Il trucco non serve alle facce di tolla

Mia sorella era grande ammiratrice di Indro Montanelli, non per le sue idee politiche, ma per il suo approccio ai fatti e soprattutto alle persone. Quindi, quando apparve in prima battuta sulla scena fiorentina Matteo Renzi con tutto il suo profluvio di ambiziose e bellicose mire, andò a prestito dal criterio sbrigativo suggerito dal grande giornalista per giudicare le persone: “guardategli la faccia…”. E infatti mia sorella d’acchito sentenziò riguardo a Renzi: «Che facia da stuppid!». Non ebbe purtroppo tempo di vederne la scalata ai massimi livelli del partito e del governo e quindi non sono in grado di sapere cosa ne avrebbe pensato in seguito e cosa ne penserebbe oggi.

Io fui stranamente, fin dall’inizio, assai più possibilista e tentai di apprezzarne il piglio decisionista, perdonandogli la evidente e spregiudicata ansia di potere nonché la riprovevole scorrettezza nei rapporti con i colleghi a tutti i livelli. La pur breve fase governativa renziana mostrava non pochi aspetti interessanti di novità e di cambiamento. Poi, strada facendo, l’esagerazione nel personalizzare e generalizzare la spinta riformista, la chiusura nel guscio della propria cerchia di pochi e discutibili eletti, l’incapacità di tenersi collegato al territorio trascurandone la classe dirigente, la narcisistica, logorroica e irrefrenabile ricerca del consenso, la smisurata autostima e la pericolosa disistima verso gli altri hanno fatto esplodere il pallone gonfiato. Ci rimasi male, molto male, gli avevo concesso consenso e voto e mi trovavo molto deluso.

Da quando è uscito dalla scena governativa Matteo Renzi non ne ha più imbroccata una, dando libero sfogo ai suoi peggiori difetti. È costantemente alla ricerca di una ribalta fine a se stessa, ha perso il controllo e mi stupisce che tanti (per la verità pochi e non buoni) lo seguano, intestardendosi a considerarlo un leader, quando in realtà e leader solo ed unicamente di se stesso.

L’ultima apparizione a Porta a Porta, tribuna ideale per chi vuole stupire col nulla, ha portato il vaso al massimo della pienezza: ha detto tutto e il suo contrario. Da rottamatore di provata esperienza a sindaco d’Italia di velleitaria prospettiva; da dinamitardo antigovernativo a riformatore istituzionale; da uomo di parte a uomo al di sopra delle parti; da politicante a stratega, da anticontiano a vittima contiana; da pannolone assorbente a crema repellente. E non è ancora finita. Ogni giorno una polemica vecchia di zecca. Ogni occasione è buona per sparigliare le carte e cominciare un gioco nuovo.

Posso essere stanco? Tutti i media lo prendono in considerazione e mi costringono a seguirlo nel suo assurdo tourbillon politico: parla, parla, parla…Basta! Un po’ di protagonismo ci vuole, ma tutto dovrebbe avere un limite. Non mi sento più nemmeno di valutare le sue cangianti proposte. Lo lascino dire e se avrà qualche seguito, ne riparleremo. Due deputati, una proveniente da Liberi e uguali, l’altro dal Pd, hanno portato la consistenza dei gruppi parlamentari di Italia viva rispettivamente a 30 deputati e 18 senatori. Poca roba, sufficiente però a creare scompiglio e confusione. Il problema è che Renzi non vuole (per furbizia) e non può (per ostacoli procedurali e tempi istituzionali) puntare ad elezioni politiche anticipate e ravvicinate, quindi tende a tenere a bagnomaria governo e parlamento collocandoli sopra la sua pentola in continua ebollizione.

Non è l’unico politico che concepisce la politica solo in funzione della sua protagonistica presenza. All’inizio ci si può anche cascare, poi… Sono sicuro che, se oggi, a distanza di parecchio tempo, chiedessi a mia sorella un giudizio su Matteo Renzi, mi risponderebbe alla sua maniera: «Non mi ero sbagliata, aveva ragione Montanelli, quando uno ha la faccia da stupido purtroppo col tempo si rivela tale”. Giudizio politico s’intende!  Non mi permetterei mai e poi mai di parlare male della persona: ci sta pensando già lui a parlare.

I pappagalli nazifascisti

Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così). Era uno dei banali, ma eloquenti esempi della prepotenza del regime fascista: erano pillole che mio padre mi somministrava quando ero bambino e curiosavo nei meandri della storia recente.

Si è perso il conto, in questo periodo, degli episodi inerenti scritte inneggianti al nazifascismo apposte un po’ dappertutto, su monumenti, all’ingresso di abitazioni di persone le cui origini risalgono alla lotta partigiana e finanche alla deportazione nei campi di sterminio: una vera e propria gara tra negazionismi e rivalutazioni dei regimi più abbietti che la storia italiana e mondiale abbiano conosciuto e patito a prezzo carissimo.

Questi fattaci vengono sbrigativamente classificati come ragazzate o come goliardici esibizionismi: può darsi ci sia una simile feccia nei bicchieri di certe persone giovani e meno giovani. Il fascismo a chi osava dissentire anche minimamente o indirettamente dai suoi ordini di scuderia propinava, nella migliore delle ipotesi, abbondanti dosi di olio di ricino oppure, in un crescendo mussoliniano, ritorsioni pesanti a livello lavorativo, botte da orbi, torture, prigione, confino, massacri veri e propri. Non si andava per il sottile, gli “stangatori” erano all’opera: spesso si trattava di poveri diavoli assoldati dal regime per queste operazioni di pulizia contro altri poveri diavoli che osavano indossare, fisicamente, mentalmente, culturalmente o politicamente, una camicia di colore diverso.

La tentazione di ripagare questi imbecilli di ritorno con la stessa moneta potrebbe essere forte: se non che “occhio per occhio, dente per dente” non produce nulla di positivo. Sarebbe interessante riuscire ad individuare questi nostalgici graffitari da sottoporre ad una cura riabilitativa, che prevedesse la rimozione da parte loro dei “capolavori” della pura follia politica? Capirebbero qualcosa in più?  Ho seri dubbi. Un tempo le forze dell’ordine contro certa delinquenza di strada non andavano per il sottile: portavano i trasgressori in caserma e giù con una mano di bianco. Erano pessimi retaggi di regime: la medicina peggio della malattia.

A monte esistono seri problemi: di ignoranza, di clima socio-politico, di tolleranza pelosa. Vado brevemente con ordine. Mi ritengo fortunato per avere avuto un padre che mi ha semplicemente ma efficacemente spiegato cos’era il nazifascismo e cos’è la democrazia. Non ha aspettato che lo imparassi a scuola, si è impegnato ed esposto in prima persona fin dalla mia prima fanciullezza. Tuttavia il sistema scolastico, a tutti i livelli, è stato ed è carente al riguardo: è vero che quanto si apprende a scuola spesso entra da un orecchio ed esce dall’altro, ma se non ci si prova nemmeno…

C’è poco da dire, il clima politico è così confuso se non addirittura implicato in certi subdoli revival da creare un perfido brodo di coltura per far tornare a galla certi disvalori riscoperti quali scorciatoie per sistemare i rapporti nel disordine culturale e sociale. Non mi sforzo di fare esempi perché sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. Mi permetto solo di porre una domanda retorica: in un paese dove l’ex ministro degli Interni, pretendente ad assumere pieni poteri, si permette di imbrattare verbalmente il citofono di un cittadino dando corda a illazioni ed operando una sorta di giustizia sommaria a livello di contrada, c’è da stupirsi se qualcuno si sente autorizzato ad imbrattare fisicamente il citofono di un cittadino di origine ebraica o di un ex partigiano?

Poi viene la tolleranza di chi alza le spalle, di chi ci ride sopra, di chi sdrammatizza, di chi sottovaluta adottando il metro benaltristico. L’indifferenza, la peggiore delle nostre attuali malattie a livello psicologico (muore il vicino di case e chi lo conosce… e chi se ne frega…), a livello sociale (i diversi, gli stranieri, gli emarginati non rompessero i coglioni…), a livello politico (facciamoci i fatti nostri visto che tutti se li fanno…). E se provassimo a ragionare seriamente, sul passato, sul presente e sul futuro?

 

 

 

 

 

 

 

Il folle orgoglio del brigatista.

“Meglio avere mani sporche di sangue ma provarci”. Questa frase è stata pronunciata dall’ex brigatista Raimondo Etro nel corso della trasmissione “Non è l’Arena”, in onda su La7. Etro, 63 anni, è stato condannato a 20 anni e sei mesi di carcere per il rapimento del presidente della Dc Aldo Moro e nel 2019 è tornato al centro dell’attenzione mediatica per avere chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza. L’affermazione di Etro in studio ha scatenato l’indignazione degli altri ospiti del programma, tra cui il giornalista Luca Telese e Daniela Santanchè: “E’ inaccettabile, o chiede scusa oppure ce ne andiamo”, ha detto la parlamentare di Fratelli d’Italia in collegamento video. “Lo faccia”, ha risposto ironicamente Etro, che ha anche aggiunto: “Scusa il cazzo”. Giletti, a quel punto, lo ha invitato ad abbandonare lo studio: “Mi dispiace ma questa frase è inaccettabile, quella è la porta”.

Penso di avere capito cosa intendesse dire l’ex brigatista.  Mi sono sempre chiesto, con grande inquietudine, quali fossero le motivazioni profonde dei terroristi rossi, che in gran parte, molto probabilmente, erano persone in buona fede (?). Lo avrà loro chiesto sicuramente anche Aldo Moro, durante la sua prigionia ed avrà tentato anche di dialogare con i suoi carcerieri: tentativo fallito, perché, quando la lotta politica diventa una sanguinaria follia, non c’è più niente da discutere. Raimondo Etro ha confessato qual era la pulsione in base alla quale è arrivato a commettere dei reati gravissimi: lo ha fatto in nome di un’idea in cui credeva, ci ha provato, come ha detto a posteriori. Il dopo-follia è altra e ancor più grave follia! La frase pronunciata ha un avverbio di troppo: meglio.

Potrei accettare una frase diversa: “Ho provato a realizzare il mio ideale con la violenza, mi sono sporcato le mani di sangue, ho sbagliato tutto nel merito e nel metodo, chiedo umilmente perdono dopo aver pagato il mio debito con la giustizia”. Questo gli dovevano controbattere con calma e fermezza, anziché accettare la sua paradossale provocazione, trascinarlo in uno scontro stucchevole per poi cacciarlo dallo studio televisivo. Se poi, rifiutandosi volgarmente di chiedere scusa davanti alle insistenze di Daniela Santanché, intendeva dire che non accettava lezioni di democrazia da certi politici, penso non avesse tutti i torti, ma talmente grande è il suo torto da costringerlo a chinare il capo e chiedere scusa ora anche e soprattutto per allora, persino a Daniela Santanché.

La lezione veramente credibile ed autorevole a Raimondo Etro non la danno però né Telese, né la Santanché, né Giletti: la dà la storia, la dà Aldo Moro con il suo pensiero, la danno tutti coloro che, pur contestando il sistema, hanno rifiutato categoricamente la violenza rimanendone in certi casi essi stessi vittime. Proprio in questi giorni è stato celebrato il 40°’anniversario della barbara uccisione di Vittorio Bachelet da parte di brigatisi rossi. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto: “Vittorio Bachelet era convinto che nell’impegno sociale, in quello politico, in quello istituzionale, proprio attraverso il dialogo fosse possibile ricomporre le divisioni, interpretando così il senso più alto della convivenza”.

Un tempo, quando un alunno testardo e scorretto commetteva errori a ripetizione, gli si imponeva di scrivere per tante volte una reprimenda fino ad impararla a memoria. Potrebbe valere la pena che Raimondo Etro fosse sottoposto ad una simile punizione. Costretto altresì a rivedere come l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, lui che aveva fatto ricorso alla lotta armata contro il nazifascismo, fosse letteralmente sconvolto per i terribili atti del terrorismo brigatista e come il giovane figlio di Bachelet fosse capace di esprimere parole di perdono verso chi stava sbagliando tutto in nome di chissà quali assurdi ideali.

La prego signor Etro, se proprio non sopporta i rimbrotti degli e negli studi televisivi, parli con Giovanni Bachelet, con i famigliari delle vittime delle brigate rosse, con i figli di Aldo Moro: scavi nella storia democratica, nella Costituzione italiana e troverà seri motivi di ripensamento per la sua coscienza di cui comunque renderà conto al Padre Eterno. A lui non potrà rispondere: “Scusa il cazzo”.

 

Le sardine protestano contro l’inscatolamento di Zaki

Gli studenti, da che mondo è mondo, sono sempre stati in prima linea nelle battaglie contro i regimi autoritari di destra e di sinistra. La loro età, i loro strumenti culturali, il loro entusiasmo, il loro coraggio li portano a ribellarsi e quindi ad esporsi a gravi rischi di repressione personale e sociale. La regola è confermata dal recente caso di Patrick George Zaki, il ragazzo egiziano studente a Bologna arrestato al Cairo.

Come scrive “Il fatto quotidiano”, il team difensivo di Patrick George Zaki è passato al contrattacco, dopo che il tribunale del riesame di Mansoura ha respinto la richiesta di scarcerazione, e denuncia ufficialmente le torture da parte della sicurezza egiziana nei confronti dello studente dell’università di Bologna. E proprio per stabilire la verità sull’arresto, si chiede l’acquisizione dei filmati di sicurezza dell’aeroporto del Cairo nella giornata del 7 febbraio scorso, quando lo studente è stato fermato dagli uomini di Abdel Fattah al-Sisi. Una mossa che ha permesso loro di entrare in possesso delle accuse ufficiali, messe nero su bianco sul verbale di fermo, mosse nei confronti dello studente: “Tentativo di rovesciare il regime”, “uso dei social media per danneggiare la sicurezza nazionale, propaganda per i gruppi terroristici e uso della violenza”. Inoltre, nelle due pagine si trova anche la smentita del Cairo alle accuse di tortura avanzate da più parti e la richiesta ai media di non diffondere informazioni in contrasto con quelle ufficiali. Tutto come da solito copione.

Dalla piazza romana delle sardine è venuta una forte protesta: i quattro fondatori bolognesi all’ultimo minuto hanno dato forfait perché bloccati a Bologna, a preparare con l’ateneo una manifestazione in sostegno del giovane. «Di Maio era vergognosamente qui a farsi i selfie mentre ogni ora che passa Patrick è nelle mani dei suoi torturatori e l’Italia perde l’occasione di essere capofila in difesa dei diritti umani», attacca Donnoli: «si fanno prevalere gli interessi commerciali». Un attacco violentissimo al ministro degli Esteri: «Gli chiediamo di ritirare il nostro ambasciatore e lavorare perché lo facciano anche gli altri Paesi democratici, e che si attivi a dichiarare l’Egitto Paese non sicuro».

In questi casi rispunta sempre la dicotomia tra la difesa dello stato di diritto e il ripiegamento sulla ragion di stato. Diventa poi oltre modo difficile coniugare la fermezza della protesta con la morbidezza della diplomazia. Sono portato istintivamente, anche se non sono affatto giovane, a schierarmi a favore di una linea decisamente forte e chiara. La storia insegna che le vie troppo diplomatiche hanno creato autentici disastri ai danni della democrazia. Si stanno alzando voci di condanna verso i comportamenti antidemocratici di questo Paese, anche considerando i precedenti della gravissima vicenda della morte in Egitto del giovane ricercatore Giulio Regeni.

Attenti però a non farne una questione di polemica politica di carattere interno, solo una occasione di attacco contro il pur penoso ministro degli Esteri, il grillino Luigi Di Maio, tutto intento alle proprie tattiche movimentiste più che alla difesa della dignità nazionale. Capisco perfettamente l’ansia distintiva delle piazze sardine rispetto a quelle grilline e la volontà di allargare la visuale critica, fino ad ora troppo schiacciata su Matteo Salvini e la sua Lega, per arrivare a chiedere che destra e sinistra cambino strada. Se i decreti sicurezza targati Matteo Salvini «vanno abrogati», il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è «indecente» e anche il Pd ha la sua parte di colpe per il memorandum Italia-Libia che è una vergogna.

Ho la netta impressione che le sardine urlino in piazza ciò che il popolo di sinistra pensa da tempo. Governare però è qualcosa di diverso e di molto più problematico: ciò non toglie che il partito democratico debba accettare la sfida e che le sardine debbano dialogare dignitosamente col PD. E con chi dovrebbero confrontarsi, se non col PD. I furbetti intravedono il movimento delle sardine come una costola barricadiera del PD e le sardine più barricadiere temono di essere strumentalizzate dal PD. Lasciamo che ognuno faccia il proprio mestiere: mi sembra presto per fare una sintesi. Intanto proviamo a fare qualcosa per Zaki, anche se dobbiamo ricordare che le battaglie per la libertà non sono passeggiate e chiedono purtroppo di mettere a repentaglio anche la stessa vita. Contestare i regimi dittatoriali, più o meno camuffati, non è uno sport, è una testimonianza durissima a cui tutti dobbiamo partecipare nei limiti del possibile, facendo magari anche un pensierino all’impossibile.

L’infanzia abbandonata

Durante la mia fanciullezza giocavo in cortile con alcuni miei coetanei abitanti nel condominio: pallonate contro i garage che fungevano da ipotetiche porte del campo, grida, litigi, etc. etc. Fortunatamente a quell’epoca quasi tutte le famiglie avevano figli che si sfogavano nelle aree cortilizie: eravamo ancora piccoli per andare in un campetto di periferia. Arrecavamo indubbiamente qualche (?) disturbo agli abitanti del palazzo. Uno, in particolare, persona buona ma pignola, che, guarda caso, non aveva figli, si lamentava parecchio. Veniva addirittura a parlare con mio padre di sera, magari all’ora di cena. Si sentiva suonare il campanello e scattava l’allarme: era il signor…che veniva a reclamare la fine della ricreazione. Mio padre non si scomponeva, lo accoglieva con simpatia e col suo impeccabile humor alla parmigiana; come si faceva un tempo, gli offriva da bere, lo coinvolgeva in un’allegra chiacchierata prima di arrivare al dunque: «Co’ gh’ volol fär, me fjól  a n’al pos miga ligär in ca, al gh’à diritt ‘d zugär. Al vedrà che quand al gh’arà la sò etè al ne zugrà pu». Poi dopo aver stemperato il clima lanciava un simpatico affondo: «Po, ch’al staga aténti che chi ragas chi, si se stuffon, igh zbuzisson il gommi d’la machina…». Risata…un secondo bicchiere…una stretta di mano…una sana e realistica raccomandazione a gridare un po’ meno durante il gioco in cortile.

Ebbene anche a Palermo sta succedendo qualcosa di simile, ma assai più spiacevole: non si può più giocare in oratorio dopo la decisione dei magistrati di vietare l’uso del pallone nel cortile in conseguenza delle cause intentate da alcuni condomini dei palazzi limitrofi.  L’ordinanza del tribunale è infatti arrivata dopo che alcuni vicini hanno fatto causa, lamentandosi del rumore generato dai giochi dei bambini. Sullo sfondo di questo episodio, è inutile nasconderlo, si intravede indirettamente il pericolo della mafia, sempre pronta a mettere le grinfie addosso anche ai ragazzi. Mi auguro che le lamentele siano emerse in buona fede, ma bisogna avere il coraggio di contestualizzare i fatti e di affrontare le situazioni con la dovuta attenzione psicologica e sociale.

È scoppiata una rivolta gentile che ha visto l’intervento del vescovo Corrado Lorefice, il quale, dopo aver giudicato le misure come troppo restrittive, ha rivolto un caldo invito a far prevalere buonsenso e dialogo.  “L’oratorio è un luogo fondamentale per la crescita dei ragazzi, non solo spirituale, soprattutto nella nostra Palermo”, ha continuato il capo della diocesi, facendo autorevole eco al parroco, che ha sconsolatamente affermato: “Adesso l’unica alternativa è la strada”. Ad accogliere il vescovo tutta la comunità parrocchiale: i bambini, le mamme, i religiosi. “L’oratorio è un punto di riferimento per le famiglie della zona. Vederlo così senza ragazzini che giocano è triste”, dicono alcuni genitori. Il vescovo e i fedeli si sono riuniti in un’assemblea per confrontarsi su quello che è successo.

“Questo oratorio è un luogo in cui si celebra la vita in tutte le sue fasi. Non possiamo e non dobbiamo fermare le sue attività”, aggiunge il parroco, presidente dell’associazione che gestisce l’oratorio.  “Siamo pronti a dialogare per arrivare a una soluzione. In questo momento i nostri bambini hanno solo l’alternativa della strada”, ha aggiunto davanti all’arcivescovo Corrado Lorefice venuto in visita tra i fedeli, i volontari e i ragazzi.

Non è un fatto eclatante, ma, senza esagerare e fare della facile poesia, significativo di una mentalità che tende a chiudere la società: tutti parlano di denatalità e di misure per invertire la tendenza, ma poi i bambini danno fastidio e allora meglio emarginarli o, ancor peggio, confinarli in strada, laddove trovano chi è magari pronto ad accoglierli in senso deteriore. Sacrosante le parole del parroco e del vescovo. Una nuova e diversa società si costruisce partendo dai bambini: lo aveva ben capito il beato don Pino Puglisi, un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto. Così lo ha ricordato papa Francesco.

I bambini, al tempo di Gesù, non godevano di grande considerazione, essendo dei non-ancora uomini. Anzi, infastidivano i rabbini intenti a spiegare i misteri del Regno. È comprensibile, allora, il gesto rispettoso degli apostoli che temono di disturbare il Maestro il quale, invece, dimostra enorme simpatia verso i bambini: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, ponendo le mani su di loro.

Fra l’autopsia di un movimentone e l’incubatrice di un partitino

Il primo governo Conte aveva nel fianco una spina e mezzo: quella intera veniva dalla Lega, che non mancava occasione per mettere il premier di fronte a continui fatti compiuti e per scavalcarlo brutalmente; la mezza spina era quella pentastellata, preoccupata vieppiù del ruolo preminente che il presidente andava conquistando e dell’autonomia che egli riusciva a strappare. Ad un certo punto il fianco si è squarciato e ne sono usciti guai seri per i torturatori, costretti gli uni a mettere la coda fra le gambe e andare all’opposizione, gli altri a bere la tazza della discontinuità politica, mentre il torturato riusciva a spuntare una posizione migliore a livello istituzionale, in campo nazionale, europeo e mondiale.

Il secondo governo Conte continua a soffrire una situazione anomala nella sua maggioranza di governo: un partito, il M5S, che tende ad abbandonare l’aplomb partitico per riscoprire l’inquietudine movimentista, costretto a rifugiarsi nelle piazze per lavare in pubblico i panni sporchi e per attuare stucchevoli bagni purificatori rispetto alle ingombranti scorie  conseguenti alle tentennanti e contraddittorie scelte governative; un partitino nascente, Italia viva, alla spregiudicata e spasmodica ricerca di spazio politico ed elettorale  senza andare per il sottile e creando, un giorno sì e l’altro pure, grane al governo di cui fa parte ed a cui ha concesso la fiducia. Gli uni strizzano l’occhio alla piazza, gli altri all’opposizione o meglio all’elettorato moderato in parte controllato dal centro-destra. Siamo in presenza di una riedizione riveduta e scorretta del cosiddetto partito di lotta e di governo.

Paolo Pombeni, storico, politologo ed editorialista di chiara fama, nel marzo del 2017 analizzava acutamente la nascita e la presenza della paradossale natura di partito di lotta e di governo.  “Lo stereotipo del partito di lotta e di governo viene fatto risalire agli anni Settanta e alla leadership di Berlinguer che voleva avvicinare quantomeno il PCI all’area governativa senza che questo mettesse in crisi la sua immagine di formazione in lotta contro il “sistema”. In verità si tratta di quello che una volta si chiamava “doppiezza” comunista: ai tempi della fondazione del sistema repubblicano e dei governi di larga coalizione, quando Togliatti voleva l’accordo con la DC senza rinunciare al controllo delle proteste di piazza. Si potrebbe risalire ancora più indietro, per esempio alla partecipazione del partito comunista francese ai governi del Fronte Popolare nel 1936, perché sempre si presenta a sinistra il tema di come far convivere la spinta a qualche radicalismo rivoluzionario con la necessità di praticare qualche forma di gradualismo una volta che si entri nella famosa stanza dei bottoni. Anche qui, per essere realisti, bisogna aggiungere che il tema non va circoscritto ai partiti di sinistra. A suo modo il problema ce l’aveva anche la DC, che dovette più di una volta far convivere le richieste del massimalismo clericale (che portava voti) con l’esigenza di mostrare responsabilità nella gestione dei problemi concreti del paese (ciò che la legittimava rispetto alle classi dirigenti del paese). Si potrebbe aggiungere che la questione è stata endemica nel nostro paese in presenza di governi di coalizione: fosse una coalizione di centrodestra o una di centrosinistra c’era sempre una dialettica fra quel che si riteneva si potesse fare nelle stanze del Consiglio dei Ministri e quel che si riteneva doveroso richiamare imperiosamente nelle stanze delle direzioni di partito. Gli esempi si sprecano anche se hanno dato luogo necessariamente a tensioni ingovernabili solo nei momenti più aspri. Per il resto tutto veniva considerato come un normale gioco delle parti”.

Perché la riedizione la giudico scorretta? Perché totalmente priva di strategia, quale poteva essere quella pur problematica ed equivoca del partito comunista, e quindi bloccata su mere strumentalizzazioni elettoralistiche, perché lontana dalla vivacità culturale presente all’interno della logorante egemonia sistemica democristiana, perché culturalmente ben distante dal peso che i partiti di centro prima e il partito socialista poi hanno avuto nelle coalizioni di governo centriste e di centro-sinistra della prima repubblica. Tanto per fare qualche nome eloquente: non abbiamo i Moro, i Fanfani e gli Andreotti della DC, non abbiamo i La Malfa, i Saragat, i Malagodi dei partiti di centro, non abbiamo i Berlinguer del PCI. Dobbiamo fare i conti con i Di Maio e i Di Battista del M5S e con i Renzi di Italia viva. I grillini tornano a lanciare qualche vaffa rispolverando le loro battaglie più demagogiche (il taglio degli stipendi ai parlamentari e la drastica diminuzione del loro numero). I renziani si atteggiano a coscienza critica moderata rispetto al partito democratico (sulla prescrizione e sulla revoca delle convenzioni autostradali).

In mezzo a queste baruffe il premier Conte sta mediando a tempo pieno, ma si sta logorando: il gioco infatti è bello quando è corto. Le sue ultime mosse sembrano un ultimatum indirizzato a nuora (IV) perché anche suocera (M5S) intenda.  Il grosso dello scontro è fra Giuseppe Conte e Matteo Renzi. I colpi sono sempre più bassi: Renzi accusa Conte di tenere per il giaguaro di una eventuale nuova maggioranza senza Italia viva e rimpolpata dalla truppa raccogliticcia dei fuorusciti pentastellati, forzitalioti, più vari ed eventuali; Conte e il PD temono la ripetizione del siluramento lettiano (il famoso “stai sereno”) con un benservito a Conte stesso, sostituito da un esponente del partito democratico con cui fare direttamente i conti (si fa il nome di Gualtieri che darebbe garanzie di continuità verso l’UE) o da una figura istituzionale ( rispunta il nome di Mario Draghi) dietro cui nascondere la battaglia politica estrapolata dal governo.

Ho troppa stima e considerazione per il presidente della Repubblica per pensare che possa soggiacere a simili pasticci: il gioco quindi si fa duro, perché dopo il governo Conte bis non ci potrà essere un governo Conte ter o un governo tecnico-istituzionale. La parola passerebbe agli elettori in un clima pazzesco per il futuro della nostra democrazia. Confido molto nell’asse responsabile Conte-Mattarella, nella esagerata pazienza del partito democratico, nella furbizia di Beppe Grillo e nella paura delle urne (molti le vogliono, ma in realtà molti le temono anche fra quelli che fingono di volerle). Forse ci dobbiamo abituare a un governo di lotta interna e di pace esterna? Troppo difficile per essere vero!

 

 

Il bipolarismo in piazza

Sul piano politico si parla tanto e da tanto tempo di bipolarismo e di bipartitismo. Mio padre ne era un ingenuo ma convinto assertore: si chiedeva spesso perché non si potesse semplificare il sistema contrapponendo una destra ed una sinistra democratiche. A questa mancanza di chiarezza trovava una spiegazione da buon socialista senza socialismo (almeno a livello nazionale): infatti sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese.

Ma torno brevemente al punto da cui sono partito. Si definisce bipolare un sistema politico che vede la contrapposizione di due blocchi distinti; a livello nazionale essi sono rappresentati, di solito, da due coalizioni o raggruppamenti di partiti e/o movimenti, che si contendono la conquista del potere.

Per bipartitismo s’intende un sistema elettorale dove il panorama politico è dominato da solo due partiti principali, in genere a causa di un sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sull’alternanza. Un sistema bipartitico non esclude l’esistenza di altre formazioni, ma la loro presenza in Parlamento e nella vita politica del paese è fortemente minoritaria. Il bipartitismo è la versione estrema del bipolarismo dove sono presenti numerosi partiti ma contraddistinti da una forte polarizzazione tale per cui tali partiti competono divisi in due grandi coalizioni (destra-sinistra) radicalmente opposte, ove non sono presenti partiti di dimensioni e forza politica tali da egemonizzare la guida politica entro ciascuno dei due poli.

Non mi sono mai appassionato più di tanto a questi discorsi di alchimie politico-istituzionali e quindi trascuro l’ulteriore distinzione tra bipolarismo/bipartitismo perfetto e imperfetto: perfetto quando consente una netta maggioranza capace di governare, imperfetto quando ha bisogno di ulteriori patti e accordi per raggiungere una maggioranza governante.

In quale di questi sistemi si trovi la politica italiana è difficile da stabilire anche perché la situazione è in continua evoluzione. Certamente non si può parlare di bipartitismo. Quanto al bipolarismo, nell’area di centro-destra esiste un polo, anche se assai problematico, internamente competitivo, debole e frastagliato a livello di leadership: un polo senza capo, dopo l’inesorabile declino berlusconiano, davanti agli azzardi salviniani ed alle presuntuose mire meloniane, e con molte code…di paglia. Un centro-destra sempre più destra e sempre meno di centro, dove ormai si fronteggiano due destrissime che si rincorrono goffamente ma pericolosamente sul terreno del populismo e del sovranismo.

Nell’area di centro-sinistra non c’è un polo, ma un pluripartitismo molto imperfetto e rissoso: il pilone portante è il partito democratico, che non riesce però ad assorbire le contestazioni di stampo moderato né quelle di maggiore spinta a sinistra. Si parla di sinistra plurale per coprire prospetticamente una attuale confusione di indirizzi politici e programmatici.

In mezzo a questi due imperfettissimi poli esiste la piazza. Fino a poco tempo fa era monopolizzata dal M5S, che ne interpretava gli umori protestatari e anti-sistema. Oggi esiste una seconda piazza, quella delle sardine, che potremmo definire costituzionale, alla riscoperta prepolitica dei valori fondanti della nostra democrazia. Una piazza antipolitica contro una piazza prepolitica a contendersi la rappresentanza della gente, genericamente ma fondatamente in ricerca di una politica diversa da quella attuale.

Se dovessi scegliere in quale piazza collocarmi per gridare le mie aspettative e le mie richieste non esiterei a rivolgermi alle sardine: avrei modo di sfogare le mie nostalgie ideali, di riciclare le mie scelte valoriali, di trovare un filo di collegamento fra passato e presente. Ma dopo la piazza vengono le istituzioni, perché continua ad avere ragione Winston Churchill quando sosteneva che” la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”. E faccio molta fatica a trovare un idillio competitivo tra piazza e istituzioni. I grillini hanno miseramente fallito la missione. Le sardine, partendo da ben diversi presupposti, ci stanno tentando. Il grande e rimpianto Nicolò Carosio, quando presentava una partita di calcio difficile e problematica, alla fine diceva: “Sarà dura!”.

 

 

“Liftingati” e vaccinati

È il periodo dei due Matteo di cui, se posso essere scurrile, ho piene le balle! Che la politica italiana, con tutti i problemi di cui dovrebbe occuparsi, sia avvitata sui pruriti protagonistici di Salvini e Renzi è cosa a dir poco sgradevole. Che stufäda… So di fare accostamenti a dir poco paradossali, azzardati ed esagerati, ma, qualunquisticamente parlando, a volte può servire anche “fär ‘d tutt ilj erbi un fas”.

Il Matteo leghista gioca a fare il patriota, il martire, la vittima: sono mesi, per non dire anni, che riempie le istituzioni e le piazze di show, atteggiandosi a uomo della provvidenza, capace di interpretare le paure e le frustrazioni degli italiani dopo averle ispirate e coltivate. In Emilia-Romagna gli hanno consegnato il foglio di via obbligatorio e allora lui si è trasferito al Senato dove ha inscenato la commedia Gregoretti in tre atti: il primo per farsi processare, il secondo per non farsi processare, il terzo per lasciare decidere agli altri visto che comunque avrebbero deciso in modo a lui sfavorevole. Una pantomima post-governativa dopo quella imbastita al Viminale. Se la magistratura competente lo manderà sotto processo, lui ha già pronta la difesa da piazza; se la magistratura archivierà il caso, lui ha già pronto l’attacco da piazza; se si instaurerà un vero e proprio processo a suo carico, lui ha già pronta la campagna elettorale da sciorinare nel tempo. Fin che qualcuno (spero la maggioranza degli italiani) avrà il buongusto di mandarlo a casa invitandolo a fare il buffone, confinato a Milano, in via Bellerio.

Il Matteo italo-vivaista gioca a fare il garantista, il moderato, il terzo incomodo: ha operato una folle scissione dal partito democratico, volendosi distinguere dalla sinistra senza andare troppo al centro, tenendosi in una sorta di prima periferia in cui si è lontani dal governo centrale, ma da cui si fa in un attimo a tornarci dentro. L’occasione per fare casino è al momento la prescrizione dei reati penali, ma, se il pretesto non ci fosse stato e non ci sarà, lui lo avrebbe inventato e lo inventerà. Non tace un attimo, si agita in continuazione, appoggia il governo Conte bis da lui stesso prefigurato, ma si tiene le mani libere per sparargli contro. Se il governo giallo-rosso durerà, sarà merito suo per averlo sostenuto criticamente; se il governo cadrà, lui sarà il grilloparlante che da tempo ne aveva individuato i troppi limiti e difetti; se il governo vivacchierà, lui continuerà a fare il pendolo fra l’opposizione e la maggioranza, accreditandosene vigorosamente i meriti e respingendone sdegnosamente gli insuccessi. Fin che qualcuno (spero l’elettorato italiano) avrà l’opportunità di assegnarli una percentuale di voti da prefisso telefonico, pregandolo di tornare a fare il sindaco a Firenze (fiorentini permettendo).

Mentre con Matteo Salvini e la sua parte politica non ho niente da spartire, con Matteo Renzi ho un conto aperto: mi sono illuso che potesse introdurre qualche novità nel modo di governare della sinistra. È bastato il sassolino (?) referendario nella scarpa presuntuosa renziana per fargli smarrire la bussola e metterlo alla testarda ricerca di un pronto e sempre più impossibile riscatto.

Il centro-destra ha pieni i coglioni del dittatore dello stato libero di Valpadanas; il centro-sinistra non ne può più di Ghino di Tacco riveduto e scorretto. E se facessero un compromessino antistorico per mandarli a casa entrambi? Portando in trionfo Silvio Berlusconi dopo l’ennesimo intervento di lifting col miracoloso acido ialuronico e dall’altra parte riportando in pista Massimo d’Alema (Veltroni permettendo) dopo una vaccinazione a base di siero dell’umiltà. Gianni Agnelli, all’indomani dello scoppio di tangentopoli, sosteneva che per rifare una classe dirigente sarebbero occorsi vent’anni. Non è vero se dopo trent’anni si deve ricominciare quasi tutto da capo. Alla fine di un mezzo secolo si vedrà. Io non ci sarò più, meno male.

Sempre in trincea e mai all’attacco

Come ho più volte detto e scritto, la storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Quella volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. Erano gli ultimi mesi di vita di Lucia, che però trovavano esistenziale e incoraggiante riscontro, al livello più alto, di un cristianesimo vissuto sempre con l’ansia della novità che squarcia il dogmatismo, della scelta a favore dei poveri, del rispetto della laicità della politica, del protagonismo femminile.

A ormai sette anni da quella storica sera si può tentare arditamente di trarre un bilancio? No, perché la Chiesa non è una società commerciale e soprattutto perché non è possibile “vedere di nascosto l’effetto che fa” un magistero papale.

Faccio altri ragionamenti partendo dall’esempio della tanto giustamente discussa enciclica di Paolo VI, la Humanae vitae. Il documento ribadisce la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale; dichiara anche l’illiceità di alcuni metodi per la regolazione della natalità (aborto, sterilizzazione, contraccezione) e approva quelli basati sul riconoscimento della fertilità. Ebbene leggendola mi sono trovato a respingere sarcasticamente le pedanti conclusioni sulla contraccezione, che riducono il Padre Eterno a spirituale ginecologo.

Lo scopo concreto della contraccezione consiste nell’evitare fecondazioni indesiderate. Perché mai ciò è lecito se si usano metodiche naturali, mentre diventa illecito se si usano mezzi tecnici o farmacologici. Non sono mai riuscito a capirlo. Si vuole fare un passo avanti, si vuole togliere il Padre Eterno da questo imbarazzante criterio calendarizzato?  O consideriamo la fecondità un obiettivo complessivo della vita di coppia o altrimenti ci continuiamo a disperde nel solito e ridicolo labirinto precettale per cui, se mi astengo dall’atto sessuale in certi giorni, tutto va bene, se invece in quei giorni non mi astengo ma corro diversamente ai ripari, tutto male. Ma fatemi il piacere… Pensiamo davvero che Dio sia così meschino da trattarci in questo modo. Nello stesso tempo devo ammettere che l’enciclica canta un vero e proprio sublime inno all’amore coniugale: cosa meravigliosa per poi rovinare tutto nei meandri di una precettistica da “beghe di frati”.

Gesù nella sua didattica amava andare dal particolare al generale adottando il metodo induttivo o induzione, un procedimento che cerca di stabilire una legge universale partendo da singoli casi particolari. La dottrina cattolica invece tende a seguire il metodo deduttivo o deduzione, vale a dire il procedimento che fa derivare una certa conclusione da premesse più generiche, dentro cui quella conclusione dovrebbe essere implicita. Se io parto dalla generica premessa che il matrimonio è indissolubile arrivo a dedurre che il divorzio non è mai ammissibile. Se invece parto dall’amore in crisi di certe unioni coniugali posso arrivare a ben altre conclusioni. E via discorrendo.

Era molto attesa l’esortazione apostolica papale a conclusione del sinodo sull’Amazzonia per i potenziali riflessi su due argomenti molto sentiti: il celibato sacerdotale e il sacerdozio femminile. Purtroppo papa Francesco continua ad adottare il metodo deduttivo, cioè continua a partire da una premessa di carattere dottrinale per arrivare a conclusioni deludenti. L’impegno dei laici e delle donne nella loro partecipazione alla vita della Chiesa: giustissimo! Ma la riforma del celibato sacerdotale e l’apertura del sacerdozio alle donne non sarebbero strumenti atti a favorire al massimo livello tale partecipazione? No, ne riparleremo un’altra volta. Purtroppo, dopo sette anni, su certe questioni siamo ancora al palo. Francesco non ha il coraggio di uscire dall’imbuto in cui lo continuano a spingere e/o in cui si è ficcato. L’emozione e la commozione di sette anni or sono tendono a scemare, lasciando il posto a una pur benevola analisi critica. Non sarebbe la prima volta nella storia che un’autorità religiosa o civile parte in quarta e poi rallenta, si ferma o addirittura fa marcia indietro.

Mi rendo conto si essere spietato, ma temo possa essere sprecata un’occasione irripetibile di riforma ecclesiale. L’età di papa Francesco avanza inesorabilmente, ho l’impressione che la sua salute vacilli, subisce condizionamenti e ostacoli sempre maggiori, il suo carisma rischia di appannarsi. È vero che la vita della Chiesa non dipende dalla mentalità del papa, dei vescovi e dei sacerdoti, ma dalla grazia che deriva dai sacramenti. Come noto don Lorenzo Milani diceva in modo quasi spregiudicato in riferimento ai suoi difficilissimi rapporti con la Chiesa: «E’ la croce che porto per godere dei sacramenti. Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa». Sono d’accordo.

Il cardinal Martini sosteneva: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio». E allora perché dei sacramenti e della fede dobbiamo essere costretti a fare una trincea difensiva e non un fronte di combattimento?

 

 

Insicuri e disoccupati

Qual è la vera e reale insicurezza di cui stiamo soffrendo, alla quale i famigerati decreti voluti da Salvini non fanno neanche il solletico, per la quale, anzi, le chiacchiere leghiste suonano come un’autentica presa in giro?

Parto dal titolo e dall’incipit di un articolo di Andrea Greco su La Repubblica. Unicredit: 8 mila nuovi esuberi. Dal credito all’industria, 400 mila impieghi a rischio. Al Mise ci sono 160 casi di crisi aziendali. Il lavoro che non vale più, declassato, schiacciato dal capitale con il martello della tecnologia. E il settore delle banche, dove ormai tre operazioni su quattro non passano dalla filiale, fa scuola. Così ieri Unicredit ha annunciato altri 8 mila esuberi (il 12% della forza lavoro) nel suo piano dei prossimi quattro anni: 6 mila sono stimati in Italia. Servono a risparmiare un miliardo e accelerare il passaggio al digitale.

Ricordiamo tutti come il posto di lavoro in banca fosse considerato il non plus ultra della sicurezza e della remunerazione. È cambiato tutto! La paura che caratterizza la nostra società è quella inerente l’assenza e/o la precarietà del lavoro: i giovani faticano a trovarlo, se lo trovano si devono adattare a basse remunerazioni e ad impieghi a breve termine; chi finalmente lo ha trovato non si può illudere di mantenerlo, perché tutto è in continua e rapida evoluzione e dall’oggi al domani ci si può trovare disoccupati. Le conseguenze a livello psicologico e sociale sono di enorme portata: i legami sentimentali sono messi a repentaglio, le famiglie non reggono, non si fanno figli, il malcontento cresce, le prospettive sono incertissime.

Bisogna essere matti per pensare che a tranquillizzare la gente serva il poter sparare al ladro senza soffrirne conseguenze penali. Oppure che rispedire a casa gli immigrati consenta nuovi posti di lavoro per i giovani e i disoccupati in genere. Sono barzellette che funzionano da diversivo rispetto ai veri problemi.

Spesso mi chiedo cosa si debba e si possa fare di fronte a questa situazione così preoccupante. Nessuno ha la bacchetta magica e nessuno può permettersi il lusso di promettere migliaia di posti di lavoro. Però qualcosa bisognerà pur metter in cantiere. Individuo tre piste su cui provare a camminare.

Innanzitutto la scelta dell’indirizzo scolastico deve coniugare le opzioni culturali ed esistenziali con la possibilità di effettivo lavoro. Capisco come questa logica possa rappresentare una rinuncia alle proprie vocazioni professionali, ma meglio essere concreti e puntare agli sbocchi possibili piuttosto che rimanere attaccati alle nuvole che non offrono alcuna seria prospettiva.

In secondo luogo bisogna individuare nuovi profili professionali adeguati all’evoluzione socio-economica, così come nuove metodologie in linea con i tempi e l’organizzazione del lavoro. I giovani, per dirla con una battuta provocatoria e brutale, dopo avere studiato nella giusta direzione professionale, devono “inventarsi” il lavoro. Persino concettualmente faccio fatica ad accettare un simile discorso, ma è così.

In terzo luogo occorre una spinta economica impressa dagli investimenti pubblici nei settori dell’ambiente, della cultura, della difesa del suolo, del turismo, promuovendo anche grosse riconversioni aziendali e professionali. Ma anche l’imprenditorialità privata deve essere sostenuta, aiutata e sollecitata.

Indietro non si torna, certi meccanismi sono superati: l’unico principio che non deve essere superato riguarda la centralità della persona e il suo diritto a lavorare senza rischiare la pelle e con certe tutele a livello previdenziale. La sfida alla sinistra politica è questa: riuscire a dare serie prospettive di lavoro alla gente. Probabilmente occorrono grossi sacrifici a livello finanziario. Qualche privilegio dovrà saltare. Serve diminuire le tasse? Servirebbe farle equamente pagare a tutti ed utilizzare le conseguenti risorse per crescere e non per vivacchiare. La coperta è corta, la stanza è piccola, ma non ci si può illudere di risolvere i problemi sulla pelle dei più deboli. Tutti se lo devono mettere nella testa, nel cuore e…nel portafoglio. Ci fu una discussione accesa sul primo articolo della Costituzione italiana. Ne uscì “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. A oltre settant’anni di distanza questa definizione è sempre più appropriata e valida.