Neofascismo: indizi gravi, precisi e concordanti

Ogni giorno ha la sua pena: mi riferisco agli ormai quotidiani episodi di risorgente razzismo, antisemitismo, filo-nazifascismo, negazionismo e cieco revisionismo. Sono ormai sotto gli occhi di tutti e quindi è inutile richiamarli (si rischia oltre tutto di fare involontariamente una macabra pubblicità), ma è necessario invece valutarli in tutta la loro gravità.

Sono perfettamente d’accordo col professor Massimo Cacciari, che individua la causa principale e il leitmotiv di questo autentico stillicidio nell’ignoranza totale della storia recente: gente che scrive sui muri e agisce con violenza in preda ad un fanatismo completamente avulso dalla storia e quindi schiavo degli impulsi irrazionali dell’anti-storia.

Una seconda riflessione di Massimo Cacciari riguarda l’invito a sentirsi tutti in colpa per quanto avvenuto nella storia del nazifascismo, per le complicità, i silenzi omertosi, le rimozioni facili, i pressapochismi culturali, gli errori e le omissioni di ieri e di oggi. Un esame di coscienza che deve riguardare non solo la politica, ma anche il mondo della cultura, dell’istruzione, della formazione, dei rapporti con le giovani generazioni.

Aggiungo che a livello mondiale e nazionale si sta creando il brodo di coltura in cui trovano alimento questi gesti estremi frutto di un clima di individualismo, egoismo, odio che sta caratterizzando il nostro tempo: c’è chi semina vento e quindi non ci si può stupire della raccolta della zizzania.  A tale riguardo mi sembra emblematico e significativo l’episodio di un consigliere comunale leghista che si è dichiarato contrario all’intitolazione di un ponte a Sandro Pertini. Si può essere contrari a tutto, ma con motivazioni serie. Nel caso in questione invece il rifiuto è stato argomentato in modo che rivela ignoranza abbinata a cattiveria: «Elogiò Stalin, concesse la grazia al partigiano Toffanin, che uccise molte persone e lui stesso, capo partigiano, ammazzò una marea di persone considerate accusate di essere fasciste o collaborazioniste con i fascisti (una sorta di caccia alle streghe). Lo stesso Sandro Pertini che annunciò di essere “un brigatista rosso”. Ci vuole coraggio a fare una richiesta simile. Se gli verrà dedicato un ponte chiederò di dedicare una via alle stragi partigiane, o alle vittime dei partigiani e delle brigate rosse».

Vista la reazione al suo delirante post, il leghista lo ha cancellato e ne ha pubblicato uno di scuse: «Spero di mettere fine a ciò che si è sviluppato sui social in questi giorni, tra miei possibili errori, auguri di morte ed offese. Per quanto si possa rimediare visto che il sasso è lanciato. Chiedo SCUSA se qualcuno pensa io possa aver offeso la memoria di Sandro Pertini e ribadisco, probabilmente non avrei dovuto fare quel post. Chiedo SCUSA per aver sbagliato. Avevo cercato di rimediare subito, rimuovendo il post dopo 20 minuti ma era già stato fatto uno screen e quindi non ho potuto più rimediare. Quando si fa un errore l’importante è rendersene conto ed andare avanti, se ho sbagliato me ne assumo le responsabilità e fine del discorso. Tutti sbagliano nella vita, a 21 anni forse è ancora più facile sbagliare e penso anche che esistano errori molto più gravi. Comunque, non cerco giustificazioni, sono una persona seria e non sono uno scemo, per questo mi assumo le mie responsabilità».

Non bastano frettolose scuse come non basta bollare di stravagante imbecillità gli atti che scherzano coi fantasmi del passato, ma bisogna prendere sul serio l’insorgenza di certi fenomeni per combatterli fin dall’inizio e stroncarli alla radice, nella loro miseria umana, politica e culturale. Esistono indizi gravi, precisi e concordanti che denotano una risorgente e insistente opzione, soprattutto giovanile ma non solo, verso una mentalità razzista, sostanzialmente nazifascista, violenta, aggressiva. Facciamo tutti qualcosa di concreto per arginare una simile deriva.

Apprezzabile in tal senso il cartello “Juden Hier. Qui abita un ebreo, Gesù”, affisso all’esterno della parrocchia «San Giacomo» di La Loggia, nel Torinese, dal parroco, Don Ruggero Marini. Un gesto per smuovere le coscienze e far riflettere sul ritorno sempre più frequente dei gesti di antisemitismo, dopo la scritta antisemita sul muro di casa di una donna ebrea torinese. «Ne avevo affisso uno ieri – spiega il parroco -, ma poi qualcuno l’ha strappato. E così l’ho rimesso. Dobbiamo tutti fermarci e capire cosa sta succedendo e avere coscienza della gravità di certi gesti». E ha aggiunto: «Sono stato allievo a Mondovì di Lidia Rolfi, scrittrice e partigiana deportata a Ravensbruck. Mi ha insegnato l’importanza della Memoria. E in questi giorni bisogna testimoniare e fare riflettere perché il ‘non accada mai più’ sia una presa di coscienza forte e luminosa».

 

Alla ricerca dell’antivirus

“La Cina è vicina” è un’espressione slogan spesso adottata da chi vede la prossimità di un pericolo e replica il titolo di un film del 1967 diretto da Marco Bellocchio, che evocava i timori del comunismo maoista nella borghesia perbenista dell’epoca, riprendendo l’omonimo titolo del libro scritto nel 1957 da Enrico Emanuelli. Proseguo riprendendo quasi integralmente un articolo di Maura Sacher pubblicato su “egnews”.

Da quegli anni sono cambiati i condottieri al governo ma forse non gli obiettivi, infatti, ora più che mai assistiamo al fatto che la Cina è vicina, anzi è già dentro o sopra di noi, in un largo e lungimirante piano di espansione. A poco a poco ci siamo abituati a vedere nelle nostre città, e persino nei più piccoli paesi, la trasformazione o la sostituzione di fori commerciali in locali venduti a famiglie cinesi, la fioritura di ristoranti e di bar, di borsetterie, barberie e sartorie a modico prezzo, e financo pizzerie, con lanterne rosse come insegna. Come inorridire adesso se già decine di marchi industriali nostrani negli anni sono andati a far lavorare i loro manufatti ai nativi del Sol Levante, rivendendoli qui con etichetta Made in Italy, e più di qualche centinaio di aziende italiane sono state vendute ai Cinesi come migliori offerenti. “Pecunia non olet” dicevano i Romani, ovverossia a “caval donato non si guarda in bocca”, la stessa cosa: non fa differenza da dove provenga il denaro, il beneficio, il vantaggio, purché venga. L’obiettivo odierno del controllo cinese sulle rotte delle sue merci e di ogni suo interesse economico e politico è collegare la Cina all’intera Asia ed all’Europa con un ben preordinato piano di strade, ferrovie, programmi industriali quali gasdotti e oleodotti, e una possente logistica sui più strategici porti tra gli Oceani Pacifico e Indiano e del Mediterraneo. In base al progetto dell’attuale erede di quello che fu l’Impero Cinese, oggi annoverato tra gli stati antidemocratici, si dovrebbe formare una ragnatela tra l’Asia dell’Est e l’Europa passando per l’Africa. In pratica si verificherebbe un accerchiamento geopolitico e un supercontinente dominato dagli interessi cinesi. A margine, è lecito porsi la domanda: se la Cina è governata dal Partito Comunista, come mai ci sono tanti capitalisti cinesi che possono investire milioni di denari in giro per il mondo?

La risposta sta nel fatto che, seppure paradossalmente (Marx si “scaravolterà” nella tomba), l’attuale regime cinese è riuscito a coniugare il comunismo sul piano politico col capitalismo sul piano economico, operando una sintesi tra i peggiori difetti dei due sistemi. Il sogno gorbacioviano era assai diverso: far evolvere gradualmente il comunismo in senso democratico introducendo alcuni meccanismi del sistema capitalistico. Progetto fallito. In Russia sono finiti nella brace della mafia putinista, in Cina sono rimasti nella padella comunista in cui tentano di friggere con olio capitalista i più biechi interessi imperialisti.

Il coronavirus viene a scombinare le carte del progetto imperialista cinese? Me lo sono chiesto in modo piuttosto cinico, senza arrivare alla provocatoria vignetta del quotidiano danese Jjllands-Posten, che ha “ritoccato” la bandiera rossa con le immagini del virus al posto delle 5 stelle ed a cui ha reagito l’ambasciatore a Copenaghen, che si aspetta le scuse ufficiali al popolo cinese, e soprattutto rifiutando le vomitevoli reazioni razziste che si stanno verificando in giro per il mondo.

Ho colto, con relativo stupore, l’annunciato efficientismo cinese della costruzione in pochi giorni di nuovi ospedali in cui ricoverare le numerose persone colpite dalla pericolosa infezione polmonare di origine virale. Si tratta del solito e falso profilo buonista dei regimi antidemocratici: pochi giorni bastano per edificare nosocomi, molti anni non bastano per costruire un po’ di democrazia. Si nota anche la mentalità autarchica nell’approccio al combattimento di questa terribile guerra contro il coronavirus: della serie, noi siamo forti e vinceremo anche i virus.  Per tutti i regimi che (non) si rispettano vale la famosa barzelletta delle promesse politiche: vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete… E l’afta epizootica? chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. Vi daremo anche quella! rispose gagliardamente il comiziante di turno.

Se Atene piange, Sparta non ride. Se l’imperialismo cinese deve fare i conti con questa drammatica emergenza, che peraltro non potrà mancare di espandersi in tutto il mondo, l’occidente democratico (?) fa i conti coi virus recidivanti del sovranismo, del nazionalismo e del populismo. Basta vedere le quotidiane nostalgie razziste di base e le manifestazioni della prepotenza di vertice. Sembra che negli Stati Uniti siano al lavoro per trovare l’antidoto al coronavirus partito dalla Cina, speriamo trovino anche quello per combattere il virus trumpiano che sta facendo altrettanti disastri in tutto il mondo. Perché l’Emilia-Romagna, vista la prova di maturità fornita alle elezioni regionali, non si candida ad essere sede dell’Autorità per la Sicurezza Democratica? Potremmo esportare il brevetto collaudato nella battaglia contro Salvini: può darsi funzioni anche in Gran Bretagna, negli Usa e perché no, magari anche in Cina e in Russia. Emilia caput mundi! Non sto affatto scherzando.

Le convergenze parallele tra pregi e difetti

Ho ascoltato parecchi commenti all’esito elettorale emiliano-romagnolo. Alla fine mi sono presuntuosamente rifugiato nelle mie riflessioni, andando a rispolverare quanto scritto l’08 novembre dello scorso anno, quando si profilava una prova assai difficile e problematica per la sinistra. Ho deciso allora, più per onestà intellettuale che per narcisistica rivisitazione culturale, di mettere a confronto le “paure” di allora (in carattere corsivo) con i “sollievi” di oggi (in carattere normale). Ne uscirà un pistolotto più lungo del solito, ma spero di qualche interesse.

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Da funzionario, professionalmente e motivatamente impegnato nel movimento cooperativo di ispirazione cristiana, avevo l’opportunità di partecipare a convegni nazionali in cui erano presenti dirigenti cooperativi provenienti da tutte le regioni italiane. Gli emiliani, a livello espositivo e propositivo, facevano la parte del leone e talora finivano con l’infastidire i colleghi del resto d’Italia: sembrava che volessero fare i primi della classe, mentre in realtà non li volevano fare, ma li erano veramente ed erano disposti a comunicare le loro esperienze. L’Emilia-Romagna è una regione all’avanguardia non soltanto nel settore cooperativo, ma in quasi tutti i settori, in essa trovano una buona combinazione i rapporti tra un pubblico forse troppo invadente ed un privato forse troppo strutturato. Ne è uscita una situazione nel tempo sempre più lussuosamente burocratizzata e imbalsamata. Il punto di forza sta paradossalmente diventando un punto di debolezza facilmente aggredibile da chi predica liberalizzazione spinta al limite dell’anarchia.

L’aggressione si è verificata, ma ha ottenuto fortunatamente l’effetto contrario: parlare continuamente di corda in casa dell’impiccato ha infastidito l’impiccato che si è addirittura liberato dall’autocondanna e ha reagito riconquistando libertà di giudizio e di voto. Quando fu eletto segretario della DC Benigno Zaccagnini, il mio direttore editoriale di allora titolò così il suo pezzo: “Il male c’è, ma Benigno…”. Gli emiliani oggi hanno pensato: “Il male c’è, ma ce ne sono dei peggiori…”.

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Il partito democratico sta affilando le sue armi. Innanzitutto conta sull’effetto-Bonaccini, il quale dice della sua amministrazione: «In 5 anni abbiamo fatto tanto, siamo la Regione prima per crescita e la disoccupazione è scesa sotto il 5 per cento». In secondo luogo può contare sull’appoggio di una lista civica, che coinvolge 200 sindaci, alcuni dei quali di centro-destra. Poi Bonaccini avrebbe il sostegno di Confindustria e della Fiom. Inoltre avrebbe la spinta proveniente da importanti personaggi: Romano Prodi, Pierluigi Bersani, Vasco Errani, Virginio Merola. Infine la sinistra farà appello al “sentimento”, punterà sul richiamo della foresta, trasformerà l’Emilia-Romagna in una sorta di Diga, di baluardo contro l’avanzata di Salvini. Romano Prodi confida: «Il centro-sinistra ha amministrato bene e questo in tempi ordinari di solito basta. In tempi ordinari». Mi permetto di buttare una secchiata di acqua gelida sulle speranze e sugli entusiasmi della sinistra. Come ho scritto all’inizio i buoni risultati amministrativi non bastano a chiosare l’analisi socio-economica regionale: c’è quell’immagine burocratica, proveniente soprattutto dal lontano partito comunista, che rischia di rovinare la piazza. “I daviz jen cme j’insònni”, siamo d’accordo, ma l’impressione sulla società emiliana rigidamente politicizzata e bloccata è assai viva e, peraltro, non è nemmeno del tutto destituita di fondamento.

L’effetto Bonaccini ha funzionato, la lista civica pure, la Diga ha tenuto alla grande, il richiamo alla foresta della storia è tornato di moda. Ci voleva Salvini per stuzzicare l’orgoglio emiliano, che sembrava sepolto nel mare dello scetticismo, della sterile e generica protesta e dell’astensionismo.

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Il consenso a livello verticistico di sindaci, esponenti sindacali, personaggi politici non importa più di tanto: la gente non ascolta nessuno, ragiona con la propria testa e fin qui non ci sarebbe niente di male, anzi. Purtroppo però è influenzata e fuorviata dalle paure e dalle illusioni scientificamente propalate da una destra vuota e rissosa, ma efficace nella raccolta del consenso.

La gente si è data una mossa, è scesa in piazza, convocata dalle Sardine e stuzzicata da un bagno popolare come ai vecchi tempi, ha accantonato le paure ed ha rispolverato le speranze. Grazie, cari amici delle Sardine! Bene, caro Bonaccini che hai avuto l’umiltà di ricominciare dal basso.

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I sentimenti non tengono più. Personalmente non voterei a destra nemmeno se la sinistra candidasse un redivivo Adolph Hitler. Ma il sottoscritto non fa testo e i richiami alla storia ed alla tradizione influiscono pochissimo su un elettorato confuso e stralunato. Anche l’appello alla diga antifascista potrebbe rivelarsi un boomerang. E allora? Non voglio certamente fare l’uccello del malaugurio, ma la vedo molto dura per la sinistra emiliana. Personalmente scaricherei dalle elezioni regionali un po’ di significato politico nazionale. Poi punterei sulla qualità delle candidature, quella a governatore, ma anche quelle a consigliere ed assessore regionale. Non userei toni aggressivi e presuntuosi: il consenso si conquista con la pazienza delle idee e l’evidenza della realtà.  E poi farei anche un po’ di sana autocritica nel senso di aprire la politica alla gente e non solo alle forze, alle istituzioni e alle strutture intermedie.

I sentimenti hanno ripreso a funzionare. I consigli che mi ero permesso di dare sono stati sostanzialmente raccolti. Le urne, fortunatamente, hanno cantato “Bella ciao” e, una mattina, ci siamo svegliati e, anziché l’invasor, abbiamo trovato i partigiani che ci hanno portato via. Adesso possiamo migliorare la nostra democrazia e costruire anche qualcosa di nuovo e di bello. Buon lavoro!

 

Il fantoccio salviniano

Me l’aspettavo. Avevo in tasca un mio recente sondaggio che non poteva sbagliare: un’anziana coppia, alle ultime elezioni politiche, in barba alla tradizione famigliare di sinistra risalente al periodo resistenziale e alla militanza nella Cgil, aveva inopinatamente optato, lei per l’astensione, lui per il voto sguaiato e spudorato alla Lega. Zitti, zitti, ci hanno ripensato e, da quanto mi è dato sapere, hanno votato, cuore in mano, per Stefano Bonaccini e per il Pd. Non è un percorso isolato e strampalato di pochi, è molto probabilmente un risveglio politico di molti. Quando ho saputo per vie traverse di questa conversione, ho tirato un respirone di sollievo: era fatta!

La politica è fatta di storia, di valori, di ricordi, di passioni, di vita vissuta. Matteo Salvini non l’ha capito, pensava di poter ottenere un risultato diverso cambiando l’ordine dei fattori: ha verificato che il prodotto non cambia. Ha sbattuto la testa contro chi ce l’ha ben più dura di lui. Ha stuzzicato il cane che dormiva e ne è rimasto aggredito a sangue. Non so se sia stato l’effetto delle sardine, non so se abbia giocato l’orgoglio del passato, non so se abbia prevalso il buonsenso del presente, non so se Salvini, buttando la maschera, abbia spaventato gli emiliani, non so se chi aveva votato M5S abbia capito l’antifona, non so se finalmente il Pd sia riuscito a rinverdire la sua foresta. Fatto sta che posso tirare un secondo respiro di sollievo: dopo la nascita del pur traballante governo giallorosso, c’è la rinascita del pur sbiadito retroterra rosso.

Queste elezioni danno segnali politici molto netti e incoraggianti, riconducibili ad una realtà incontrovertibile: la politica non è fatta di improvvisazione e di provocazione, è fatta di valori e di proposte. In questi anni, giorno dopo giorno, lo hanno sperimentato i grillini, costretti a prendere atto dei loro fuochi di paglia. Gli emiliani lo hanno improvvisamente gridato in faccia a Salvini, costretto a mettere le pive nazionaliste nel sacco. Pensavano bastasse urlare, rendersi visibili a tutti i costi, sparare a salve, gridare al lupo, invece non è così semplice…

A Silvio Berlusconi nel 1994 gli esperti, che lo aiutarono a buttarsi nella mischia, consigliarono alcuni slogan, ma si affrettarono a dirgli che l’effetto, prima o poi, sarebbe finito. Il discorso vale, a maggior ragione per la Lega salviniana, fatta di spaventapasseri collocati nei punti scoperti della pubblica opinione. Ebbene gli spaventapasseri sono diventati i fantocci da bruciare.  Manco a farlo apposta il falò del vecchione è un’antica e consolidata tradizione della città di Bologna e dei comuni limitrofi, oltre che di alcune aree del modenese, che consiste nel rogo di un grande fantoccio dalle sembianze di vecchio (il vecchione) che avviene alla mezzanotte del 31 dicembre per festeggiare il Capodanno.

Matteo Salvini, come spesso accade, si è illuso di sbaragliare il campo con quattro fregnacce sbattute in faccia agli emiliani: lo hanno rispedito a casa sua con biglietto di sola andata. Il popolo di sinistra, in mezzo a tanti dubbi e difficoltà ha battuto un colpo. Le persone ragionevoli hanno ripreso a ragionare. Speriamo che duri a lungo. Se il buon giorno si vede dal mattino, forse, e sottolineo forse, è iniziato un nuovo giorno, dopo una nottata di paura. Per oggi può bastare.

Il bagno papale nel lago di carezza

Di ritorno dall’uscita mattutina domenicale dedicata alla messa e al voto regionale, ho acceso la televisione, immaginando che stessero trasmettendo in diretta la celebrazione eucaristica presieduta da papa Francesco, a Roma in S. Pietro, in occasione della Domenica della Parola, istituita recentemente per invitare in modo particolare alla lettura, alla meditazione e soprattutto alla osservanza pratica delle Sacre Scritture. Infatti il papa stava terminando la messa nella solita, pomposa, e per me fastidiosa, cornice scenografica: ad un certo punto l’assistente cerimoniere ha rimesso sul capo del pontefice la papalina con tale e tanta accuratezza da evitargli anche l’istintivo, successivo auto-aggiustamento (mio padre sosteneva come, in caso di un copricapo messo sulla testa di un’altra persona, per questa fosse inevitabile  rimetterci mano; a ben pensarci è così anche quando un calciatore tira un rigore: l’arbitro magari mette il pallone sul dischetto, ma il giocatore incaricato del tiro non può esimersi dal ricollocarlo, salvo poi incespicarci sopra, come ha fatto goffamente il bomber (?) laziale Immobile).

Stavo facendo un po’ di silenziosa ironia, quando sono stato interrotto bruscamente da una scena che, con ogni probabilità, diventerà storica: tra le varie persone, di diversa provenienza, a cui il papa ha  donato il testo della Bibbia, c’era una ragazza down. Francesco le ha fatto una piccola carezza e lei, con una spontaneità invidiabile e ammirevole, lo ha ricambiato, riuscendo con la sua mano ad accarezzare dolcemente il volto papale: un delicatissimo e commovente scambio di tenerezze. Quella ragazza ricorderà per tutta la vita quell’episodio, ma forse anche e soprattutto il papa se lo sentirà attaccato alla pelle e al cuore.

Ho subito pensato che non poteva sperare una migliore ricompensa, per tutte le sofferenze patite a causa degli attacchi, vicini e lontani, alla sua persona in ordine al suo indirizzo pastorale. Credo proprio che quel gesto così dolce possa interpretare tutto l’affetto che la gente nutre per lui, quella gente che non si fa condizionare dalle dispute dogmatiche, ma va al sodo e capisce di essere amata da questo papa così evangelico e così poco dottrinario.

Quella ragazza probabilmente non saprà delle dotte e subdole contestazioni, curiali, cardinalizie, vescovili, laiche, politiche e religiose indirizzate a papa Francesco: persino il suo illustre predecessore, seppure in buona fede, è caduto nella trappola dell’impeachment strisciante verso l’attuale pontefice, reo di eccessiva aderenza al dettato evangelico e di troppa autonomia rispetto all’andazzo dottrinale e tradizionale. Lo ha però indirettamente difeso e ne ha fatto la miglior difesa possibile. Non so cosa avranno pensato i “teogolpisti”, forse avranno fatto come gli scribi e i farisei ai tempi di Gesù: da una parte avranno incassato una “figura di merda”, ma continueranno a rimestare nel torbido fino a puntare a farlo fuori del tutto (penso e spero non fisicamente, ma isolandolo e togliendogli consenso).

Certamente non basta una carezza a fare la storia della Chiesa, ma può darsi che incida più quel piccolo gesto dei documenti canonici atti a contestare le decisioni e lo stile papali. Francesco ripete spesso di essere considerato un comunista in quanto difensore dei poveri in base al Vangelo e chi tocca le persone, anche i cristiani, nel portafoglio rischia di morire. Forse è questo il punto al di là delle dispute teologiche e dottrinale, che fanno da paravento alla difesa degli equilibri di potere religiosi e politici.

Non posso esimermi dal riportare ancora una volta l’episodio narrato da don Andrea Gallo. Al noto “pretaccio” un importante Cardinale fece alcuni appunti sul modo di testimoniare la fede. Don Gallo si difese citando il Vangelo. Il Cardinale reagì stizzito dicendo: «Se la metti su questo piano…». Al che don Gallo ribatté: «E su quale piano la devo mettere?». Pensate un po’, essere molto fedeli al dettato evangelico è una colpa: «Tra i poveri e gli emarginati vediamo il volto di Cristo. Amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo. I nostri sforzi devono essere diretti a porre fine alle violazioni alla dignità umana, contro la discriminazione e l’abuso nel mondo, perché queste sono la causa dell’indigenza». Parlare troppo dei poveri dà fastidio: forse è questo il più grave “difetto” di papa Francesco.

 

Gli anticorpi della resistenza e il vaccino della democrazia

Oggi sento il dovere civico di soffermarmi un attimo sulle elezioni regionali emiliane. Lo faccio operando un paradossale e tremendo collegamento, con la cronaca che, purtroppo, mi offre un drammatico spunto, quasi a significare che la politica la porto nel sangue, è una malattia, contratta in famiglia dove mio padre mi ha impartito le prime indimenticabile lezioni di democrazia vissuta, dove mia sorella Lucia mi ha inoltrato e guidato sul sentiero impervio dell’impegno politico lontano da ogni compromissione col potere, in  “oltretorrente”, il rione dove ho respirato la politica fin da bambino, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà.

Con questi attivi ed efficacissimi anticorpi in circolazione, posso azzardarmi a parlare di virus. Siamo infatti terrorizzati dal virus cinese, che si sta inesorabilmente propagando, dandoci la peggiore delle idee sulla inevitabile globalizzazione del nostro vivere. Sono patetici i tentativi di contenere l’epidemia mettendo in quarantena città con milioni di abitanti o misurando la febbre alle migliaia di viaggiatori negli aeroporti. Siamo destinati a convivere con questi fenomeni: non capiamo da dove nascano e dove ci possano portare. Anche la scienza si rivela piuttosto impreparata e incapace di combattere queste gravissime malattie di origine virale. Nessuno se ne può considerare immune finché non arriverà un vaccino a toglierci dalla paura.

Ebbene, azzardo un paragone impossibile ed esagerato: nel mondo sta girando un virus politico, che comporta le tremende malattie del nazionalismo, del populismo e del sovranismo e che, come tutti i virus che “si rispettano”, è sfuggevole in quanto soggetto a continue mutazioni. L’epidemia dilaga: dagli Stati Uniti al Brasile, dalle Filippine all’Europa orientale finanche alla Gran Bretagna. Non pensiamo di rimanerne indenni con un’alzata di spalle o ritenendo si tratti di fenomeni che non ci riguardano. Ci siamo dentro anche noi italiani, eccome! Il nostro protagonista virale ha un nome ed un cognome, ma sta accumulando troppi insensati consensi. Prima che sia troppo tardi, cerchiamo di vaccinarci: in questo campo il vaccino e le medicine esistono, ma bisogna curarsi per tempo e in modo serio. I sintomi della malattia li conosciamo: egoismo, paura, insofferenza, intolleranza, odio, discriminazioni, razzismo, etc. La quarantena non serve, bisogna avere l’umiltà di curarsi all’ambulatorio della storia e all’ospedale della democrazia e soprattutto ricordando le cure messe in atto dai nostri padri, che hanno saputo “resistere” alla devastante febbre del fascismo e del nazismo.

Durante le sue penose peregrinazioni elettorali, Matteo Salvini, tra una stupida e vomitevole citofonata e una strafottente apparizione al mercatino, ha raccolto qualche sacrosanto insulto (bisogna infatti reagire finché si è in tempo): a Bologna, due donne (sempre le più coraggiosamente istintive) lo hanno apostrofato, facendogli chiaramente capire che in terra emiliana la libertà ce la siamo conquistata e non sarà certo lui a togliercela o a condizionarcela in modo più o meno subdolo. Abbiamo l’antidoto al suo veleno e lo ricaviamo dal sangue dei tanti martiri per la libertà ed è un sangue che, come quello di san Gennaro, non perde la sua vitalità.

Non vado oltre, ricordo solo che, quando mi accingo a votare, rivolgo sempre il mio deferente pensiero a tutte le persone che sono morte per conquistarmi questo diritto e quindi devo almeno cercare di esercitarlo in modo serio e solidale. Cercherò di farlo anche in questa occasione.

La pietra sepolcrale di un brutto film

Chissà perché mi sono lasciato prendere dalla voglia di assistere alla proiezione di “Hammamet”, un film diretto da Gianni Amelio, che racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi. Se si toglie la recente visione di una pellicola sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, a cui convintamente ed operosamente aderì mio zio don Ennio Bonati, da circa un quarantennio non entravo in una sala cinematografica, si potrebbe dire “un po’ per celia e un po’ per non morir”.

Per recarsi al cinema bisogna ormai fare i conti con gli ambaradan delle multisale inserite in moderni e disgustosi “paesi dei balocchi”, con una scarica infinita e frastornante di messaggi pubblicitari, con un autentico bombardamento acustico, in un clima situabile a metà fra il luna park e il centro commerciale. Ma come ben si sa, io sono uomo d’altri tempi e quindi…

Bando ai pur significativi preamboli. Ho visto il film che tenta la ricostruzione romanzata dell’ultima fase della vita di Craxi. Sovrapporre il cinema alla storia è operazione difficile e delicata, che a Gianni Amelio non è riuscita, nonostante la messa in campo di tutti i più banali e scontati strumenti della narrazione (il nipotino che fa da specchio alle scelte culturali del nonno; la coscienza critica impersonificata dal figlio di un collega di partito; l’amante che ritorna a disturbare la pace dei sensi; l’inaspettato visitatore salottiero; l’ingombrante presenza-assenza dei famigliari) e nonostante una minuziosa e pedante ricostruzione fisico-caratteriale del personaggio (lo fanno parlare sempre con i toni delle risposte ad una intervista). Anche la tanto osannata interpretazione di Pierfrancesco Favino finisce con l’essere una pedissequa imitazione: tutti dicono che l’attore ha fatto un capolavoro; assolutamente sì, dal punto di vista della recitazione; assolutamente no dal punto di vista dello scavo umano e psicologico. In fin dei conti, il difetto principale del film è proprio quello di appiattirsi nella insistita e stucchevole ricerca “dell’impersonificazione”, tralasciando la drammatica e sentimentale immaginazione.

Ne esce un ritratto impietosamente schiacciato su ben noti difetti umani e su altrettanto noti limiti politici, un personaggio nato, cresciuto, ingigantito dall’assenza del decisivo dialogo fra comunisti e democristiani, in gran parte dovuta all’omicidio di Aldo Moro, ma anche alle colpevoli indecisioni dei due partiti. Così Craxi seppe insinuarsi e insediarsi nella politica italiana, ricattando a sinistra i comunisti trascinati in obbligate coalizioni periferiche e a destra i democristiani avvinghiati al potere centrale: due pilastri tenuti insieme dal collante del sistema affaristico portato all’eccesso. Il disegno sostanzialmente conservatore non era certo riscattato da alcune intuizioni ideologiche (l’appoggio ai movimenti dissidenti nei paesi dell’est europeo), da alcune coraggiose scelte di politica estera (Sigonella), da alcune intuizioni moderniste e mediatiche immediatamente piegate all’imprescindibile affarismo (i nani, le ballerine, Berlusconi).

Speravo che il film ridesse dignità ad un passato storico da rileggere con spietata calma e con ritrovata obiettività, invece tutto buttato nella pentola borbottante di una rivisitazione frettolosa e superficiale. Mi illudevo che potesse ridare spessore umano alla lontananza ed alla disperazione dell’esilio. Niente, tutto inquadrato negli angusti confini del personaggio testardamente simile a se stesso.

Il messaggio del film è talmente equivoco da essere colto con tardivo, inutile ed ulteriore disprezzo dai detrattori del craxismo, ma nello stesso tempo da essere apprezzato dagli osannanti cultori dell’uomo forte che aggredisce e mangia cinicamente la politica. Non c’è la storia se non in una quasi impercettibile filigrana, non c’è l’umanità se non in una banale e scontata rivisitazione, non c’è la politica se non in un sottofondo di lettura unilaterale, non c’è giustizia se non in una comprensibile ma faziosa visione del condannato, non ci sono valori se non nella loro presuntuosa e ambiziosa relativizzazione. Un film negativo da tutti i punti di vista, che peraltro non concede a Craxi nemmeno l’attenuante della contraddizione, di cui siamo tutti, più o meno, vittime.

Peccato perché gli ingredienti potevano esserci: la ciambella non è riuscita col buco. Alla fine ero talmente irritato dal pressapochismo storico e dal superficialismo umano, da non aspettare nemmeno la fine della proiezione della pellicola, peraltro piuttosto noiosa e raffazzonata. Ho avuto l’inopinata conferma di una mia strana idea, che forse si è stratificata a copertura di una delle mie tante carenze culturali: il cinema è qualcosa di fuorviante, perché non ha l’obiettività della storia e non ha nemmeno la fantasia della letteratura, è qualcosa di mostruosamente “inculturale” e pericolosamente “antieducativo”.  Forse non è un caso se i bambini nel loro spontaneo approccio vanno al cinema per sgranocchiare i pop-corn: il resto scivola via e, se non scivola, lascia un segno pericoloso. Non mi resta che aspettare un altro quarantennio prima di varcare la soglia di una sala cinematografica (magari non ne esisteranno più…). Un po’ per celia e un po’ per non morir.

 

Le sceneggiate e i campi di patate

C’è un detto parmigiano che recita così: “In fônd a la botiglia gh’é sémpor al fiss”. Il significato è chiarissimo e non vale nemmeno la pena di esplicitarlo. Mi viene invece la tentazione di applicarlo alle ultime battute della campagna elettorale emiliano-romagnola. Matteo Salvini ne sta facendo e dicendo di cotte e di crude: chiede un digiuno preelettorale a difesa del suo operato come ministro, va persino a suonare i campanelli di probabili spacciatori per accreditarsi come una sorta di sceriffo a difesa della brava gente.

Attenzione però a non farsi trascinare in una deriva dove lui (della Borgonzoni non frega niente a nessuno) ha tutto da guadagnare e Bonaccini, candidato di un largo e fin troppo articolato schieramento di centro-sinistra, tutto da perdere. Giocando al pallone in un campo di patate è facile che vinca lo scarpone di turno, quindi occorre evitare i campi di patate, non in base ad aristocratica presunzione, ma per scelta politica.

Quando sento dire dal candidato a governatore regionale dell’Emilia-Romagna, che bisogna stare ben attenti perché la Lega ci vuole lombardi, rispolverando quello che qualche acuto giornalista ha definito “sovranismo rosso”, oppure che la Lega vuole privatizzare la sanità, radicalizzando ulteriormente il dibattito già fin troppo schematizzato, temo che ci si stia spostando sul campo di patate di cui sopra. Si eviti cioè di accreditare la vignetta dell’avversario che, tutto sommato, piace all’elettore medio. Matteo Salvini sta infatti vivendo una sorta di satira strisciante della propaganda politica: sembra funzionare.

Non dico di ignorarlo, ma di contrapporre alle sue gag elettorali qualche discorso concreto, che costringa l’elettore a ragionare uscendo dall’imbuto della sceneggiata napoletana. Il genere, del tutto peculiare della realtà artistica partenopea, nasce storicamente nel primo dopoguerra, allo scopo di unificare il genere musicale classico con il teatro. Le rappresentazioni erano infatti imperniate su una canzone di grande successo, dalla quale la sceneggiata prendeva il titolo e, attorno al tema musicale, veniva costruito un testo teatrale in prosa, risultando così un lavoro in cui canto, ballo e recitazione si fondevano in un’unica rappresentazione. Una delle cause della nascita della sceneggiata pare da imputare al Governo italiano, che dopo la disfatta di Caporetto appesantì le tasse sugli spettacoli di varietà, giudicati frivoli e degradati, stimolando gli autori, per aggirare le tasse, ad ideare uno spettacolo “misto”. Se si prova a cercare questi elementi nell’impostazione propagandistica salviniana, c’è da rimanere stupefatti.

Anche perché se ci mettiamo a suonare le campane regionali, qualche stonatura emiliana esiste e quindi meglio suonare qualche altro strumento. Così come lo spauracchio del privato non ha grande appeal in un elettorato già spesso orientato in campo sanitario a rivolgersi alle strutture private per evitare le lungaggini e le disfunzioni del servizio pubblico. Attenzione agli autogol nella foga di difendersi dagli attacchi avversari.

A snidare il salvinismo in modo intelligente e popolare ci sta pensando il movimento delle Sardine, non vale la pena rubargli il mestiere, disturbare l’elettorato; se proprio non si hanno argomenti, meglio tacere. A volte chi parla troppo finisce con l’intartagliarsi. Mi hanno appena chiesto in via amichevole di fare una previsione sull’esito delle elezioni emiliane: non ho saputo rispondere per incapacità nell’interpretare gli strani umori della gente e non ho voluto rispondere per scaramanzia. Sdrammatizziamo! Nello sport, quando non si sa cosa dire, ci si rifugia nel “vinca il migliore”. Nell’attuale fase politica mi rifugio nel “si salvini chi può”.

 

L’alfa e l’omega del M5S

A Federico Pizzarotti, sindaco di Parma da quasi otto anni, non basta essere stato lo storico, anche se casuale, iniziatore dell’epoca istituzionale grillina (primo sindaco a cinque stelle nella storia italiana, seppure ben presto sospeso dal Movimento), ora si candida a fare il profeta di sventura del suo ex movimento, prevedendone la fine politica: da una parte in conseguenza delle Sardine, che gli stanno togliendo la terra sotto i piedi, riscaldando il cuore e la mente ad una fascia di opinione pubblica di sinistra demotivata; dall’altra ad opera della Lega di Salvini, assai più credibile e spregiudicata, che gli sta rubando i voti a destra; dall’altra ancora per effetto dell’esito elettorale emiliano-romagnolo, che ridurrà irrimediabilmente ai minimi termini questo strano (non) partito.

Pizzarotti profetizza insomma che il 2020 sarà l’anno della fine del M5S. Forse sotto sotto sta anche gufando comportandosi da “spretato”, ma penso non abbia tutti i torti. Lui sta raccogliendo i rinnovati fasti parmensi di capitale della cultura, mentre i suoi ex colleghi di movimento stanno raccattando i cocci e sono allo sbando a tutti gli effetti. Sembra addirittura che la leadership dimaiana abbia i giorni contati, come sostiene Ilario Lombardo su La Stampa.

Ventisette mesi è durato il regno di Di Maio alla guida del M5S. Mesi in cui c’è stato un grande successo, alle elezioni nazionali del marzo 2018, e poi solo sconfitte. E ancora: i gruppi che lo contestano, i parlamentari che scappano, i ministri che chiedono l’adesione all’area riformista, Beppe Grillo, con il quale la comunicazione si sarebbe interrotta, che ormai parla con il sindaco Beppe Sala e sogna una nuova casa a sinistra, Giuseppe Conte che vuole guidarla.

Bisogna andare adagio a dare per persa la creatura grillina, tuttavia sembra effettivamente assai vicina al capolinea: il problema semmai sarebbe chi se ne spartirà le spoglie. Per resistere ad un ribaltone come quello combinato dai pentastellati, passati in un baleno dall’alleanza contrattualistica con la Lega al confuso accordo col Partito democratico, occorrerebbe la diabolica abilità di un Andreotti più che la spettegolante arroganza di un Di Maio. I pentastellati appaiono come pecore sperse senza pastore. Credo sempre più che, per fondare un movimento politico, inserirlo nell’agone elettorale e piazzarlo a livello istituzionale, non basti la verve grillina, ma occorra una cultura, una storia, una ideologia, un radicamento sociale, un minimo di classe dirigente. Non serve sparare contro la politica per poi andare a sbatterci contro. In questo non ha tutti i torti Vittorio Sgarbi, quando mette “sgarbatamente” in guardia le Sardine dal loro ripiegamento sul mero “antisalvinismo globale”.

Luigi Di Maio sembrerebbe orientato a fare un passo di lato, a tirarsi fuori dalla mischia per aspettare i cadaveri dei suoi colleghi e poi ritornare con una squadra nuova di zecca. Per fare simili operazioni occorrono personaggi politici di grande livello e non traghettini qualsiasi in vena di fare i Cincinnato per burla. C’era da aspettarselo: non si può andare al governo di un Paese completamente sprovvisti di preparazione, esperienza e intelligenza, sulla base e sull’onda di una generica cavalcata protestataria.

Peraltro clamoroso appare l’errore tattico di isolarsi nella battaglia elettorale emiliana, con il rischio di creare problemi a Stefano Bonaccini e quindi magari di causare indirettamente una crisi nel partito democratico, che potrebbe portare alle elezioni anticipate da cui i pentastellati uscirebbero probabilmente distrutti, e di non recuperare verginità ma accumulare ulteriore inaffidabilità.

Se Federico Pizzarotti ha il dente avvelenato, che lo porta a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, io, da semplice cittadino, vedo con preoccupazione aumentare lo spazio politico del disorientamento popolare, che, alcuni anni or sono, fu bene o male incanalato dal grillismo ed ora è sempre più in balia delle onde salviniane. Non so cosa riusciranno a recuperare culturalmente le Sardine: qualcosa di interessante stanno dicendo e facendo. Tuttavia non mi illudo e non mi sento di affermare “morto un movimento, se ne fa un altro”, perché alla fine rischia di morire la democrazia.

 

Il kafkiano processo ai migranti

Pur con tutta l’umiltà del caso, non credo di essere proprio un principiante della politica. Ciononostante sto faticando non poco a capire cosa sta succedendo in Parlamento in merito all’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini sul caso Gregoretti, la nave bloccata in mare e sulla cui vicenda la magistratura ha individuato un reato di sequestro di persona da parte dell’allora ministro degli Interni. Già la procedura è giuridicamente piuttosto tortuosa: parte la procura competente per territorio, che investe il tribunale dei ministri; questo per procedere ha bisogno del via libera parlamentare, nel caso specifico il Senato, essendo Salvini un senatore della Repubblica. Sulla questione si pronuncia in prima battuta la Giunta per le autorizzazioni a procedere, dopo di che è l’aula ha dare o meno l’ok definitivo al tribunale dei ministri. Questo organo giudiziario speciale decide poi eventualmente se trasmettere il caso alla magistratura ordinaria (se ho fatto confusione o commesso qualche errore, chiedo scusa, ma la mia intenzione non è quella di impartire una lezione di diritto pubblico e/o penale).

Siamo quindi ancora alle prime battute: la Giunta del Senato ha votato sì al processo per Matteo Salvini e fin qui uno direbbe che, tutto sommato, è giusto che la legge sia uguale per tutti, politici compresi, anche se il problema è più delicato e consiste nel valutare se gli atti compiuti dal ministro Salvini fossero di natura politica e quindi non censurabili dal punto di vista penale. Il presidente del Consiglio di allora, coincidente con quello attuale, sostiene, con qualche formalismo di troppo e con poca credibilità, che il governo non abbia dato, né formalmente né sostanzialmente, un placet alla presa di posizione del ministro degli Interni volta a bloccare l’approdo della nave con a bordo tanti migranti. Il Senato non doveva e non deve entrare nel merito dell’eventuale reato, ma valutare se il comportamento ministeriale rientrasse o meno nell’area delle competenze politico-istituzionali.

Sembrava che le forze politiche rappresentate nella suddetta Giunta fossero orientate in modo alternativo: quelle dell’attuale maggioranza del governo giallorosso a favore dell’autorizzazione con l’evidente imbarazzo dei grillini che in un caso analogo in vigenza del governo gialloverde avevano votato contro l’autorizzazione, ponendo Salvini al riparo previa pronuncia  sul web degli iscritti pentastellati, e con titubanze più o meno dichiarate da parte di Italia viva, il nuovo partito di Matteo Renzi; quelle di minoranza, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, orientate a votare contro l’autorizzazione ed a creare un cordone di salvataggio intorno a Salvini.

Ad un certo punto parte la politicizzazione spinta, per non dire la strumentalizzazione della vicenda. Per evitarla, almeno in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, si vorrebbe rinviare la questione al dopo elezioni, ma la Giunta, complice un discutibile atteggiamento della presidente del Senato, che a sorpresa partecipa al voto, decide di procedere. Comincia a sentirsi una tremenda puzza di tatticismi. Salvini fa la furbesca mossa di aprire improvvisamente la porta quando tutti spingono per forzarla: i suoi amici in Giunta voteranno a favore del prosieguo della procedura intendendo fare del leader leghista un martire della difesa dei confini nazionali e il capro espiatorio in nome del popolo italiano con lui prevalentemente solidale. I rappresentanti di maggioranza non partecipano al voto di Giunta e i pochi presenti, i 10 senatori del centro-destra, bastano per andare avanti e votare il seppur provvisorio sì al processo per Matteo Salvini.

L’iter parlamentare non è però finito: il 17 febbraio nell’aula del Senato cosa succederà? Staremo a vedere. V’è chi prevede una strana combinazione Lega, PD e M5S per mandare Salvini sotto processo, mentre Forza Italia, Fratelli d’Italia (l’Italia c’è, ma fino a che punto?) difenderebbero l’operato dell’allora ministro ritenendolo rientrante nei suoi compiti istituzionali. Una cosa è certa: l’opportunismo politico la sta facendo da padrone. Salvini vuole la piazza a tutti i costi e in un comizio arriva a dire: «Guareschi diceva che ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione. Siamo pronti, sono pronto». Se questa non è demagogia, cos’è? Fiuta l’odore populistico del sangue e si scatena. Non sono convinto che andrà fino in fondo in questo atteggiamento strumentale e non mi stupirei se, a babbo morto, vale a dire ad elezioni regionali avvenute e magari perse (speriamo…), tentasse di ribaltare il voto della giunta con un voto segreto in aula trasversalmente a lui favorevole.

«È sempre lo stesso film. Salvini ancora una volta fa uso politico della giustizia e sta costruendo un battage politico perché pretende l’impunità», replica il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Anche Luigi Di Maio attacca: «Salvini che dice “andrò a processo, scriverò le mie prigioni” è passato dal sovranismo al vittimismo. Lui lo sa che bloccare la Gregoretti fu una scelta sua».

Sono sinceramente frastornato e l’unico commento che mi sento di aggiungere è questo: sulla pelle dei migranti si sta giocando un’indegna battaglia politica mettendosi letteralmente sotto i piedi ogni e qualsiasi principio etico. Non solo si è portata avanti una linea politica insensata e scriteriata con la sciagurata pantomima dei porti chiusi, ma la si vuole sbandierare come una conquista di civiltà per cui immolarsi contro i vandali invasori e chi li protegge. Purtroppo il M5S ha fatto e continua a fare il pesce in barile per paura di perdere i voti che ha già perso e il PD non ha il coraggio di varare una seria politica per l’immigrazione per paura di perdere ulteriori voti. I migranti per l’Italia non sono carne da cannone, ma da seggio elettorale.