Il venticello della ragionevole paura

La politica è investita da un’autentica bufera di vergognose polemiche strumentali: la prescrizione è diventata uno scontro pseudo-ideologico tra moralismo-giustizialista e pragmatismo-garantista; il coronavirus è affrontato a suon di allarmismo speculativo che investe persino il sistema scolastico; l’azione di governo è mischiata con la piazzaiola contestazione da parte degli stessi protagonisti, quelli di lotta e di governo; le sardine scattano ingenui ma pericolosi selfie di gruppo coi Benetton, prestando il fianco a chi li sta aspettando al varco un po’ per celia e un po’ per non morire; i due Matteo, Salvini e Renzi, fanno a gara per ottenere la palma del più scriteriato dei protagonismi senza bussola.

Tutto sembra sbattuto dal vento tempestoso delle provocazioni incrociate: solo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella riesce ad ergersi sopra la mischia, invitando caldamente e credibilmente tutti alla ragionevolezza impegnata e dialogante, facendo la commovente spola tra un evento e l’altro con la fiaccola della Costituzione in mano per richiamare i contendenti col motto “l’importante non è vincere ma partecipare”, comunemente attribuito a Pierre de Coubertin, pedagogista e storico francese, che ha reso possibile la rinascita dei Giochi Olimpici Moderni.

Ma, dopo ogni tempesta che si rispetti, spuntano le avvisaglie della quiete più o meno disarmata. E allora ecco il ministro della giustizia che accetta di  costituire una commissione tecnico-scientifica per esaminare gli effetti della riformicchia sulla prescrizione; ecco Renzi che, dopo aver tirato il sasso dell’ostilità assoluta ad ogni compromesso sull’allungamento dei tempi della prescrizione, nasconde la mano dietro l’eventuale voto di fiducia al governo qualora venga posta sul provvedimento che dovrebbe in qualche modo segnare una tregua compromissoria sull’argomento; ecco il governatore del Veneto, Luca Zaia, che, dopo la sparatoria della circolare scolastica, ripiega sul principio di precauzione adottabile dallo staff scientifico del ministro della Salute, invitando a non farne una battaglia politica, affermando che i cinesi non sono untori e che non si deve cercare voti sulla loro pelle; ecco Luigi Di Maio, affaccendato nel disperato aggrapparsi al codice genetico del M5S in stucchevole difesa del residuo bottino elettorale, ben lontano dalle velleitarie intenzioni di far saltare il banco di Giuseppe Conte; ecco le sardine che tornano a guazzare nelle loro acque per non impantanarsi in quelle delle finezze tattiche sulla cui riva  quasi tutti ne aspettano il cadavere; per non parlare del premier Conte, vigile del fuoco sempre pronto a spegnere gli incendi prima che sia troppo tardi e le fiamme divorino il suo governo.

Si ha l’impressione che un po’ tutti vogliano accendere i toni della polemica, ma solo un pochettino, come quella famosa ragazza incinta. Quando il gioco si fa veramente duro, tutti frenano per non andarsi a sfracellare contro il muro delle elezioni politiche anticipate. Tutti le vogliono e nessuno se le piglia. Sì, anche i barricadieri novelli leader del centro-destra temono di giocare in anticipo i jolly che pensano di avere in mano: uno molto probabilmente l’hanno già sprecato nelle elezioni regionali emiliane.

La politica sembra sprofondare in questi giochini, in questi divertimenti (poco) innocui per bambini scemi (gli elettori che forse tanto scemi non sono). In mezzo a questo confuso tira e molla, confesso di nutrire una gran voglia di andare alle urne, per vedere finalmente i pentastellati ridotti alla frutta, i renziani arrivati al capolinea ancor prima di partire, i leghisti con un pugno di mosche sovraniste in mano, i fratelli d’Italia a cantare “giovinezza”, i berlusconiani a piangere e fare lutto, i democratici ad imprecare contro il destino cinico e baro. Qualcuno in quel caso vorrebbe tornare immediatamente alle urne, la bulimia del voto… ma invece spunterebbe un governo tecnico, che rischierebbe di durare in eterno, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

 

La faccia tosta trumpiana

Davanti al video, solo perduto e abbandonato, mormoravo far i denti: “Vergogna”. Usavo questa brutta parola nel chiuso del mio studio, in risposta a chi la abusava gridandola con tanta sfacciataggine in campo aperto, di fronte alle telecamere del mondo intero.

“È stata una vergogna, una grande ingiustizia portata avanti per tre anni da gente bugiarda”. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump parlando alla Nazione dopo la sua assoluzione dalle accuse che lo avevano portato all’impeachment. “Non so se un altro presidente sarebbe riuscito a superare questa situazione”, ha aggiunto Trump che ha attaccato la speaker della Camera, Nancy Pelosi, definendola come “una persona orribile”.

Alexander Vindman e Gordon Sondland, due dei testimoni chiave alla Camera nel procedimento di impeachment, sono stati rimossi dal loro incarico, il primo alla Casa Bianca, dove sedeva nel consiglio nazionale per la sicurezza. Il secondo come ambasciatore Usa presso la Ue. Cacciato anche il fratello gemello di Vindman, Yevgeny, consulente legale alla Casa Bianca.

Siamo davanti al vergognoso epilogo di una vicenda, che, al di là della striminzita e politicante assoluzione, mantiene intatti tutti i suoi contorni inquietanti. Gli americani avevano e hanno paura del comunismo? Non è forse una purga staliniana riveduta e scorretta quella messa in atto proditoriamente da Donald Trump?

Sono rimasto allibito e sbigottito. Il presidente della nazione democratica (?) più importante (?) del mondo che si comporta come il più squallido dei dittatori, mettendo in atto una vera e propria vendetta contro personaggi rei soltanto di avere testimoniato in un processo e di avere dubitato della sua fede democratica. E il mondo resta in silenzio attanagliato dalla paura verso questo squallido personaggio da fumetto. Povera America, povero mondo, povera Europa, povera Italia.

Ma il bello deve ancora venire. Donald Trump, presidente di minoranza (non dimentichiamoci che, quattro anni or sono, è stato eletto con due milioni di voti in meno rispetto alla sua competitor Hillary Clinton), si ripresenta all’elettorato americano per una conferma: altri quattro anni di martirio per tutti.  Un tempo gli Stati Uniti davano il “la” alla musica mondiale e italiana in particolare: prospettavano il futuro. Oggi il discorso è molto più complesso. Berlusconi ha sovvertito questa regola, imponendosi come paradigmatico tycoon della politica. Guardate Trump: persino nell’aspetto fisico ricorda il cavaliere nostrano. Chissà come godrà Berlusconi nel vedere il presidente americano fare quelle vendette che lui sta ancora sognando. Chissà come godrà Matteo Salvini nel vedere il suo sogno populista incarnato nel prototipo americano.

Le vendette e le congiure di palazzo un tempo avvenivano nelle stanze oscure del potere, oggi avvengono di fronte alle telecamere: sinceramente non so se sia meglio o peggio. Certe brutte cose a volte è meglio immaginarle che vedersele sbattute in faccia. Dovrebbe essere il contrario, perché la verità fa male, ma costringe a reagire. Nel caso invece la squallida verità diventa bella ed affascinante realtà. In un mondo dove gli uomini corrono dietro alle donne sceme e le donne corrono dietro agli uomini violenti, tutto è possibile, anche Trump.

Ricordo che un mio simpatico amico, ai tempi dell’impeachment intentato contro Bill Clinton, per lo scandalo sessuale scoppiato sulla base dei rapporti con Monica Lewinsky, mi disse: “C’è una bella differenza: John Kennedy scopava regolarmente Marilyn Monroe, Clinton si accontenta di molto meno…”.   Oggi si potrebbe dire: “Richard Nixon ebbe il buongusto di dimettersi per il famoso affare Watergate. Niente in confronto delle accuse contro Donald Trump, che esce pulito (?) e addirittura nei panni di giustiziere della notte politica americana”.

Dove è finito il moralismo bacchettone d’oltreoceano? È stato miseramente svelato. Abbiamo capito: agli americani, come a molti nel resto del mondo, piacciono gli uomini forti, non importa se ignoranti, non importa se assurdi, non importa se anti-democratici, non importa se traditori. Basta avere una bella faccia tosta: con questa espressione ci si riferisce a delle persone che non conoscono vergogna o timidezza, che non hanno paura di fare brutte figure, che hanno una bella faccia di bronzo, che sono sfrontate. Sì, proprio come Donald Trump.

E allora…vo gridando vergogna e vo gridando democrazia!

Parole di odio, sassi di fascismo

Davanti alle normali emergenze ne spunta continuamente una anormale. Può essere assurdo parlare di normalità e di anormalità con riferimento alle emergenze, vale a dire a fenomeni che portano in sé il dato della straordinarietà. La differenza sta nell’atteggiamento che la persona e la comunità tengono di fronte ad esse. È normale essere preoccupati ed allarmati di fronte al coronavirus dilagante, è anormale scaricare questa naturale paura sui cinesi, arrivando a discriminarli per il solo fatto di essere cinesi e quindi portatori del virus a prescindere. Dalla paura si passa all’odio transitando attraverso il museo degli orrori del passato senza fare nemmeno una piega, ripetendo gli errori del passato senza alcuna riflessione critica. Sta prendendo piede la convinzione che i problemi si possano risolvere isolandone i portatori, ghettizzandoli o respingendoli, operando sbrigative colpevolizzazioni, riducendo il problema della sicurezza a mero esorcismo nei confronti dei soggetti diversi da noi, affrontando i rapporti sociali con rancore verso intere categorie di persone.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un messaggio rassicurante e antirazzista, diretto soprattutto alla comunità cinese, recandosi a sorpresa in una scuola elementare dove è molto alta la presenza di bambini stranieri. La scuola si chiama “Daniele Manin”, nel quartiere Esquilino, istituto che si contraddistingue per la sua multiculturalità, con una presenza tra il 40 e il 50 per cento di alunni di nazionalità non italiana anche se nati in Italia. Un gesto distensivo e simbolico da parte del capo dello Stato nei confronti della comunità cinese residente da anni in Italia, colpita dalle ricadute della vicenda del coronavirus.

“Sono piuttosto preoccupata dai gesti di odio, poiché indicano un’emergenza e un fallimento”. Luciana Lamorgese esordisce così nell’intervista rilasciata a la Repubblica, nel corso della quale ha parlato della problematica relativa all’intolleranza: “Un’emergenza culturale e civile che mette in discussione le ragioni stesse del nostro stare insieme”. Il ministro dell’Interno ha elencato diversi casi recenti, dalla scritta nazista di Mondovì alla violenza verbale nei confronti di Liliana Segre, per esprimere la propria indignazione: “Dimostrano che è stato superato l’argine e dimostrano, peraltro, il definitivo divorzio tra significante e significato nell’uso delle parole. Nell’odio in cui siamo immersi c’è spesso assenza totale di pensiero. Assoluta ignoranza della storia. Io a questo fallimento non voglio rassegnarmi e penso non sia giusto rassegnarsi”.

Gesti e parole sacrosanti che dovrebbero scuoterci dall’indifferenza, dal torpore, dall’egoismo, dalla cattiveria con cui partecipiamo alle vicende della nostra comunità civile. Attenzione perché la storia insegna come tutti i peggiori regimi abbiano attinto a piene mani in questi irrazionali sentimenti, provocandoli, alimentandoli e strumentalizzandoli. Forse stiamo scivolando verso nuove forme di nazifascismo senza accorgercene più di tanto. Fermiamoci in tempo e riflettiamo seriamente.

Non mi sento di fare rientrare questa emergenza dell’odio in una sorta di naturale patologia psico-sociale dovuta alle obiettive difficoltà che la gente incontra. Tanto meno in una goliardica rincorsa a rivalutare i miti di un passato da capire e rifiutare in blocco. Ancor meno in una triste realtà con cui fare i conti e da governare al meglio o al peggio, come qualcuno si illudeva e si illude di fare con la mafia. Sì, l’odio sociale come un vizio mafioso da metabolizzare. Tutte queste colpevoli sottovalutazioni sono ben sintetizzate in una infelice battuta contenuta in un tweet di Ignazio La Russa, vice-presidente del Senato, esponente di Fratelli d’Italia, il quale poi lo ha rimosso dando la colpa a un suo collaboratore: “Non stringete la mano a nessuno, il contagio è letale. Usate il saluto romano, antivirus e antimicrobi”.

Ci sono due modi di porsi di fronte alla sub-cultura fascista. Quello di scherzarci sopra a babbo morto con una nostalgica e pericolosissima ironia nel moderno bar dei social network, così ben impersonificato da certi politici, in vena di rimpianti o, ancor peggio, in vena di ballare coi fantasmi del passato. Quello raccontatomi da mio padre: ai tempi del fascismo imperante, un popolano era solito entrare nelle osterie ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”: un semplice uomo del popolo, con un coraggio da leone, che conosceva e usava molto bene l’arte della polemica e della satira.

 

Zigzagando intorno a Sanremo

Qual è il modo giusto per contestare l’andazzo culturale della nostra società? Contrapporsi, estraniarsi, confrontarsi? Sono portato, prima ancora per carattere che per convinzione, ad isolarmi di fronte a certe derive, considerandole inarrestabili e inarginabili e quindi aristocraticamente ignorabili.

Mia sorella criticava aspramente questo mio atteggiamento dall’alto della sua opzione per il dialogo e la partecipazione a tutti i costi. A me l’opposizione ante litteram è costata spesso isolamento, a lei la battaglia è costata spesso disillusione e scoraggiamento.

Una breve premessa per arrivare al nocciolo della banale questione: rifiutare il festival di Sanremo rischiando di buttare via molta acqua sporca assieme a un bambino (Roberto Benigni)? Non me la sono sentita di contaminarmi con l’acqua sporca per estrarre il bambino, ho preferito rinunciare a tutto. Mi sono poi auto-punito rifiutandomi di leggiucchiare a destra e manca il resoconto dell’intervento di Benigni: un’altra volta impara a non mescolare il sacro col profano…

Ho preferito dedicarmi ad una edizione televisiva di Rigoletto, peraltro piuttosto scialba da tutti i punti di vista, che non mi ha dato alcuna emozione. Una persona molta anziana, che data l’età non poteva più assistere alle opere liriche rappresentate in teatro, si accontentava del resoconto degli amici appassionati, a cui rivolgeva una simpatica domanda per capire l’esito della recita: “Ani fat gnir i zgrizór?”. Anche mio padre aveva questo approccio all’opera: esigeva e si entusiasmava per la frase incisiva, per l’interpretazione trascinante, per gli interpreti che lasciano un segno forte nel personaggio più che nel ruolo.

Restando sui gusti e gli atteggiamenti paterni, devo aggiungere che non lesinava attenzione critica a tutti gli eventi, compreso il festival di Sanremo, in tempi in cui i protagonisti della kermesse erano le canzoni e i cantanti e non i conduttori e le starlette di turno. Aveva un concetto molto popolare della “canzone” leggera, forse perché la contrapponeva fin troppo alla “romanza” impegnativa. Giudicava con un criterio esageratamente tutto suo: l’indomani la donna di casa, mentre faceva le pulizie, avrebbe potuto canticchiare il motivo della canzone. Questo per lui era il termometro del successo! Così come scavava l’opera lirica alla ricerca del significato profondo e delle sensazioni forti, si accontentava della canzone nella sua consumistica portata culturale.

Ricordo una serata di Canzonissima. Mina doveva cantare la famosa canzone napoletana “Munasterio ‘e Santa Chiara”. Per una improvvisa indisposizione fu sostituita nientepopodimeno che dal tenore Franco Corelli, il quale ne diede una versione drammaticissima, come nel suo ineguagliabile stile di canto. Mio padre, che giustamente aveva un debole per Corelli, era commosso e andava ripetendo: “Al säva, al säva!”, riferendosi all’interpretazione originale e suggestiva del tenore. Ho riascoltato recentemente questa stupenda canzone, proprio tratta dalla serata di Canzonissima a cui partecipò stranamente Franco Corelli, piantando, come era solito fare, uno storico chiodo. Papà, come sempre, aveva ragione.

Sono partito da Sanremo e sono arrivato a Franco Corelli. Peccato per Roberto Benigni. Sono sicuro che se ne farà una ragione, mentre io resto col mio solito snobistico dubbio: respingere o accettare le provocazioni, chiudermi a riccio sulle indiscutibili certezze o aprirmi alle discutibili esperienze?

Il mio carissimo e indimenticabile amico Gian Piero Rubiconi, uomo di cultura a tutto tondo, collezionava dischi non per una malcelata bulimia filologica, ma per la sete inestinguibile di ascoltare, di raffrontare, di approfondire, di commuoversi. L’enorme patrimonio di incisioni e registrazioni dal vivo non lo teneva per sé, ma amava comunicarlo, metterlo a disposizione di tutti, soprattutto dei suoi giovani amici appassionati. I suoi “colleghi” collezionisti lo rimproveravano di essere troppo generoso e di non difendere a dovere il proprio patrimonio discografico, ma soprattutto quello delle preziose ed appetibili registrazioni “pirata”. Qualcuno minacciava di non fare più con lui scambi di materiale, dal momento che tale materiale veniva poi troppo divulgato. Una volta si sfogò e mi disse: «Capirai… se mi metto a fare il custode impenetrabile di nastri su cui sono incisi autentici pezzi di cultura. Se me li chiedono, glieli do volentieri: li ascoltano, discutono, si divertono. La cultura è scambio, esige di essere fatta circolare, non è strettamente riservata ad alcuno…». Da una parte aveva un alto e professionale concetto di arte, di cultura, quasi al limite dell’aristocratico, dall’altra prediligeva il senso popolare della cultura stessa, ne perseguiva la diffusione, amava divulgarla. Sane ed apparenti contraddizioni. Della serie tutto può essere cultura, anche una ricetta di un piatto gastronomico. Non ricordo però se nel suo cesto culturale avesse qualche spazio anche il festival di Sanremo…

 

 

 

Il Vangelo della discontinuità

In politica, fra un’elezione e l’altra, fra un governo e l’altro, si cerca la discontinuità a tutti i costi. Ci si vuole distinguere dai predecessori nello stile e nei contenuti e spesso non si riesce a farlo, perché certi indirizzi non possono essere facilmente invertiti, certe scelte non possono essere sbrigativamente azzerate, certe situazioni non possono essere totalmente ribaltate. E allora ci si accontenta di giocare allo scaricabarile delle responsabilità su chi c’era prima e dall’altra parte di soffiare sul fuoco delle attese andate deluse.

Poi la discontinuità deve anche fare i conti con la propria misura: radicalità o moderazione. Chi si pone in alternativa rispetto alla dirigenza in sella, deve stare attento a non esagerare evitando il rischio di passare per disfattista, al contrario deve evitare di ammorbidire troppo le proposte per non sembrare una minestra scaldata.

In Italia qualcuno sta dicendo che Salvini nella recente campagna elettorale regionale abbia alzato troppo i toni, abbia spinto troppo sul pedale dell’alternativa totale, finendo col favorire uno scatto d’orgoglio dell’avversario dimostratosi decisivo.

Negli Usa le elezioni primarie nel partito democratico alla ricerca del candidato anti Trump stanno evidenziando dubbi e tentennamenti fra scelte di radicale contrapposizione al presidente uscente e quelle di una più ragionata opposizione. Tutto sempre per non scontentare l’elettorato moderato, vale a dire quella opaca e grigia entità di mezzo, che condizionerebbe sempre e comunque l’ottenimento di una maggioranza. Mentre a destra un simile discorso può avere un suo potenziale fondamento (peraltro smentito nelle urne italiane dalla debacle forzitaliota), atto a rassicurare l’elettorato incline a non sporcarsi le mani indossando i guanti bianchi, a sinistra il corteggiamento al “moderatume” finisce con lo scontentare tutti, delegittimando sostanzialmente la politica progressista.

Protagonista di questa cantonata strategica è attualmente in Italia Matteo Renzi, preoccupato di occupare l’area di centro senza comprendere che la sinistra, eventualmente, va moderata dall’interno e non creando insane e controproducenti fratture esterne. Negli Stati Uniti le elezioni primarie del partito democratico, pur costretto al sistema bipolare, stanno rischiando di frantumare il già debole fronte alternativo alla sciagurata politica trumpiana.

Se il discorso della discontinuità, più o meno accentuata, è connaturale alla politica, costituendo il sale della competizione democratica, nella Chiesa si punta alla continuità a tutti i costi.  Qualcuno potrebbe immediatamente essere tentato dall’inquadramento della Chiesa istituzione in un regime antidemocratico e quindi dalla spiegazione della continuità ecclesiale nel solco della statica vita di una comunità irregimentata e incapsulata. In questo schematico ragionamento c’è qualcosa di vero: il mantenimento del potere clericale impone la sordina ad ogni esigenza di cambiamento.

La Chiesa però è dotata anche di una dimensione comunitaria, che non combacia affatto con quella gerarchica e istituzionale. Chi è credente, come il sottoscritto, tende ad intravedere in questa salutare dicotomia l’azione dello Spirito Santo, che scombina le carte e butta all’aria meccanismi ed equilibri di potere. Chi non è credente si smarrisce e tende a privilegiare se non addirittura ad assolutizzare l’assetto strutturale nella sua statica e inattaccabile logica.

L’elezione al soglio pontificio di Bergoglio è stata indubbiamente una sassata nella piccionaia curiale, che ha privilegiato una visione evangelica e comunitaria rispetto alla tradizionale impostazione dottrinale e istituzionale. Ed eccoci però purtroppo al discorso della discontinuità nella continuità, al dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: è un meccanismo in cui rischiano di essere schiacciate anche le migliori intenzioni riformatrici di papa Francesco.

Come noto è uscito un libro scritto da un autorevole membro della curia vaticana, sponsorizzato dal papa emerito Benedetto XVI, ingenuamente (?) trascinato in una pericolosa e scivolosa querelle sul celibato sacerdotale: è partito cioè un subdolo e furbesco fuoco di sbarramento contro il profilarsi dell’avanzata di un seppur moderato riformismo. Un messaggio chiaramente volto a interrompere sul nascere ogni e qualsiasi parvenza di discontinuità. Ebbene, come scrive Domenico Agasso jr su La Stampa, a pochi giorni di distanza è uscito un libro finalizzato a dimostrare come sul celibato dei preti Francesco la pensi come Giovanni Paolo II. Lo definisce “un dono, una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa cattolica latina. E non un limite. E se oggi c’è chi lo chiama «Papa comunista», a Buenos Aires Bergoglio è stato «percepito come un conservatore», per la sua «sintonia» con Wojtyla. Il Pontefice argentino lo dice nelle pagine di San Giovanni Paolo Magno, in uscita l’11 febbraio per le edizioni San Paolo. Dal libro, attraverso l’intervista rilasciata a don Luigi Maria Epicoco, emergono le affinità tra gli arcivescovi di Cracovia e Buenos Aires, «presi» entrambi da «Paesi lontani» per farli salire sul Soglio di Pietro. Un volume che può assumere un ruolo rilevante nelle accese dispute dentro e fuori della Chiesa, perché Wojtyla è stato «arruolato» e viene spesso utilizzato come simbolo del fronte ostile al pontificato bergogliano, soprattutto per quanto riguarda gli ambiti politici e teologici, mentre Francesco ha rispedito più volte al mittente questa contrapposizione.

Non riesco a comprendere se questa mossa editoriale sia una intelligente e improvvisa apertura di porta verso coloro che danno le spallate o se rappresenti il solito tira e molla vaticano mirante ad un anti-evangelico vogliamoci bene. Non invidio papa Francesco costretto a destreggiarsi in questo clima. Spero non sacrifichi, in nome della mera continuità, le giuste discontinuità che ha lasciato intendere suscitando tante aspettative interne ed esterne alla Chiesa. Penso sia consapevole della forza che gli può venire da gran parte (non tutta) della Chiesa-comunità, credo si affidi molto allo Spirito Santo (come interpretare diversamente i continui appelli alla preghiera pro domo sua), auspico che riesca a plasmare o almeno a ritoccare la Chiesa- istituzione. Starà cercando il compromesso al più alto livello possibile? Gesù di compromessi non ne fece nel modo più assoluto. Lo uccisero, ma Lui risorse più bello e più rivoluzionario che pria. Non pretendo la vocazione al martirio di papa Francesco, ma che, Vangelo alla mano, resti un pochettino rivoluzionario o almeno discontinuo.

Il jazz, musica da Camera

Non sono un cultore della psicologia e lasciamo perdere il fatto se gli psicologi meritino o meno l’attenzione che l’attuale società sta loro riservando. Se posso dire la mia, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (no scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Questa volta tuttavia, mi cospargo il capo di cenere e riporto quanto scrive la psicologa Brunella Gasperini: “Dovremmo imparare a improvvisare nella nostra vita, come fanno i musicisti jazz: inventare sul momento, intraprendere percorsi spontanei che spaziano e sorprendono, vanno oltre la rassicurante partitura, escono dai soliti percorsi. Che riescono bene proprio quando non sono pensati ma lasciati liberi di seguire le sensazioni del momento. Dovremmo “diventare jazzisti” per la nostra evoluzione personale. Immediati, spontanei, intuitivi. Accordati con il nostro mondo sommerso, intonati al nostro istinto, quell’insieme di emozioni, spinte, passioni, informazioni che sa molto di noi, dei bisogni e dei desideri. Che può indicarci la direzione per realizzarci. Perché tendiamo a essere soprattutto esecutori nella vita, spesso anche bravi, senza riuscire però a spingerci oltre lo spartito, uscire dal tema in modo creativo. Schiacciati da strati smisurati di logica, conformismo, razionalità. Viviamo in una cultura che non ci aiuta, in questo, che esalta la mente matematica e organizzata, che ritiene la ragione superiore a tutto e l’emotività solo un insieme di aspetti da contenere”.

Questo lungo preambolo mi serve per apprezzare la stizzita reazione di Nancy Pelosi, la speaker della Camera Usa, al terzo discorso sullo stato dell’Unione tenuto dal presidente Donald Trump. Nessuna stretta di mano, poco prima dell’inizio del discorso con la terza carica dello Stato, che a sua volta aveva accolto Trump nell’aula della Camera senza ricorrere alla consueta formula “è un mio onore e privilegio introdurre il presidente degli Stati Uniti”. Non solo. Pelosi è stata inquadrata mentre con un gesto di stizza strappa la copia del discorso che le era stata consegnata dal presidente. Tagliente il suo commento riportato dai media Usa: “L’ho strappata? È stata la cosa più cortese, considerando quali potevano essere le alternative”.

Da quanto ho potuto capire il presidente Trump ha inanellato una lunga e insopportabile serie di sparate demagogiche e trionfalistiche, dipingendo gli Usa come il paese dei balocchi e trattando gli americani e i cittadini del mondo come se fossero degli allocchi. Bella e coraggiosa la reazione di Nancy Pelosi, così come prefigurato dall’analisi psicologica di cui sopra. Si è sempre discusso, peraltro in tono maschilista, della istintività femminile contrapposta alla razionalità maschile: niente di scientifico e tutto di sessismo fallocratico. Alla (ir)razionale ovazione di consenso parlamentare verso le vomitevoli analisi trumpiane preferisco di gran lunga l’emozionale e clamoroso dissenso del vertice istituzionale camerale.

Il mondo sta prendendo una brutta piega: l’orchestra è diretta sulla base di una partitura inquietante e con un piglio assurdamente e sostanzialmente antidemocratico e reazionario. Quindi mi sembra molto opportuno l’invito a “diventare jazzisti”, ad adottare una musica d’urto, che scuota le menti e infiammi i cuori. Pur con tutte le cautele del caso, servirebbe una “sardinizzazione” a livello statunitense e mondiale: purtroppo negli Usa i democratici sono imbambolati e paralizzati, giocano a fare gli sparring partner di Trump. Sveglia ragazzi, perché qui stiamo andando tutti a puttane! Con tutto il rispetto per le puttane e tutto il disprezzo per Trump!

Il pelo del consenso e il vizio della “sloganizzazione”

“Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”: così recita l’articolo 95 della Costituzione. Giuseppe Conte sta esercitando questi compiti con grande serietà e crescente capacità. Basterà per dare compattezza e continuità all’azione di governo, al di là dei cronoprogrammi che lasciano il tempo che trovano? Sarà sufficiente per colmare le incertezze dei partiti di maggioranza e superare i loro contenziosi?

L’attuale governo, oltre le difficoltà oggettive dell’affrontare i problemi sul tappeto,  oltre  la defatigante ricerca di un compromesso su molte materie del contendere, si trova a fare i conti con una situazione (quasi) paradossale: l’urgenza di cambiare stile, passo e contenuti, avendo però, quale maggiore (sul piano numerico) forza politica su cui basarsi, il M5S, che dovrebbe cambiare in larga parte se stesso (una terza forza calante nel suo velleitario non essere né di destra né di sinistra), il suo modo di fare politica (un populismo informatico che rischia di rimanere senza popolo), il suo programma (una testarda serie di obiettivi demagogici).

L’arte di governare consiste, come del resto succede in tutte le umane convivenze, anche e soprattutto nel trovare compromessi ai più alti livelli: Conte ci sta provando con indubbia abilità e gliene va dato atto. Il compromesso necessità però, a monte, di chiarezza di idee e di capacità di dialogo in capo ai partner. Non vedo né l’una né l’altra. Il partito democratico porta soltanto molta pazienza, ma non è in grado di mettere alle corde gli sfuggevoli grillini. I pentastellati continuano come se niente fosse successo, come se non avessero la brutta macchia di un’esperienza governativa con la Lega, come se non vedessero i loro consensi in caduta libera, come se i loro pallini governativi non fossero andati a pallino.

I cinque stelle non hanno capito che la gente non li sopporta più nella loro stucchevole smania di cambiare il mondo politico: sono riusciti in poco tempo a perdere consensi a raffica persino laddove, come in Calabria, hanno distribuito a piene mani il reddito di cittadinanza. Volendo estremizzare i discorsi al fine di “disloganizzare” la politica, devono convincersi che i problemi della giustizia non si risolvono allungando i tempi per la prescrizione, i problemi della mancanza di lavoro non si risolvono con una mancia elargita ai poveri diavoli, il problema della manutenzione e gestione delle infrastrutture stradali non si risolve con la revoca della concessione ai Benetton, i problemi della produttività e funzionalità del Parlamento non si risolvono diminuendo gli emolumenti e il numero dei parlamentari. E, in men che non si dica, si perdono anche i voti. Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

I grillini, ammesso e non concesso che possano ancora chiamarsi così, devono avere il coraggio di cambiare pelle e carne. Finirla con la rivendicazione di un’assurda continuità, che non può esistere, smetterla col mero riciclaggio dei vaffa, che nel frattempo hanno perso incisività e credibilità, dare un taglio alla presunzione da primi della classe, perché la gente li sta retrocedendo a ruoli molto più anonimi e defilati, azzerare in larga parte una finta classe dirigente inadeguata e indifendibile. Non basta che la rapa diventi una pallida oliva per la quale non si può delirare. Non bastano i doppi salti mortali di Giuseppe Conte col rischio, alla lunga di sfracellarsi. Non basta la paura di andare al voto e di consegnare l’Italia ad una destra rissosa, penosa e pericolosa. Non ci si può permettere di temporeggiare in attesa che i grillini muoiano di morte naturale.

Qualcuno, un po’ ottimisticamente, vede il M5S incamminato verso un partito del 13-14 per cento (mi sembra lontano da questo obiettivo), capace, come il Psi di Craxi, di essere decisivo, ricattando a destra e manca (Grillo di Tacco). Se fosse così, spererei che il PD non si ispiri al CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) di infausta memoria, per fare magari un CAZ (Conte, Appendino, Zingaretti).

 

Prescrizione lunga e (non) seguitate

In Italia, diceva Vittorio Zucconi, il grande giornalista prestato per qualche tempo alla politica, si vogliono i servizi segreti pubblici. Siamo cioè il Paese del paradosso e “ci divertiamo” ad affrontare i problemi in questa chiave. Anche il dibattito sul tormentone della prescrizione ne risente.

Bisogna varare prima possibile la riforma del processo penale che accelera i tempi delle indagini preliminari e dei procedimenti. Il motivo? Con la riforma della prescrizione, in vigore dal 1° gennaio del 2020, aumenterà il carico di lavoro della corte di Cassazione. Lo ha detto il Primo presidente della Suprema corte Giovanni Mammone nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, presso la corte di Cassazione alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Mammone ha spiegato cosa succederà con la riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio se l’esecutivo non dovesse approvare in tempi stretti la riforma del processo penale. “Nel momento in cui sul dato delle prescrizioni non ha ancora inciso la disciplina della sospensione dopo la sentenza di primo grado, è utile evidenziare quali conseguenze potrebbero derivare da tale innovazione al giudizio di legittimità, una volta entrata a regime e perciò non prima di cinque anni, tale essendo il termine di prescrizione per i reati contravvenzionali puniti in modo meno grave”, ha detto il presidente della Suprema corte. “Accanto ad un’auspicabile riduzione delle pendenze in grado di appello derivante dall’attesa diminuzione delle impugnazioni meramente dilatorie, si prospetta un incremento del carico di lavoro della Corte di cassazione di circa 20.000-25.000 processi per anno, corrispondente al quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado. Ne deriverebbe un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato, nonostante l’efficienza delle Sezioni penali della Corte di cassazione, le quali definiscono già attualmente circa 50.000 procedimenti annui. Risulta, pertanto, necessario porre allo studio e attuare le più opportune soluzioni normative, strutturali e organizzative tali da scongiurare la prevedibile crisi che ne deriverebbe al giudizio di legittimità, ha spiegato Mammone.

Cosa vuol dire tutto ciò? Che la struttura giudiziaria è tarata sul numero dei processi al netto della inevitabile prescrizione e non tenendo conto che tutti i processi potrebbero arrivare all’ultimo grado di giudizio. Mi sovviene quanto diceva un mio carissimo collega esperto in materia fiscale: per mettere in crisi la macchina dei controlli basterebbe inondare la struttura pubblica di dichiarazioni dei redditi fasulle. Per mettere in gravissima difficoltà la Cassazione basta aprire il rubinetto dell’allungamento dei tempi della prescrizione. In pratica il sistema giudiziario è fondato sulla propria inefficienza, che manda in prescrizione i procedimenti e lascia respirare i tribunali e le corti, quella di Cassazione in particolare.

L’uovo di Colombo, che tutti vedono ma nessuno pratica, consiste nella ragionevole durata del processo: se i processi fossero più veloci si starebbe nei tempi e il discorso della prescrizione si sgonfierebbe. D’accordo, ma il rischio intasamento dei livelli più elevati rimarrebbe comunque. Quindi torniamo al gatto che si morde la coda, a meno che il potenziamento strutturale non sia tale da mettere in grado la giustizia di giudicare tutti in fretta, sperando che la fretta non sia cattiva “sentenziera”.

Una cosa è certa, e il M5S se la deve mettere bene in testa: non basta allungare i tempi della prescrizione per costringere la giustizia a funzionare e tanto meno ad assicurare alla giustizia i colpevoli. Della serie “è arrivato un altro delinquente, prescrizione lunga e seguitate”. La prescrizione risponde ad un principio costituzionale che, come tutti i principi e i diritti, può essere abusato: non per questo si giustificano le limitazioni dei diritti. È una logica pericolosissima che, portata all’eccesso, finisce col calpestare lo stato di diritto a favore della ragion di stato. Il dissesto idrogeologico non si risolve solo a valle alzando e rinforzando gli argini, ma a monte rispettando la morfologia del terreno. Il discorso vale anche per il funzionamento della macchina giudiziaria.

Il dibattito, dal livello governativo a quello parlamentare, dalla magistratura all’avvocatura, dalla dottrina al giornalismo, si sta avvitando su se stesso, radicalizzando sui massimi principi, abbassando sulle strumentalizzazioni politiche e sulle istanze corporative: sempre meglio la guerra della discussione che la pace dei sepolcri. Tuttavia un po’ più di serenità non guasterebbe.

Sì, perché, alla fine, la scuola la fanno gli insegnanti, la sanità la fanno i medici, la cucina la fanno i cuochi e la giustizia la fanno i giudici: tutto il resto è un contorno importante, essenziale, ma non decisivo. C’è troppa confusione nella cucina giudiziaria: nei ristoranti che si rispettano, c’è il viavai dei camerieri che gridano le ordinazioni, ci sono i pentolini e i pentoloni che bollono, gli sguatteri che sbucciano le patate, ma tutto dipende dal carisma dello chef. Possiamo avere una legislazione (quasi) perfetta, un ministro all’altezza del compito, tutti i computer possibili e immaginabili, tutti i migliori cancellieri ed uscieri, tutti i più bravi avvocati del mondo, se incappiamo in un giudice che non sa o non vuole fare il proprio mestiere… Non ci aiuterà la prescrizione, lunga o breve che sia.

 

Il mio ruspante antifascismo a prova di revisionismo

Se la storia è la concatenazione di fatti, comporta in sé la conseguenza di rivedere continuamente i propri giudizi alla luce delle novità emergenti. Non si tratta di senno del poi, ma di riesame critico alla luce delle verità del passato e delle situazioni presenti. La morte di Giampaolo Pansa ha scatenato la polemica sul revisionismo.

Parto, come spesso mi accade, dall’eredità culturale a livello familiare. Mio padre mi ha trasmesso una concezione inossidabile dell’antifascismo. Innanzitutto in quanto l’antifascismo era parte integrante e fondamentale della sua vita, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Su questo non si poteva discutere: quando mia madre timidamente osava affermare che però Mussolini aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare.

In secondo luogo perché resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär“.

Tutto ciò non vuol dire santificare acriticamente la resistenza e i partigiani: anche per loro in mezzo a tante luci esistono delle ombre. Negare le ombre non vuol dire vedere meglio le luci, anzi. Ho letto diversi libri di Pansa su questa delicata materia. Ero partito con qualche pregiudizio, ma, strada facendo, l’ho superato e non ho trovato una denigrazione del movimento resistenziale, ma una sua rilettura critica alla luce di certe indubbie degenerazioni ideologiche e comportamentali. Ne sono uscito arricchito e niente affatto sconvolto.

Leggo quindi con sconcerto quanto scrive Tomaso Montanari su Micro Mega: “Pansa è stato uno dei più efficaci autori dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla “guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel grande schermo». E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «In generale l’Italia sta cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno. C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano revisionismo storico»”. Se Montanari voleva dire che non si dovrebbe scherzare col fuoco del revisionismo, sono d’accordo. Se voleva dire che forse Pansa si è lasciato trascinare in un vortice critico, rischiando pure lui di fare d’ogni erba un fascio, può darsi abbia ragione. Se voleva lanciare un appello alla cautela e alla prudenza per evitare di portare acqua al mulino della legittimazione del neofascismo, posso concordare. Non mi sento tuttavia di catalogare tout court Giampaolo Pansa tra gli amici del giaguaro della nostra storia.

Ho atteso con grande interesse l’uscita del film sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, quale coraggiosa reazione alla messa fuorilegge disposta da Mussolini dopo alcuni anni dalla sua salita al potere. È fortunatamente in atto la riscoperta di questo movimento, a cui convintamente ed operosamente aderì mio zio, don Ennio Bonati. Il film è indubbiamente un’ammirevole ricostruzione romanzata di una fase della vita dello scoutismo italiano, impegnato nell’antifascismo quale scelta esistenziale ed etica prima che politica. Il film è bello: un’occasione per conoscere e rinverdire la storia dello scoutismo anche e soprattutto nella sua generosa e coraggiosa azione antifascista e nel salvataggio delle vittime della violenza, da qualsiasi parte e in qualsiasi momento venisse. Il punto è questo: una parte di chi aveva combattuto il fascismo non è riuscito a deporre le armi, ma si è fatto trascinare in un’opera di giustizialismo spicciolo e sbrigativo, che, se da una parte può essere comprensibile, dall’altra ha innescato una spirale di inutile violenza finendo nel colpevolizzare degli innocenti e creare ulteriori vittime. Questo non toglie niente ai valori dell’antifascismo, ma chiede un supplemento di analisi critica sul post-fascismo. Se questo vuol dire revisionismo, mi sta benissimo.

Così come è sacrosanto ammettere come dal punto di vista ideologico l’antifascismo abbia dovuto fare i conti con l’incombente macigno comunista. Il dopoguerra ha vissuto, fortunatamente in modo pacifico, il duro scontro fra l’opzione per l’impostazione democratica di stampo occidentale e il riferimento alla democrazia di tipo sovietico. La storia ha dato ragione ad una parte senza bisogno di criminalizzare l’altra: questo è il dato caratteristico dello stile democratico. Sbagliava indubbiamente chi riteneva che l’antifascismo dovesse approdare ad un sistema comunista.  Se questo vuol dire revisionismo, mi sta benissimo.

Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito). Mi sia permessa una caustica riflessione: forse costruivamo dal basso, senza saperlo, il vero partito democratico, molto più di quanto stiano facendo dall’alto gli attuali aspiranti leader. Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Lasciatemi ricordare con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente. Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da questa convinta e costante ricerca del dialogo, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi. Questo vuol dire antifascismo a prova di revisionismo.

 

 

 

 

Il penoso valzer del nazionalismo

La Brexit è compiuta, almeno a livello istituzionale. Staremo a vedere la sua concretizzazione e ne valuteremo le conseguenze. Per ora mi basta e avanza osservare in lontananza le reazioni.

Il 29 gennaio 2020 la Brexit, ha avuto via libera del Parlamento Ue: gli eurodeputati cantano commossi la canzone della fratellanza. Gli eurodeputati si sono alzati in piedi per cantare il Valzer delle candele (“Auld Lang Syne”), la tradizionale canzone scozzese che viene cantata nella notte di capodanno per dare addio al vecchio anno e in occasione dei congedi, delle separazioni e degli addii. “Auld Lang Syne” è considerata la canzone della fratellanza. Il testo è un invito a ricordare con gratitudine i vecchi amici e il tempo passato insieme. In Francia è conosciuta con il titolo “Ce n’est qu’un au revoir”. Quindi c’era tanta tristezza negli europarlamentari britannici, non in tutti però.

Infatti Nigel Farage si è presentato al Parlamento Europeo con dei calzini con la Union Jack, la bandiera del Regno Unito. L’europarlamentare euroscettico, fautore della Brexit e fondatore del Brexit Party, ha mostrato orgogliosamente i calzini agli altri deputati: “Voglio che la Brexit porti a un dibattito in tutta l’Europa. Noi adoriamo l’Europa, ma odiamo l’Unione europea, spero che questo sia inizia della fine di questo progetto che non funziona ed è antidemocratico” sostiene Farage, prima di sventolare delle bandierine del Regno Unito insieme agli altri deputati, come bambini a una festa di compleanno.

Nigel Farage, da europarlamentare, ha voluto parlare chiaro anche nel suo ultimo giorno a Strasburgo. Ha affermato nuovamente la sua contrarietà all’Unione europea augurandosi un veloce smantellamento del sistema di Bruxelles e ha chiesto ad altre nazioni di seguire il Regno Unito nella missione di colpire l’Unione europea. Toni duri che hanno contraddistinti da sempre la sua campagna e che contrastano con il dolore di quei deputati britannici che invece hanno da sempre sostenuto il Remain.

Mentre il premier Boris Johnson ostenta goffamente soddisfazione, la gente ha prevalentemente reagito all’inglese, soffocando le emozioni sotto una coltre di impassibilità. Così la maggior parte dei britannici sta affrontando il momento storico in cui il paese scivolerà via dall’Unione europea. In Parliament Square e nelle altre piazze del paese si riuniranno i più appassionati: chi festeggia da una parte e chi ci tiene a far sentire la propria voce dissenziente per un’ultima volta, prima che il sipario sui quarantasette anni comunitari di Londra cali.

Che strano Paese! Ha fatto, nel bene e nel male, la storia del mondo. Di questi tempi si è arrogata addirittura il diritto di mettere indietro le lancette dell’orologio. Sono ultrasicuro che la storia gli darà torto marcio: non si può andare avanti nella divisione, il progresso richiede unità e collaborazione. Mettiamocelo bene in testa. Con l’orgoglio e l’egoismo nazionalista non si va da nessuna parte, anzi si va in malora. Evviva l’Europa Unita, evviva l’Unione Europea! Meglio uniti con parecchi difetti che separati con l’illusione di essere perfetti… Speriamo che almeno chi ha cantato il valzer delle candele abbia il coraggio di tenerle accese e chissà che in prospettiva, a lume di candela, si possa celebrare una cena di riconciliazione. Speriamo. La storia a volte impone delle veloci virate. Basta poco per cambiarne il corso. Auguriamoci che i ripensamenti non avvengano a furore di coronavirus.