auguro con tutto il cuore, prevalere l’uscente governatore, esponente della pragmatica sinistra del buongoverno, si andrà avanti nel traccheggiamento del governo giallo-rosso al fine di evitare, giustamente anche se fino ad un certo punto, elezioni politiche che potrebbero comunque consegnare il Paese alla peggior destra possibile.

Elezioni per fare o per evitare altre elezioni: non mi sembra sinceramente una bella prova democratica. Non si vede cosa c’azzecchi l’Emilia-Romagna, non si nota cosa c’entrino i reali problemi del Paese, non si capisce come e dove evolva la politica italiana. Siamo chiamati a scegliere fra il certo e l’incerto: il certo di un modo democratico, anche se discutibile e migliorabile, di governare e l’incerto di un modo antidemocratico, anche se illusoriamente appetibile, di cambiare le carte in tavola. Da una parte c’è una criticabile fin che si vuole proposta di continuità, dall’altra parte c’è una volatile e velleitaria promessa di discontinuità. Sembra che l’esito della gara sia incerto e già questo è un fatto clamorosamente negativo: che in una regione come l’Emilia, con il passato e la tradizione politica che si ritrova, la sinistra rischi di vincere o perdere al fotofinish contro una signora nessuno che lavora per un signor qualunque, è una follia che non avrei mai più immaginato. Sono messi in discussione i fondamentali: come se in una partita di calcio non si riuscisse a capire se si gioca con le mani o con i piedi.

Siamo caduti in basso? E non è ancora finita. Ecco perché giudico pericoloso e sbagliato mordere il freno su queste strane elezioni regionali. Il mondo e l’Italia non finiscono e non cominciano il 26 gennaio. Cerchiamo di avere il senso delle proporzioni e non esageriamo il significato di un pur importante voto. Bene hanno fatto le sardine a reagire contro un andazzo che rischiava di trasferirci al di fuori dei confini democratici, ma attenzione a non accontentarsi di segnare il territorio democratico come fanno i gatti e di scongiurare il pericolo di essere sbranati dai cani. Il governo quindi fa malissimo a rinviare tutto al dopo elezioni. Quando una scadenza viene così impropriamente enfatizzata, mi viene la tentazione di snobbarla. Stavolta però non lo posso fare. Andrò a votare, non perché ci sia in ballo il futuro della democrazia, che è ormai in ballo da diverso tempo, ma perché occorre riprendere il filo della democrazia, pescando nei problemi e nei valori che la mia regione, nonostante tutto, riesce ancora a consegnarmi.  Votare per ricominciare comunque a fare politica dal giorno dopo.

 

In punta di scarpette

Il sant’Ilario 2020 passerà alla storia come la festa patronale della capitale della cultura. Ebbene, con tutto il rispetto e l’attenzione per la cultura passata, presente e futura di Parma e proprio per privilegiare la sofferta sostanza oltre la compiaciuta forma,  ho preferito tornare indietro per andare a rivedere cosa ho scritto in passato e ho trovato un pezzo risalente al 2010, che ripropongo di seguito, intitolato “Il mio sant’Ilario, vuoto di cerimonie e pieno di commozione”.

Cara Fathia,

ti scrivo nel giorno di Sant’Ilario, patrono della mia città, Parma, piuttosto vicina e, per certi versi, simile a quella dove vivevi tu, Mantova (per la verità Acquanegra in provincia di Mantova, ma cambia poco).

Oggi, come mio solito, non ho partecipato alle celebrazioni previste per questa ricorrenza perché ad esse sono quasi allergico, anche a quelle religiose, non mi interessano i premi e i loro destinatari, so già, più o meno, quanto diranno le autorità, sindaco in testa, vomitandoci addosso i loro vuoti programmi. Ti confesso di essere sempre meno attratto dalla politica nei suoi assurdi riti e nelle sue parodistiche liturgie e sempre più attento alle vicende delle persone, le donne in particolare.

Tu non lo sai Fathia, io sono uno scrittore, da strapazzo, ma i sentimenti e le emozioni mi riempiono la vita fino a rischiare di farmi soccombere. Ho vissuto questa giornata festiva pensando insistentemente a te al punto da decidermi a scriverti queste poche righe. La tua morte non mi ha solo colpito, mi ha sconvolto: ho evidenziato la notizia, ho ritagliato il foglio di giornale in cui compariva con l’intento di conservarlo. Non riesco a rimuovere questa vicenda dal mio animo ed allora mi sono seduto vicino a te ed ho cominciato questa breve lettera.

Avevi, anzi hai, 43 anni: sei una donna marocchina con una figlia di 5 anni, abiti assieme a questa bimba in una palazzina comunale e lavori facendo pulizie alle dipendenze di una cooperativa. Non stai bene, ma non puoi permetterti il lusso di curarti perché temi di perdere il posto di lavoro.

Pensa Fathia: nel nostro paese c’è l’idea che gli immigrati siano degli scansafatiche, carne usa e getta, dei soggetti violenti e stupratori, delle bestie da soma adatte ad essere sfruttate ben bene sul lavoro e poi macellate oppure rinchiuse in un serraglio oppure rimandate nei loro paesi d’origine. La tua salute è precaria al punto da essere colta da malore e crollare ai piedi del letto. Della tua morte se ne accorgeranno dopo alcune ore.

Pensa Fathia: definiamo le nostre città luoghi dove si vive bene, dove il benessere raggiunge alti livelli. Nel tuo condominio non si sono nemmeno accorti che stavi male e che sei morta, in silenzio, senza disturbare.

Pensa Fathia: ci riempiamo la bocca di stato sociale ed assistenziale e nessuno si era fatto carico di darti una mano, dal momento che vivevi separata dal tuo uomo, magari qualcuno pensava tu fossi una donna “poco seria”: che schifo di società, ipocritamente borghese, vomitevolmente moralista, profondamente razzista, sostanzialmente ingiusta. Tua figlia ti ha vegliato per diverse ore, forse non eri morta sul colpo ma nessuno ti ha soccorso, solo la tua piccola creatura ha avuto il coraggio e la discrezione di starti vicina. Ai tardivi e penosi soccorritori questa bimbetta ha sussurrato: «Dorme…». Ti confesso che leggendo questo particolare sono scoppiato a piangere.

Pensa Fathia: il nostro Ministro della Pubblica Istruzione, una giovane donna, vuole porre un limite all’inserimento a scuola, assieme agli altri, dei bambini extracomunitari, roba da farmi vergognare davanti a te ed a tua figlia, roba da…, mi fermo perché direbbero che istigo alla violenza. L’articolo di giornale cui faccio riferimento si concludeva con queste parole: “Il paese intanto si è mobilitato per sostenere la bambina, con doni, dolci e carezze, in modo che si senta meno sola”.

Pensa Fathia come siamo buoni con i bambini soli, come ti vogliamo bene, quale cuore grande abbiamo… Non proseguo perché della mia ironia non saprai che fartene. Ti voglio dire solo due cose. Innanzitutto sono sicuro che il Padre Eterno, il tuo Dio, non mi interessa di quale religione tu fossi, sarà sceso dal trono, ti sarà venuto incontro con le lacrime agli occhi, ti avrà abbracciato ed accarezzato a non finire. Tu però gli avrai chiesto: «E la mia bambina?» E Dio ti avrà risposto: «Stai tranquilla ci penso io!». In effetti solo di Lui ti puoi fidare. La scena me l’ha raccontata Sant’Ilario, giustamente più attento ai tuoi drammi che ai nostri “bagordi”, e gli credo perché era un uomo di chiesa molto serio. Ed infine permettimi di confessarti con un po’ di imbarazzo e con le lacrime agli occhi: «Mi sto innamorando di te. Hai 43 anni, io ne ho 60, c’è una certa differenza, ma… Sì, perché sei molto bella, sei veramente meravigliosa!»

Per qualche post in più

Ricordo che mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così ed è così, in forme e modi più moderni ma forse ancor più imponenti e subdoli, anche oggi.

A suo modo lo ha fatto Silvio Berlusconi, lo sta facendo la Lega di Matteo Salvini con la cosiddetta “Bestia”, la macchina social guidata dagli esperti del mondo virtuale. Per la verità anche il movimento cinque stelle non è da meno nel costruire e organizzare il consenso usando le reti. Fino a quando questi meccanismi infernali possano funzionare non è dato sapere. Prima o poi la gente apre gli occhi, ma nel frattempo cosa succede? E cosa serve per togliere le fette di prosciutto dagli occhi dei cittadini? Occorre qualcosa di traumatico (come insegna la storia) o basta inserire qualche granellino di sabbia negli ingranaggi della facile raccolta del consenso?

A margine di queste tristi considerazioni resta un profondo sconforto per l’incapacità della democrazia ad arginare simili fuorvianti fenomeni mediatici. D’altra parte non ci si può rinchiudere in una sorta di “talebanismo democratico”, ma urge saper coniugare i principi democratici con i meccanismi moderni della raccolta e della gestione del consenso. Non mi sento nemmeno di teorizzare la gufata strumentale basata sugli incidenti di percorso dei protagonisti sulla cresta dell’onda.

Mi spiego con un esempio riguardanti il salvinismo imperante.  In un video inviato in un gruppo su Whatsapp e poi diffuso sul web, Alfio Baffa, candidato della Lega al consiglio regionale della Calabria, si filma mentre è nella vasca fumando un sigaro e bevendo rum.  Il video, che imbarazza Salvini, è stato registrato in un albergo di Roma. Baffa fuma un sigaro e sorseggia rum. “Cari amici del gruppo revenge porn, volevo fare un saluto da Roma dopo la manifestazione di Salvini”, dice nel filmato invitando gli amici a fare un brindisi.

Dopo che il video ha fatto il giro della rete Baffa ha scritto un post su Facebook: «In merito al video che mi sta rendendo famoso mi chiedo: un bagno in vasca fa notizia perché i candidati delle altre liste non sono molto “puliti”? O forse è una questione di buon gusto? Perché in quel caso ci tengo a scusarmi: non si può bere del rhum in un bicchiere di plastica! Che un video mandato goliardicamente a qualche amico potesse finire sulle testate nazionali non me lo sarei mai aspettato, ma grazie a questo video avrò qualche vecchio amico in meno ma tanti nuovi amici in più che stanno esprimendo solidarietà per questo sciacallaggio».

Da un certo punto di vista non ha tutti i torti, ma chi di post ferisce di post perisce. Difficilmente Salvini di questo episodio se ne potrà fare un Baffa. Per la Bestia leghista può essere una buccia di banana? Forse sì, ma non si può giocare di rimessa fino a questo punto, aspettare l’incidente di percorso. È inevitabile che prima o poi chi si loda s’imbrodi. Bastano questi infortuni a smascherare gli inganni? A volte basta poco per mettere in crisi un successo superficiale e temporaneo, ma non ci si deve illudere.

Torno allo spaccato storico da cui sono partito. Mio padre mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Lo stesso popolano dell’Oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Anche oggi occorre coraggio, lo stesso coraggio per contrastare tatticamente e strategicamente l’avversario politico che, con mezzi più o meno sofisticati e moderni, si trasforma in uomo di regime. Bisogna cioè saper usare lo “stómbel”! Sapete cos’è? Un pungolo, un bastone appuntito per spronare i buoi. E i social non ci stanno forse relegando a popolo bue…