A piedi nudi nel porcile di Johnson e Trump

Scrive Antonello Guerrera, corrispondente da Londra de “La Repubblica”: “Premesso che nessuno sa come andrà a finire la Brexit oppure se sarà benefica o malefica per il Regno Unito (e per l’Ue), c’è già chi ha calcolato il costo dell’uscita dall’Ue per il Regno Unito: secondo un’analisi di Bloomberg Economics, il conto sarebbe di almeno 200 miliardi di sterline. In pratica, Londra avrebbe già bruciato più o meno l’equivalente dei contributi versati a Bruxelles nei 47 anni di appartenenza all’Ue (1973-2020): una cifra che, secondo i calcoli dalla Biblioteca della Camera dei Comuni di Londra, sarebbe di 215 miliardi.

 Il problema, secondo Bloomberg Economics e l’autore dello studio Dan Hanson, è l’incertezza di questi ultimi anni oltremanica che avrebbe generato “molti meno investimenti di quanto vi sarebbero stati in caso di appartenenza all’Ue”, oltre alla fuga di vari imprenditori spaventati dal limbo, come ha dimostrato qualche tempo fa anche uno studio di Ernst e Young che ha addirittura quantificato in un triliardo di sterline la perdita potenziale e totale di asset in Regno Unito. Secondo Bloomberg, queste circostanze avrebbero abbassato la crescita britannica dal circa 2% all’anno all’1%, ovvero la metà. E la forbice potrebbe continuare. 

Tuttavia, secondo un recente studio del Fondo monetario internazionale, il Regno Unito potrebbe crescere comunque di più di Francia e Germania nonostante la Brexit, qualora dovesse strappare un accordo favorevole nelle prossime trattative con l’Ue. Ecco perché ora siamo a un punto decisivo. Dal 01 marzo, infatti, inizieranno i delicatissimi negoziati tra Regno Unito ed Unione Europea sui rapporti futuri tra i due blocchi.

C’era da aspettarselo, anche se questi dati hanno tutto il carattere della provvisorietà e della parzialità. Gli inglesi si sono infilati in un brutto tunnel, non c’è stato verso di farli ragionare, stanno perseverando nei loro errori. Se lo scotto di questa scelta sbagliata lo pagassero solo i diretti interessati, me ne rammaricherei fino ad un certo punto: chi si loda s’imbroda! Lo hanno voluto e ne soffrano tutte le conseguenze.

La brexit soffre però di due caratteristiche molto inquietanti. La prima riguarda la sua irreversibilità: è pur vero che al mondo non esiste niente di immutabile, ma tornare indietro sarà quasi impossibile e quindi l’Europa dovrà ripensarsi in aperta conflittualità economica, e non solo economica, con il Regno piuttosto disunito della Gran Bretagna. La domanda impertinente è: l’uscita della Gran Bretagna spingerà i restanti paesi europei a stringere nuovi e più importanti patti fra di loro oppure aprirà culturalmente e politicamente una breccia attraverso la quale tenteranno di passare altri, quanto meno per allentare i già deboli vincoli comunitari e retrocedere la UE a mero coacervo di affaristi in vena di scannarsi a vicenda?

La seconda caratteristica della brexit è quella di globalizzare i danni e le beffe di una scelta sconsiderata operata da un solo paese. Come per la elezione di Donald Trump, anche per l’uscita dalla UE molti ributtano la palla nella tribuna inglese: si arrangeranno, l’hanno voluta, se la godano tutta. I dati richiamati in premessa potrebbero ulteriormente indurre in questa tentazione dello scaricabarile. Purtroppo gli effetti saranno a cascata su tutti i paesi europei, anche perché la brexit coincide, non a caso, con l’avvento dell’era trumpiana, con lo spirare cioè di un vento sovranista le cui raffiche si sentono e si soffrono in tutto il mondo. Trump ha soffiato e continua a soffiare sul fuoco antieuropeo, mettendo a soqquadro la storica alleanza tra il vecchio continente e gli Usa, pilastro dei pur faticosi equilibri post bellici.

L’ultima considerazione la riservo alla classe dirigente protagonista della brexit e del suo svolgimento. C’è modo e modo per uscire di casa: si può farlo in punta di piedi, si può chiedere scusa, ci si può separare rimanendo più o meno amici. Si è scelto di sbattere violentemente la porta fregandosene altamente di tutto e di tutti. Gli ultimi dettagli contrattuali li gestirà Boris Johnson, garanzia di trivialità, irresponsabilità e incompetenza. Fra qualche mese avremo purtroppo la rielezione di Trump e tutto sarà ancor più difficile. Quando osservo le facce e gli atteggiamenti di questi due personaggi, mi prende una sorta di angoscia: non riesco a fregarmene, lasciando la palla alle giovani generazioni. Ci vorrebbero le sardine anche a livello europeo e mondiale. Battere Salvini in Emilia-Romagna è stato relativamente semplice. Per mandare a casa Johnson e Trump la vedo dura.

Non mi stancherò mai di ricordare cosa successe in Scozia durante la campagna elettorale referendaria sulla brexit.  Per quanto concerne gli scozzesi assistiamo infatti al paradosso di un acceso indipendentismo che si spegne sulla soglia dell’Europa, come se un individuo non sopportasse di vivere in una casa con tre o quattro abitazioni e finisse col preferire un grosso condominio: ma non è così semplice, anche se risulta curiosa la rabbia degli scozzesi, i quali si  butterebbero volentieri nelle caute braccia dell’Europa, a sua volta preoccupata di innescare processi a favore di tutti gli indipendentismi sparsi nel continente. La propensione scozzese, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Adesso la porcilaia è aumentata nei protagonisti: si è aggiunto Johnson.

Rimanendo in tema di porcilaie, riprendo la gag tra due supponenti progettisti, due ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati di prevedere l’uscio della porcilaia.  “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”  direbbe mia nonna. Individuare i due goffi costruttori non è difficile, più problematico è il discorso della “zana”, la recalcitrante scrofa che dovrebbe entrare: speriamo non si tratti dell’Unione europea…

 

 

 

 

 

Il granguignolesco coronavirus

Mi ero ripromesso di non commentare l’emergenza coronavirus sforzandomi di non incaponirmi in una sorta di delirio collettivo e di pensare anche ad altri fatti. Non ci sono riuscito anche perché, da qualsiasi parte mi volgo, mi imbatto direttamente o indirettamente in discorsi riguardanti il virus. Tanto vale allora scrivere le mie impressioni al riguardo.

Innanzitutto, come è stato affrontato il coronavirus a livello informativo? In Cina hanno spietatamente cercato di coprire l’emergenza perdendo tempo prezioso nella lotta contro questa insorgente epidemia; in Italia dell’informazione sull’andamento preoccupante del dilagare del virus se ne sta facendo una vera e propria sbornia mediatica di tipo spettacolare, capace di creare più panico che consapevolezza, più curiosità che sensibilità, più morbosità che attenzione. Dalla silenziosa padella del regime cinese alla garrula brace dei media nostrani in sadica ricerca della spettacolarità. Si sta infatti creando un clima di confusione e panico, che nulla ha da spartire con una seria consapevolezza dei rischi e dei rimedi. Oltre tutto arrivano anche opinioni e analisi contrastanti atte a confondere ancor più le idee della gente.

Sì, perché il secondo punto critico è quello dell’equivoco sulla natura dell’emergenza: autorevoli medici affermano che trattasi di una epidemia influenzale, che va affrontata come tale e combattuta con le armi normali del caso, senza drammatizzare sulla pericolosità e la mortalità che rimarrebbero in media con le infezioni virali di questo tipo.  “A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così”. A scrivere queste parole sulla sua pagina Facebook è Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus Covid-19 in Italia. “Il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni, è scritto nel post della direttrice del laboratorio in Lombardia. “Leggete! Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!”, recita un post pubblicato da Gismondo.

Il virologo Roberto Burioni replica senza mezzi termini: «Niente panico, ma niente bugie. Attenzione a chi, superficialmente, dà informazioni completamente sbagliate. Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal coronavirus sarebbe poco più di un’influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero» scrive sul sito Medical Facts. «Leggete i numeri – indica – uno dei nostri cardini è stato il tentare di informare nella maniera più corretta i nostri lettori. Mai allarmismi, ma neanche si possono trattare i cittadini come bambini di 5 anni. Non dobbiamo omettere nessuno sforzo per tentare di contenere il contagio».

Mi risulta che le caratteristiche della pandemia siano accertati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità: ho provato a capirci qualcosa, ma non ho concluso niente. Mi pare tuttavia che anche a quel livello ci siano pareri discordanti. È pur vero che la medicina non è una scienza esatta. Un medico amico, qualche tempo fa, mi confidò di assimilare la medicina più alla letteratura che alla matematica. Ricordo le parole di un altro medico sul problema della verità da rivelare al malato: non serve la bugia pietosa, ma una informazione equilibrata, leale e fiduciosa. Le bugie totali o parziali di regime, le verità mediatiche gonfiate ed enfatizzate, le contraddittorie analisi scientifiche buttate in faccia alla gente sono modi per mentire o per spaventare o per confondere le carte.

Resta il fatto che l’emergenza coronavirus si sta fronteggiando con provvedimenti estremi come isolamenti, cordoni sanitari, quarantene, mobilitazioni generali, etc. etc. Forse non stiamo facendo della prevenzione, forse non stiamo solo usando prudenza e cautela, ma stiamo esagerando, presi nel vortice della spettacolarizzazione ad ogni costo e di ogni evento, forse stiamo mettendo le mani avanti più per coprire le spalle alle pubbliche autorità (le quali non hanno tutti i torti a temere ripercussioni: è un attimo finire nei guai seri per omissione di atti d’ufficio) che per proteggere la salute delle persone. Non vale del tutto il discorso che si fa generalmente: meglio eccedere in prudenza che subire gli eventi. Va bene finché la prudenza non diventa allarmismo e la cautela nei comportamenti non sfocia nel panico: diversamente, come dicono in Veneto, “xe pèso el tacòn del buso”.

Sembra esista molta attenzione e tanta volontà di impegno a livello istituzionale, le prime mosse si collocavano al di sopra delle parti (anche se l’evento coronavirus si presta ad essere utilizzato dagli uni per esibire sul campo patenti di bravura e dagli altri per indirizzare accuse di incapacità o leggerezza). Il clima collaborativo è durato poco. Qualcuno non ha resistito alla perfida tentazione di strumentalizzare l’emergenza per insinuarsi nei normali corto-circuiti del problematico coordinamento e del reciproco rispetto delle competenze (i rapporti del governo con le regioni). Non mi scandalizzo se in questo clima infuocato si verificano scontri ai massimi livelli della pubblica amministrazione centrale e periferica: sarebbe tuttavia molto meglio evitarli. Si intravedono anche questioni di realpolitik nei rapporti internazionali (con la Cina, con la stessa Europa, con l’OMS). Ci si chiede come mai emerga questa forte presenza del virus in Italia a differenza degli altri stati europei: troppi controlli in Italia o troppo pochi controlli altrove? Troppa smania di trasparenza nel nostro Paese o troppa riservatezza nazionalistica negli altri Paesi? Bisogna poi considerare anche il fatto che si stanno rincorrendo due emergenze, di cui è forse difficile stabilire cinicamente quale sia la più grave: quella sanitaria e quella economica. Gli andamenti economici sono messi a repentaglio e non sarà facile riparare gli incalcolabili danni provocati all’economia da questa situazione emergenziale: occorrerà molto tempo per ripristinare le normali regole produttive, commerciali e di mercato.

Il dato positivo è quello del funzionamento delle istituzioni e delle strutture preposte alla sanità: lasciamoli lavorare e non subissiamoli di chiacchiere inutili se non dannose. Nelle conferenze stampa e nelle interviste parte una raffica di domande volte non tanto ad ottenere ulteriori chiarimenti, ma ad estorcere qualche notizia choc da spendere nei notiziari. Uno di questi giorni, accendendo il televisore, mi sono imbattuto in una trasmissione mattutina su una TV privata, in cui si sarebbe dovuto dibattere l’argomento coronavirus, che esponeva in bella evidenza il titolo, il leitmotiv della discussione stessa: “Conte attacca le regioni”. Tutto perché il presidente del Consiglio aveva chiesto alla regione Marche e a qualche altra regione di soprassedere a certi provvedimenti esagerati e non in linea con gli schemi di intervento adottati in generale e perché si era permesso di mettere in dubbio il comportamento di un ospedale nell’occhio del ciclone. Ho cambiato canale e sono passato alla TV pubblica: ebbene, dissertavano sull’effetto che avrà l’emergenza coronavirus sulla tenuta del governo (autentica spazzatura culturale e politica).

Un vero e proprio sciacallaggio informativo, una gara allo scoop della paura. Alla fine tutti, dopo questa sarabanda di notizie, lanciano paradossalmente appelli al senso di responsabilità e alla collaborazione delle persone stordite e impaurite. Sappiamo che il peggior modo per tranquillizzare una persona è quello di invitarla a stare calma dopo avergli prospettato una realtà drammatica. Non stupiamoci quindi se è scattata la irrazionale corsa all’accaparramento di generi alimentari a lunga conservazione.

Il quadro è complesso, estremamente delicato e molto difficile. Ebbene, non sciupiamo tutto su un macabro e granguignolesco palcoscenico. Per favore, usiamo al meglio gli strumenti che abbiamo e non facciamone un colpevole abuso. Che Dio ce la mandi buona e, da parte nostra, cerchiamo di comportarci seriamente e di non chiacchierare inutilmente. Grazie a chi sta lavorando e silenzio a chi sta blaterando.

I pugni in tasca

L’Unione europea ha promosso la riforma della prescrizione del ministro Bonafede, ritenuta idonea a ridurre i tempi della giustizia italiana. Le forze politiche italiane però continuano a non essere d’accordo, anche se, dopo un mese e mezzo di trattative, la maggioranza è riuscita a trovare una soluzione di compromesso: il lodo Conte bis.

La decisione è stata inserita in un emendamento del ddl sulla riforma del processo penale, che ha appena ottenuto il via libera in Consiglio dei Ministri. Il lodo Conte bis prevede lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado di condanna, con la possibilità di ottenere un ricalcolo retroattivo dei termini se in secondo grado la sentenza viene ribaltata in una assoluzione. Il testo originale di Bonafede, invece, prevedeva l’interruzione dei termini sia dopo la sentenza di condanna che di assoluzione.

Evidentemente la Ue, non so fino a che punto in modo approfondito e argomentato, ritiene i provvedimenti in questione rispondenti all’esigenza di combattere la corruzione allungando i tempi della prescrizione e riformando il processo penale: difficile trovare il nesso fra i due approcci, ma, a giudizio europeo, saremmo sulla strada giusta.

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a  guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Le cose nel caso di cui sopra sembrano andare diversamente. I litiganti italiani, dopo lunga e penosa trattativa, hanno raggiunto un compromesso, ancora tutto da approvare in via definitiva e che dovrà soprattutto passare sotto le forche caudine dei renziani in versione ultragarantista: non si scontravano, almeno lo spero, tanto per ridere, forse faceva ridere (o piangere) l’intento disfattista degli uni e la smania populista di altri. Tanto meno l’Unione europea si è intromessa ironicamente o sgarbatamente: si è limitata a ribadire la necessità di una linea legislativa seria in materia giudiziaria (Dio sa quanto ce ne sia bisogno).

Non entro nel merito della questione perché mi manca la competenza e perché di questo argomento ho già scritto. Aggiungo solo una considerazione squisitamente politica. Cerchiamo di ascoltare i consigli e gli inviti che ci vengono dal livello europeo, non facciamo i saputelli e tanto meno gli scettici. Abbiamo sempre e comunque da imparare: niente va preso a scatola chiusa, ma niente va presuntuosamente scartato o disprezzato. In Europa ci si sta a ridere, a piangere, ad ascoltare e a parlare.

Quando uscivo professionalmente dai confini provinciali per approdare al contesto regionale, adottavo il criterio suddetto; partecipavo convintamente, facevo tesoro delle esperienze altrui, esprimevo le mie idee, lavoravo con impegno. Alla fine portavo a casa dei risultati alla faccia di chi mi consigliava atteggiamenti duri e settari: c’è l’idea che si debba andare giù duri per farsi rispettare. Non è mai vero, soprattutto quando si è consapevoli di essere deboli. Il ministro Marcora, quando si sedeva ai tavoli europei in materia di agricoltura, sapeva quel che andava a dire, ascoltava attentamente le ragioni degli altri e poi magari, in un clima di rispetto e collaborazione, sapeva anche piantare i pugni sul tavolo al momento giusto. Molti invece, nei rapporti con l’Europa, vogliono partire dai pugni per poi…finire al tappeto.

 

 

 

La sinistra che “ruotola” verso l’alto

Sarà il giornalista Sandro Ruotolo, volto noto della tv per anni al fianco di Michele Santoro, a sedere sugli scranni del Senato al posto dello scomparso Franco Ortolani (M5s). Questo il verdetto delle suppletive nel collegio uninominale 7 della Campania, oltre 300 mila elettori e una vasta area della città di Napoli al voto, dal Vomero a Scampia. Ruotolo si è candidato come indipendente e senza simboli di partito sulla scheda.

Ha avuto il sostegno di una larga coalizione di centrosinistra appoggiata anche da Dema, il movimento che fa capo al sindaco di Napoli Luigi de Magistris, e senza l’appoggio dei Cinquestelle che non hanno accettato, preferendo correre da soli nel collegio che solo due anni fa avevano conquistato con il 53% dei consensi e dove adesso si fermano poco sopra il 22%. Il neo senatore – che in campagna elettorale ha detto di voler confluire, una volta eletto, nel gruppo misto – si è aggiudicato la competizione con oltre 16 mila preferenze superando il 48%, battendo il candidato del centrodestra Salvatore Guangi, fermo al 24%, e quello dei Cinque stelle, Luigi Napolitano (22,5%) al termine di una consultazione caratterizzata dal forte astensionismo. Solo il 9,52% degli aventi diritto al voto, infatti, si è recato alle urne: un napoletano su dieci. Un dato che non si può paragonare con il 61% che alle Politiche del 2018 votò in quello stesso collegio, ma comunque indice di scarsa partecipazione.

“Questo risultato è straordinario – le prime parole di Ruotolo da senatore – la sinistra in questo collegio partiva dal 20%. L’altro dato è che insieme abbiamo vinto. Questa sinistra dovrà impegnarsi e occuparsi delle persone, delle comunità, delle periferie che sono state totalmente abbandonate. Dobbiamo chiedere al governo un piano per le periferie per il Mezzogiorno. Nulla sarà più come prima”.

La notizia è passata quasi sotto silenzio complice il clima totalmente orientato sul discorso coronavirus. Merita invece molta attenzione e qualche riflessione. Solo il 10% dei napoletani è andato ai seggi: percentuale provocatoriamente bassa al limite della soglia sostanziale di rappresentatività. Le logiche meridionali e napoletane di partecipazione al voto sono molto strane: in senso negativo sono spesso ossequienti al potente di turno, alquanto influenzate della malavita organizzata, molto qualunquisticamente lontane dagli schemi politici; in senso positivo sono sensibili ai movimenti civici ed a quanto si muove nella società per un riscatto autenticamente popolare e di sinistra della società.

Questo voto ha un significato emblematico: la sinistra, se vuol essere vincente, deve coraggiosamente partire dai bassifondi del territorio, dare voce a chi non ne ha e aspetta di poterla alzare. Mi ha colpito il fatto che Ruotolo parli lo stesso linguaggio di papa Francesco: non credo ci sia una strumentale sintonia, né un rischio di clericalizzazione della politica. Piuttosto un forte richiamo a valori ed idealità da cui la politica non può prescindere, pena il suo snaturamento.

Non so se, come dichiara Ruotolo, “nulla sarà più come prima”, ma un sasso in piccionaia è stato lanciato e speriamo che i piccioni volino alto. La mia tesi di laurea era stata apprezzata anche perché sostenevo, nell’ormai lontano 1968, che il problema meridionale andava affrontato in una dimensione europea, perché solo così poteva trovare un ampio contesto in cui crescere uscendo da logiche clientelari e meschine. Occorre certamente un piano del governo a favore delle periferie meridionali, ma un piano rigorosamente collocato in una prospettiva europea di crescita e sviluppo e condiviso dalla gente speranzosa nel buongoverno e da chi la rappresenta.

I deboli in discarica

Tre fatti (crepi tristemente l’avarizia!), pubblicati contemporaneamente, qualche tempo fa, dal quotidiano La Stampa, con un unico ed inquietante filo conduttore: l’intolleranza violenta verso i soggetti deboli in quanto diversi. Donne, clochard, lesbiche.

  • Erano fidanzati da meno di un anno. Avevano trascorso la serata insieme, cenato e ascoltato un po’ di musica prima di andare a dormire. Nel cuore della notte lui si è svegliato dicendo di non stare bene ed è rimasto molto agitato fino al mattino. Poi è andato in cucina, ha preso un coltello affilato sulla tavola ancora da sparecchiare dalla sera prima e ha puntato dritto verso la donna dicendo di volerla uccidere. Lei ha fermato la lama con le mani, riportando tagli ai palmi, ma evitando una ferita più profonda al ventre. Poi è scappata ed è riuscita a chiamare aiuto. È successo ad Alba, la mattina del 4 gennaio. Protagonista una coppia di trentenni italiani, entrambi impegnati nelle rispettive attività di famiglia, lei albese, lui residente in un paese di Langa. L’uomo ora si trova ai domiciliari per tentato omicidio.

 

  • Una cabina telefonica serrata con un nastro adesivo arrotolato a più mandate. Bloccata da due pedane in truciolato, di quelle usate al mercato per scaricare cassette, pacchi e scarti d’ogni genere, anche umano. Perché come un oggetto da scartare, rifiutare e allontanare con una barriera fisica, ben visibile, è stata trattata una donna senza fissa dimora, che lì aveva trovato riparo. Dormendo all’addiaccio protetta da pochi stracci a mo’ di coperta alla periferia sud di Roma. In via Tor de Schiavi, nel quartiere di Centocelle, lo stesso che a pochi passi ospitava la libreria antifascista “La Pecora Elettrica” data un mese fa alle fiamme e da allora mai più riaperta. La gente di qui si era ribellata, era scesa in piazza per dire no alle intimidazioni e alle violenze di ogni tipo. E lo ha fatto anche stavolta, anche se in maniera diversa, senza manifestare in corteo, ma segnalando un «fatto vergognoso»: il mancato aiuto alla persona che sopravviveva in quella cabina. Hanno cioè segnalato la presenza di una giovane donna che dormiva in una cabina telefonica e la prima risposta, che è quella che conta, è stato lo sbarramento della cabina stessa per togliere a quella poveretta anche quel ricovero di (s)fortuna.

 

  • Il volto insanguinato, le ginocchia sbucciate, lo sguardo spaventato: sono le immagini di Charlie Graham, ragazza di vent’anni di Sunderland nel Nord dell’Inghilterra dopo essere stata aggredita per la quinta volta, perché lesbica. Le foto sono su Facebook e le ha pubblicate la madre di Charlie, Michelle Storey, perché questa volta madre e figlia sono determinate a trovare i responsabili. La vicenda rimbalza su tutti i principali media britannici che danno conto della testimonianza di Charlie e del suo grido di dolore: a Sky News ha riferito di essere stata colpita con un pugno alla testa e di essere stata spinta al suolo, aggredita da due uomini. “Quando ho tentato di rialzarmi – ha spiegato la ragazza – sono stata spinta di nuovo a terra. Mi sono scorticata il volto, tutto tagliato”. E non è la prima volta: “L’ultima volta sono stati necessari punti di sutura per un taglio al sopracciglio. Due volte prima i tagli erano alla guancia, ho avuto occhi neri, mi sono state urlate contro cose”, ha raccontato Charlie, “E’ spaventoso ed è un colpo duro per la fiducia in se stessi”. “Ho avuto attacchi di panico: solo pensare di uscire, pensare di dover rientrare a casa, adesso mi fa paura”.

La nostra società di fronte a certe categorie in difficoltà umana, psicologica, economica, non solo alza le spalle o si volta dall’altra parte, atteggiamento già di per sé deplorevole, ma fa molto di più, con le buone (si fa per dire) o con le cattive (si fa sul serio) vuole spazzare via i casi ingombranti, come si dovrebbe fare (e non si fa) con i rifiuti veri e propri.

Papa Francesco, unica voce autorevole che si alza in difesa di questi soggetti, viene considerato un pontefice prestato alla politica ed invitato a chiudersi in Vaticano ed a preoccuparsi di rendere belle le anime lasciando perdere i corpi martoriati.  Coloro che si impegnano volontariamente in soccorso delle persone in difficoltà vengono etichettati come inutili e fastidiosi buonisti del cavolo. I politici, se mai hanno il coraggio di prendere in seria considerazione certe scomode problematiche, vengono cordialmente invitati a preoccuparsi della sicurezza dei forti messa in discussione dalla disperazione dei deboli. Questa è la follia perbenista (nazifascista) in cui stiamo precipitando.

 

 

La tromba italiana e la sordina tedesca

È spiacevole ma doveroso prendere in seria considerazione alcuni fatti che avvengono in Germania. Nella cittadina di Volkmarsen, in Assia, un’auto lanciata a tutta velocità piomba sulla folla in costume accorsa per partecipare al tradizionale corteo carnevalesco del lunedì: vicino ad un supermarket vengono travolte con violenza almeno 30 persone, tra cui molti bambini anche piccoli, non meno di 7 i feriti in condizioni molto gravi. Alla guida del veicolo, un Mercedes Van color argento, un 29enne tedesco – uno di Volkmarsen – apparentemente senza un background da estremista politico: a detta degli inquirenti ha puntato intenzionalmente sul pubblico accorso per assistere alla parata. Molti in costume, con indosso le maschere e truccati. Tanti, tantissimi, i bambini.

La Procura generale di Francoforte – che ha assunto il caso – “non esclude un attentato”, ma non si azzarda ancora di fare ulteriori ipotesi. A neanche una settimana dalla strage di Hanau – dove Tobias Rethjan, un estremista di destra, ha ucciso 9 persone di origine straniera scelte a caso, prima di uccidere la propria madre e infine se stesso – il Land della Germania centrale piomba di nuovo nella paura e nello choc. E per di più per un atto violento che fa tornare alla memoria l’attacco del dicembre 2016 al Breitscheidplatz di Berlino, quando il terrorista Anis Amri fece piombare il suo Tir sulla folla di un mercatino natalizio provocando 12 morti e 56 feriti.

Non è il caso di fare d’ogni episodio criminale un fascio estremistico della destra razzista, ma mi viene spontaneo confrontare la distaccata freddezza con cui la Germania reagisce a questi gravissimi episodi rispetto alla ben più calda e partecipata reazione italiana nei confronti degli episodi razzisti peraltro incruenti, ma comunque disgustosi e inaccettabili. Mi riferisco alle svastiche, alle scritte nazifasciste, agli insulti e alle minacce scarabocchiate su muri, monumenti, lapidi, porte, etc.

La differenza può indubbiamente risalire al carattere diverso della popolazione tedesca e di quella italiana. Gli stupidi e i criminali esistono in entrambi i Paesi, ma è diverso l’effetto provocato. Non vorrei che il tutto fosse dovuto, non tanto ad una certa qual tolleranza germanica verso i rigurgiti nazifascisti (se fosse così, sarebbe di una gravità inaudita), ma al vezzo d’oltralpe di coprire d’un velo pietoso le malefatte nazionali con il malcelato intento di lavare i panni sporchi in casa propria.

Quando scoppiò la prima devastante tangentopoli italiana negli anni novanta del secolo scorso, un caro amico, buon conoscitore della Germania per avervi lavorato a livello manageriale, mi disse come a suo giudizio la corruzione fosse assai presente anche in quel Paese, con la sola differenza che in un caso si va a gara per tenere riservate e ovattate le notizie, nell’altro, il nostro, si scatena la corsa a buttare tutto in pasto alla pubblica opinione. Non vorrei stesse succedendo qualcosa di analogo anche in materia di coronavirus: sono diversi non tanto i protocolli comportamentali dei pubblici poteri, ma le caratteristiche etiche nella mentalità della gente.

Rischio di ripetermi, ma in Italia, come diceva Vittorio Zucconi, il grande giornalista prestato per qualche tempo alla politica, si vogliono i servizi segreti pubblici. Siamo cioè il Paese del paradosso, del tutto sbattuto sulla pubblica piazza e “ci divertiamo” ad affrontare i problemi in questa chiave. All’estero la pubblica opinione accetta e forse desidera essere alleggerita da certe sgradevoli responsabilità comuni. Per quanto mi riguarda preferisco di gran lunga il clima italiano col rischio di cadere in una sorta di caccia alle streghe piuttosto di correre il rischio di non vedere le streghe dove esistono e operano clamorosamente.

Il presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva mille ragioni quando sosteneva che il popolo italiano non è primo, ma nemmeno secondo a nessuno. Noi invece tendiamo ad autoscreditarci irrimediabilmente. Tanti anni fa ebbi modo di pranzare occasionalmente ed in gruppo assieme a Piero Bassetti, autorevole personaggio pubblico di provenienza lombarda, ma di livello nazionale ed internazionale: sosteneva di aver girato mezzo mondo e di aver concluso obiettivamente come il Paese dove si vive meglio fosse l’Italia.  Forse è opportuno che ce ne ricordiamo, non per imbrodarci nelle autolodi, ma per osservare meglio il mondo che ci circonda.

 

Il muro di Washington

Il muro di Berlino fu considerato il simbolo concreto della cosiddetta cortina di ferro, ovvero l’immaginaria linea di confine tra le zone europee filo-occidentali, controllate militarmente dalla NATO e politicamente da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e quelle filo-sovietiche del Patto di Varsavia dell’Europa orientale, questo specialmente durante i circa quattro decenni della cosiddetta “guerra fredda”. Il suo crollo fu salutato, forse con eccessivo entusiasmo, come la vittoria definitiva della democrazia liberale.

Nel 2020 si svolgeranno le elezioni presidenziali negli Usa: sono già in atto le primarie dei partiti, repubblicano e democratico, propedeutiche alla corsa verso la Casa Bianca. Mentre in campo repubblicano è scontata la sciagurata ripresentazione di Donald Trump, in campo democratico si profila una situazione a dir poco ingarbugliata e, per certi versi, imbarazzante. I candidati sono sostanzialmente tre, con l’aggiunta di un outsider di gran lusso: eccoli di seguito.

Elizabeth Ann Warren, nata Herring, è una giurista, accademica e politica statunitense, attuale senatrice degli Stati Uniti per il Massachusetts.

Joseph Robinette Biden, Jr., detto Joe, è un politico di vecchio corso, vicepresidente degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Obama dal 2009 al 2017.

Bernard Sanders, detto Bernie, è un politico statunitense, senatore per lo Stato del Vermont e già componente della Camera dei rappresentanti. Esponente indipendente affiliato al Partito Democratico, si qualifica come un socialista democratico.

Michael Rubens Bloomberg è un imprenditore e politico statunitense, co-fondatore e proprietario della società di servizi finanziari, software e mass media che porta il suo nome, Bloomberg LP, per 12 anni sindaco di New York dal 2001 al 2013.

Il candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca Michael Bloomberg si è detto «pronto a spendere un miliardo di dollari» per battere Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Non solo: l’ex sindaco di New York – che dispone di un patrimonio di oltre 50 miliardi di dollari – è disponibile a stanziare il miliardo anche se fosse sconfitto alle primarie: in quel caso, assicura, sosterrebbe finanziariamente uno dei suoi attuali rivali, Bernie Sanders o Elizabeth Warren, nonostante le evidenti differenze politiche.

Lo ha dichiarato lo stesso Bloomberg in un’intervista al New York Times. La sua strategia è di mettere in piedi una campagna con centinaia di attivisti pagati e un’imponente operazione sui social da mettere a disposizione di chiunque si aggiudichi le primarie del partito democratico. «Dipende se il candidato avrà bisogno di aiuto: se stanno andando molto bene, avranno bisogno di meno. Altrimenti ne avranno bisogno di più», ha spiegato. Il miliardario dichiara di aver già speso oltre 200 milioni di dollari in pubblicità: andando di questo passo, a marzo Bloomberg supererà la spesa sostenuta da Barack Obama per tutta la campagna 2012.

Se si profila, a livello del partito democratico, la solita competizione tra un candidato più radicalmente di sinistra, Bernie Sanders, e gli altri decisamente più moderati, la vera sfida sembra essere quella economico-organizzativa in cui giganteggia Bloomberg che ha dichiarato a suon di miliardi la sua guerra contro Trump. La politica, per quello che di essa rimaneva negli Usa, sta per essere definitivamente archiviata dallo scontro fra due tycoon, uno già in sella e uno che aspira, direttamente o indirettamente, a salirvi. I giochi sono molto scoperti, non c’è alcun ritegno o pudore: chi più ne ha (di soldi e di capacità imprenditoriali) più ne mette. E vinca il più ricco e il più capace di comprare i voti. Il voto di scambio, davanti al quale noi italiani giustamente ci scandalizziamo, diventa il criterio determinante delle elezioni americane. Forse in parte è sempre stato così, forse ultimamente era ancor più così, adesso è totalmente ed assolutamente così.

Se fossi un cittadino statunitense, senza conoscere le caratteristiche politiche sostanziali dei candidati, mi aggrapperei comunque a Bernie Sanders per quel poco di sinistra che lascia intendere, anche se mi dovrei turare naso ed orecchie se dovesse essere sovvenzionato dal perdente (?) Bloomberg e prendendo come obiettivo quello di mandare a casa Trump (non è molto, ma non è neanche poco). Se però la sfida dovesse essere direttamente fra Bloomberg e Trump, non mi resterebbe altro da fare che emigrare, con l’imbarazzo della scelta del Paese a cui chiedere asilo politico. Sarà ancora vero che, come diceva Winston Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”? Lo affermava circa settant’anni fa, quando io non era ancora nato. Sarà meglio che mi rimetta a studiare seriamente la storia contemporanea per sapermi regolare. Non vorrei che negli Usa crollasse il muro della democrazia sotto le picconate di Trump e Bloomberg. John Kennedy in un suo famoso discorso del 1963, mentre era in visita ufficiale alla città di Berlino Ovest, affermò: «Siamo tutti berlinesi!». Intendeva così garantire ai tedeschi della parte democratica l’alleanza, l’appoggio e l’aiuto. Chi potrebbe essere il leader dotato di carisma democratico al punto da recarsi in visita ufficiale a Washington per dichiarare: «Siamo tutti statunitensi, ma contrari alla vostra democrazia e al vostro presidente!»?

 

 

L’invasione leghista per la conquista dell’impero romano

La battaglia leghista si sta spostando a sud, come succede spesso per le perturbazioni atmosferiche: dall’Emilia-Romagna a Roma. Dopo la sonora batosta raccolta in Emilia, regione assai restia a farsi omologare al nordismo salviniano, al sovranismo antieuropeo ed al populismo neofascista, Salvini prova a trasferire la sua prova di forza nella capitale, pensando di sfondare la porta romana (qualcuno comincia a parlare di marcia su Roma) per una prova generale di accreditamento quale competitor per la poltrona di palazzo Chigi.

Esistono probabilmente molti motivi che consigliano questa deviazione di percorso: la persistente vocazione destrorsa dei romani, la pessima esperienza della sindacatura raggiana, la papalina tradizione reazionaria in campo religioso (i rosari e i simboli potrebbero funzionare meglio), la voglia di saltare sul carro del vincitore per rimanere aggrappati al primato della capitale e depotenziare definitivamente la spinta nordista della Lega.

Sembra che abbia però cambiato tattica: parlare un po’ meno, non sparare a vanvera, trovare una candidatura ragionevole in vista della scadenza elettorale capitolina del 2021 con un probabile anticipo di un anno. Stando alle cronache ed ai commenti (li mutuo soprattutto da “La stampa”), Salvini starebbe preparando la torta con degli ingredienti diversi: ascolto delle organizzazioni imprenditoriali romane per poi ripiegare sul tasto immigrazione (il suo cavallo di battaglia).

«Abbiamo avuto segnalazione che alcune donne, né di Roma né di Milano, si sono presentate per la sesta volta al pronto soccorso di Milano per l’interruzione di gravidanza. Non è compito mio né dello Stato dare lezioni di morale, è giusto che sia la donna a scegliere per sé e per la sua vita, ma non puoi arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile». E ancora: «Qualcuno ha preso il pronto soccorso come il bancomat sanitario per farsi gli affari suoi senza pagare una lira». Morale salviniana: «La terza volta che ti presenti, paghi». Siamo al delirio socio-sanitario! Una strana e impertinente allusione alla emancipazione delle donne immigrate e un buffetto agli anti-abortisti di maniera.

Roma val bene una stoccata alla UE. «Credo che si debbano cambiare le regole dal di dentro. Faccio l’esempio del condominio: se pago le spese nel mio condominio ma non funzionano il riscaldamento, l’ascensore, allora o le regole cambiano oppure io smetto di pagare per quel servizio. Non si tratta di essere euroscettici ma di non essere pirla». Siamo al bar sport di Bruxelles, visto che quello di Strasburgo non lo ha mai frequentato.

Dulcis in fundo la polemica con le sardine. «Le sardine ci sono o ci fanno? Abolire i decreti sicurezza significa togliere soldi e competenze a sindaci e forze dell’ordine, oltre che dimezzare l’Agenzia dei beni confiscati alla mafia. Forse qualcuno tifa per mafiosi e delinquenti?». E a chi gli chiede cosa risponde a Mattia Santori che lo ha definito «erotico tamarro», lui replica così: «Cosa vuoi rispondere a uno che ti dà del tamarro? Parliamo di cose serie». Tamarro vuol dire zoticone e cafone. Perché erotico? Non lo so. Forse perché della caffonaggine ha fatto un’arma di fascinosa conquista.

E per concludere ecco il discorso sul possibile candidato sindaco: «La Lega vuole un sindaco di Roma? No, no, vuole un sindaco di Roma in gamba». Risposta niente male. I soliti dietrologi pensano che Salvini abbia in testa una donna: Giulia Bongiorno, che possiede un identikit interessante. Non c’è che dire, la tattica starebbe cambiando. La tattica, non la strategia, non gli obiettivi fondamentali. Quelli rimangono in tutta la loro pericolosa consistenza. Attenzione: le sardine non devono limitarsi a fare il controcanto culturale e politico a Salvini, ma noi non lasciamole sole nella battaglia contro l’avanzata dei barbari leghisti.

Il buco politico dello sbilancio UE

Niente accordo sul bilancio: alla prima vera prova dopo la Brexit, l’Unione Europea si spacca e non riesce a trovare un accordo su come finanziare le sue politiche per il periodo 2021-2027, dal Green Deal al Digitale e Difesa. “Le scorse settimane e gli ultimi giorni abbiamo lavorato duramente per cercare di trovare un accordo. Sfortunatamente oggi abbiamo osservato che era impossibile”, ha constatato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, dopo una maratona di incontri di 36 ore. “Abbiamo bisogno di più tempo”, ha riconosciuto Michel, che ora dovrà presentare una nuova proposta e, con ogni probabilità, convocare un altro Vertice nelle prossime settimane o mesi.

I due grandi temi di scontro sono stati il tetto al bilancio e gli sconti (i cosiddetti “rebates”) per gli Stati membri più ricchi. Olanda, Austria, Danimarca e Svezia non volevano superare l’1% del Pil e, con la Germania, chiedevano sconti consistenti. Dall’altra parte, i paesi del gruppo “Amici della coesione” (che si è ribattezzato “Gli Ambiziosi), di cui fa parte anche l’Italia, hanno rifiutato di scendere sotto il compromesso proposto da Michel: 1,074% del Pil pari a 1.094 miliardi di euro in sette anni.

Michel ha cercato di ammorbidire i 4 paesi “frugali” con un consistente “rebate”: 6 miliardi l’anno. Ma i paesi del Sud e dell’Est si sono rifiutati di finanziare uno sconto per gli Stati membri più ricchi. Quando la Commissione ha messo sul tavolo un documento tecnico per cercare di sbloccare lo stallo, tenendo conto delle esigenze poste da tutti, Michel ha convocato i leader nella sala plenaria. Ma la riunione è durata pochi minuti. Nessun accordo e molte rivendicazioni.

Ho ripreso alcuni passaggi del resoconto impietoso fatto dall’Agi per aggiungere alcune brevi considerazioni. La prima riguarda l’immagine di una gabbia di matti offerta su un piatto d’argento ai fautori della Brexit, i quali avranno buon gioco populistico nel giustificare la loro fuga dall’Unione europea. Ma questo è il meno.

Il problema di fondo è l’assetto istituzionale della Ue che non consente di prendere decisioni, se non con maratone infinite e inconcludenti, puntando sempre al compromesso più basso. La Ue, in buona sostanza, non esiste, esistono 27 stati membri di un corpo in perpetua agonia. Gli antieuropeisti e gli euroscettici hanno buon gioco nel prendere le distanze.

I nodi paralizzanti sono sempre gli stessi: l’egoismo dei Paesi ricchi, il velleitarismo dei Paesi poveri, l’equivoco dei Paesi dell’Est. Non esiste un concetto di solidarietà, tutto è lasciato alle prove di forza, tutti hanno la memoria corta, tutti pensano di dare, in un modo o nell’altro, più di quanto ricevono. Se non si esce da queste reciproche diffidenze, l’Unione europea rimarrà purtroppo un bellissimo sogno nel cassetto.

Siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini e delle donne, l’Europa unita è stata ideata e sognata nel manifesto di Ventotene, che fu scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, gli ultimi due collaborarono alla sua redazione e diffusione, tra il 1941 e il 1944, al confino, da antifascisti che combatterono il fascismo, guardando avanti. Si direbbe un antifascismo profondo, di lungo e largo respiro.

Poi venne la fase fondativa di Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Jean Monnet e Konrad Adenauer, gente che ci credeva veramente. Oggi mancano questi cuori e questi cervelli: quando vedo gli attuali capi di governo e massimi dirigenti comunitari girare a vuoto nelle sale e nei corridoi di Bruxelles, scambiarsi finti baci e abbracci, sedersi intorno agli immensi tavoli della discordia, ricominciare sempre tutto daccapo, non trovare mai il vero bandolo della matassa, pensare e parlare guardando solo agli interessi nazionali, mi prende una grande malinconia. L’Europa unita è una strada obbligata e nessuno si decide a intraprenderla coraggiosamente. Forse il vero problema politico è questo, senza affrontare e risolvere il quale, le altre questioni, che ci sembrano importanti e a cui dedichiamo troppa attenzione, diventano risse da cortile.

 

Vengo anch’io…no, tu no

Leggo sul sito de La stampa che Francesca Frenquellucci, assessora all’Innovazione del Comune di Pesaro, è stata allontanata dal Movimento Cinque Stelle per avere accettato di fare parte della giunta guidata dal sindaco Pd Matteo Ricci. A dirlo è lei stessa, ex candidata sindaco grillina alle comunali di Pesaro del 2019 e consigliere comunale M5S, recentemente entrata nella giunta di centrosinistra guidata da Matteo Ricci come assessore all’Innovazione: «Ieri mi è arrivata una mail in cui il M5S mi comunica che sono espulsa. Non riesco a capire su che basi è stata presa la decisione, anche perché il link che ho inviato con la mia memoria difensiva non è stato nemmeno aperto. Farò ricorso al comitato di garanzia, vorrei fare valere le mie ragioni». «In questi mesi – ha detto Frenquellucci – abbiamo lavorato agli argomenti e portato a casa risultati per la città di Pesaro. Ho sempre pensato al bene comune, insieme agli altri consiglieri e agli attivisti che ci hanno seguito. Aggiungo che l’atto politico è stato fatto nel momento in cui ho accettato la delega e ho iniziato questa collaborazione con la maggioranza. Non capisco quindi perché vengo espulsa, ho portato avanti valori e ideali del M5s».

La notizia mi sembra effettivamente paradossale: un partito che sta al governo nazionale da alcuni mesi col Partito democratico si permette il lusso(?) di cacciare una sua esponente rea di far parte di una giunta locale guidata da un sindaco del Partito democratico. A Roma si può a Pesaro no! Valli a capire questi grillini. Non sanno dove tenere il culo e, una volta che lo hanno appoggiato in un posto, pretendono che una collega di periferia resti in piedi per non fare luce alle loro scelte di vertice. Strano concetto di democrazia.

Adesso diranno che la Frenquellucci si era candidata nel 2019 in contrapposizione a Matteo Ricci (la politica italiana è fin troppo piena di Matteo) e quindi per rispetto dei suoi elettori pesaresi non avrebbe potuto allearsi col nemico. Forse che Luigi Di Maio non si era presentato alle elezioni politiche in alternativa alla Lega e al PD per poi stipulare contratti e patti di governo prima con la Lega e poi col PD? A Roma sì, a Pesaro no! In Umbria sì: c’era un patto col PD che non ha funzionato, ma esisteva una seppur frettolosa alleanza per il governo regionale. In Emilia-Romagna no: niente alleanza con Bonaccini. Un colpo al cerchio e uno alla botte, un ministero a me, una piazza a te. Ma fatemi il piacere. Questa sarebbe la politica nuova che cambia l’Italia?

C’era un partito specialista in queste alleanze mobili, era il PSI, soprattutto quello capeggiato da Bettino Craxi. Con la DC a Roma, con il PCI in parecchi comuni: l’ago della bilancia di chi presume di potersi alleare a seconda del tempo che fa e dell’aria che tira. Però, se qualcuno si ribella a queste ondivaghe scelte di campo, osa alzare il dito e obiettare, viene buttato fuori di brutto.

A proposito di espulsioni dal M5S: credo che abbiano perso il conto, non ci si capisce più niente. Se vanno avanti così restano in pochi ma carissimi amici, con pochi ma incazzatissimi elettori. E Beppe Grillo? Quasi ammutolito e se prova a parlare fa la fine di don Pasquale con la finta moglie Norina. Il marito vede e tace: quando parla non s’ascolta. Mi dispiace per la Frenquellucci, ma meglio riderci sopra.