Da coronavirus a cerebrovirus

Si può morire per eccesso di informazione? Paradossale, ma direi proprio di sì. Il nostro sistema sanitario è al collasso, quello informativo è drogato. 24 ore su 24 a parlare di coronavirus, facendo uscire messaggi contrastanti, notizie allarmistiche, incutendo panico, salvo poi lamentarsi perché la gente è presa dal panico. Gli allarmi si susseguono ininterrottamente, lo scopo non è quello di dare consigli utili, ma di vomitare previsioni disastrose e analisi spaventose. Nessuno che dia un segnale di speranza, tutti si rincorrono a chi la spara più grossa e tragica. Una vera e propria istigazione alla paura.

Anche i governanti centrali e periferici potrebbero fare di meglio a livello comunicativo: parlare meno, dire cose essenziali e certe, non lasciare trapelare indiscrezioni, smetterla con i bollettini di guerra, dare consigli utili e soprattutto non dare l’impressione che la sanità non sia più in grado di far fronte nemmeno alle necessità più gravi dei malati. Gli esperti e gli operatori sanitari dovrebbero allontanarsi drasticamente dalle passerelle loro offerte, anche perché spesso non sono in grado di dare certezze e di dubbi non abbiamo decisamente bisogno.

In questi ultimi giorni si parla di due possibili provvedimenti: un black out generalizzato e la nomina di un commissario che prenda in mano le redini della situazione. Non entro nel merito, mi limito a farne una questione di metodo. Ipotizzare un fermo totale della nazione per un certo periodo svaluta automaticamente i provvedimenti adottati finora, lasciando intravedere la loro insufficienza ed inefficacia, instillando il dubbio che la situazione sia ben più grave di quanto si pensi e che si stia brancolando nel buio. Parlare di un commissariamento per affrontare l’emergenza mette in cattiva luce e indebolisce le istituzioni impegnate: se si parla di un’autorità extra vuol dire che quelle intra non sono in grado di affrontare il problema e di governarlo. Mi chiedo se questo sia il modo di collaborare e remare nella stessa direzione…

Si è scatenato un gioco al massacro, che va ben oltre la gravità del virus, aggiungendone un secondo, e da cui usciremo con le ossa stritolate. Il messaggio è quello di stare tappati in casa (e fin qui ci si arriva), di stare incollati al televisore a sorbirsi una gigantesca tortura mediatica (e questo non lo accetto), di essere isolati da tutto e da tutti (e questo è peggio del coronavirus), di misurarsi la febbre in continuazione mandando in tilt i termometri (da persona ansiosa ci sto cascando alla grande), di spaventarsi all’insorgere di qualsiasi disturbo (ipocondria di importazione), di stare male anche se si sta bene (autosuggestione bella e buona).

Dopo di che arrivano i migliori fichi del bigoncio a dirci di non avere paura, di non farci prendere dall’ansia, di non cadere nelle crisi di panico, di stare calmi e ragionare, di pensare ad altro, di cercare di distrarci, di sconfiggere la paura con la fiducia.    Se andiamo avanti di questo passo nelle ventimila e più assunzioni programmate tra medici, infermieri e personale ausiliario, la parte del leone la dovranno fare gli psicologi e financo gli psichiatri. È pur vero che i laureati in psicologia vanno di moda e non trovano lavoro, ma rischiamo di fare il rovescio di quanto faceva durante la seconda guerra mondiale l’occupante tedesco del nostro territorio.  Per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, facevano lavorare gli uomini “al canäl”, vale a dire nel greto del torrente per fingere opere utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe. Noi per occupare gli psicologi distruggiamo, a margine del coronavirus, l’equilibrio mentale delle persone per poi affidarle alle loro cure nel post coronavirus, che nel frattempo sarà magari diventato cerebrovirus. E noi rimarremo, se vivi, cerebrolesi.

 

 

L’irrinunciabile solidarietà

La sconvolgente emergenza che stiamo vivendo forse dovrebbe indurci più a riflettere che ad agitarci alla ricerca di impossibili difese e sicurezze. Non sottovaluto l’impegno di tutti quanti a vincere questa autentica guerra contro un invisibile e subdolo nemico: si tratta di assumere atteggiamenti e comportamenti virtuosi, che purtroppo tendono a considerare le altre persone come possibili anche se involontari untori a nostro danno. Le inevitabili regole dettate dalle autorità hanno una immediata e fortissima valenza divisiva: ne voglio passare rapidamente in rassegna alcune.

Mantenere una distanza di almeno un metro, qualcuno aveva addirittura proposto due metri, dalle altre persone, salutarsi da lontano senza baci, abbracci o strette di mano: un invito all’isolamento, a considerare l’altro come un pericolo, un soggetto da tenere a distanza.

Evitare i luoghi affollati, rimanere il più possibile a casa, sono vietati incontri pubblici, convegni, congressi: un invito a chiudersi nel proprio guscio, a optare, come sosteneva ironicamente un mio simpatico zio, per la compagnia in numero dispari inferiore a tre.

Volendo approfondire paradossalmente queste indicazioni, dobbiamo evitare di chiedere ai nonni di accudire ai nipoti, consigliare di andare al lavoro se è proprio indispensabile. Siamo costretti a ribaltare le regole della civile convivenza. Sinceramente mi chiedo se non sia peggio il rimedio della malattia, rischiamo di infettarci tutti di egoismo e individualismo.

È la fine del nostro vivere civile? Regrediamo in una jungla? Desertifichiamo la nostra società? E i nostri affetti, i nostri amori, le nostre amicizie? Facciamo tutto al telefono? Non sarà per caso la rivincita dei telefonini se mai tentavamo di ridimensionarne la portata? La paura, da che mondo è mondo, andrebbe combattuta parlando con gli altri, confrontandosi con loro, socializzando: ora va combattuta chiudendosi in se stessi ed elevandola all’ennesima potenza.

Il bagno di sangue del coronavirus con la morte di tante persone rischia di diventare la morte famigliare e sociale. Sto esagerando? Forse sì. E allora che fare? Ricordo come ai tempi dell’emergenza Aids ebbi un colloquio con un infettivologo al quale chiedevo utili consigli per una vita sessuale protetta e non repressa. Ad un certo punto si lasciò andare e mi disse (cito a senso): «Se devo essere sincero, io a certe “cose” non rinuncio, le considero il sale della mia vita». Era stato fin troppo chiaro. Il coronavirus è di gran lunga peggio dell’Aids a livello epidemiologico, ma anche in senso umano: per evitare il contagio nel primo caso era sufficiente astenersi da certi comportamenti sessuali trasgressivi, nel caso coronavirus, volendo estremizzare, non si può stringere la mano ad un amico né dare un bacio alla propria compagna.

Mi ripeto: e allora che fare? La risposta esatta sarebbe, è solidarizzare. Sì, ma senza gesti di solidarietà?! Ricordo quel paragone impossibile che diceva di un tale: aveva un alito talmente fetido che non si poteva nemmeno parlargli al telefono. Già essere solidali è difficile, ora diventa quasi impossibile! Gesù toccava i lebbrosi, noi non possiamo nemmeno stringere la mano al più caro amico.

A proposito di strette di mano, nell’opera lirica “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi, un giudice chiede a Riccardo di firmare l’atto di condanna a morte della maga Ulrica, ma il governatore preferisce conoscerla di persona e si reca in incognito nel suo antro, accompagnato da Oscar un giovane paggio e da un gruppo di amici, chiedendole di predirgli il futuro. La maga gli predice che sarà’ ucciso dalla prima persona che gli stringerà la mano, ma l’arrivo di Renato e la sua amichevole stretta di mano sembrano tuttavia fugare ogni timore. Finì invece molto male perché Riccardo venne ucciso da Renato per avergli insidiato la moglie.

Scherzi del destino a parte, penso che i gesti di amore, amicizia e solidarietà siano a prova di coronavirus. Chiedo scusa se sono stato molto provocatorio, quasi disfattista, ma a fin di bene. Non intendo fare alcuna (auto)istigazione alla disobbedienza, ma riempire di significato l’ubbidienza.  Volendo estremizzare eticamente il discorso, preferisco morire per un gesto d’amore che vivere (?) per l’effetto di tanti gesti di egoismo.

Al spetacol l’è fnì e al stadio ‘l s’vuda

Mio padre non era un soggetto che seguiva le partite in modo distaccato; era molto coinvolto, amava il calcio, (lo considerava lo sport più bello del mondo, perché semplice, giocabile da tutti, molto comprensibile, affascinante e trascinante nella sua essenzialità, spettacolare nella sua variabilità ed imprevedibilità), sentiva fortemente l’attaccamento alla squadra della sua città (soprattutto nelle partite stracittadine con la Reggiana soffriva fino in fondo) e non sottovalutava il fenomeno “calcio” (fotball come amava definirlo in una sorta di inglese parmigianizzato). Era però capace di sdrammatizzarlo, di razionalizzarlo, di criticarlo e ridimensionarlo. Chissà cosa direbbe in questi giorni osservandolo con gli occhiali del coronavirus.

Sulla scena ci sono ben cinque protagonisti: vediamone il comportamento. Iniziamo dagli attori principali: i giocatori. Ebbene, questi professionisti spesso superpagati, vezzeggiati e osannati, hanno paura del coronavirus. Fin qui niente di strano, tutti abbiamo paura e cerchiamo di difenderci, di non cadere però dalla prudenza al panico. La loro professione indubbiamente li espone al rischio contagio: il calcio è fatto di contrasto fisico, di contatti ravvicinati, di rapporti strettissimi. Lasciamo perdere le effusioni assai poco professionali, che sanno di incitamento più che di soddisfazione. Risulta però che i calciatori siano costantemente controllati da medici, sottoposti a test e difesi con l’adozione di prassi igienico-sanitarie negli ambienti dove si svolge la loro attività.  La domanda è: deve prevalere la cautela o è meglio interrompere completamente la loro attività in attesa di tempi migliori? Non voglio fare demagogia, ma tante altre categorie di lavoratori, pubblici e privati, sono a rischio eppure lavorano adottando misure protettive. Ma il calcio non è essenziale, non fa parte delle attività di pubblica utilità, quindi sarebbe opportuno sospendere il tutto? La faccenda si fa pirandelliana. E se sospendere volesse dire bloccare tutto per un lungo periodo, mettere in crisi un sistema per non riprendere mai più alle stesse condizioni?

Secondo protagonista: la dirigenza delle società calcistiche e delle loro federazioni e leghe. A questo livello il sistema sta esprimendo il peggio di sé. Tutti guardano la cassetta e difendono scriteriatamente i propri interessi di bottega. Giocare senza pubblico è un danno. Rimborsare gli abbonati forse non è obbligatorio. I contratti con le tv a pagamento vanno difesi con le unghie e coi denti. Rivoluzionare i calendari può falsare i campionati. Non si riesce a trovare un minimo di accordo sul da farsi. Si naviga a vista in una assurda incertezza, che aggiunge confusione e apprensione al clima già surriscaldato di per sé.

Ed eccoci al terzo protagonista: i media. Questi, come sta avvenendo per tutta l’emergenza coronavirus, più che informazione fanno uno squallido show. Ci marciano a più non posso, fanno sfoggio di protagonismo, soffiano sul fuoco delle polemiche, si autocandidano a perno attorno a cui far girare il circo pallonaro. Sotto sotto hanno una paura folle di perdere il loro ruolo, si ergono a difensori del sistema, sputano sentenze, fanno sfoggio di ricette miracolistiche, dicono e disdicono tutto e il contrario di tutto. Fin che la barca va…

Il quarto incomodo protagonista: il ministro dello sport. Vincenzo Spadafora è passato da un giusto scetticismo verso il sistema calcio (vedi “Non mi preoccupo dello stress dei milionari calciatori costretti ad un super lavoro per ricuperare i rinvii; sono molto più interessato alle fatiche di medici, infermieri, operatori sanitari costretti ad un superlavoro, a turni faticosi, a rischi di contaminazione, etc.”) alla proposta della trasmissione televisiva in chiaro delle partite giocate senza pubblico (una sorta di circenses al posto del pane), dalla scelta di rinviare all’autogoverno calcistico le opzioni di fondo pur nell’ambito delle indicazioni governative globali ed universali (della serie vedetevela voi, perché a me scappa da piangere…) alla tentazione di sospendere il tutto per decreto (dando ascolto a quei calciatori che qualche giorno prima non meritavano attenzione). Evviva la coerenza!

Il quinto protagonista è il pubblico, quello degli spalti vuoti, quello delle tv a pagamento, quello del tifo sentimentale e quello del tifo sbracato e violento. Non c’è più, non si vede e non si sente. Soffre e tace. Si esprime solo sui social aizzato dai media, in una sorta di ignobile connubio fra chi mangia il pane a tradimento e chi lo ha fino ad ora pagato a caro prezzo. Dove sono finiti i cori razzisti, gli sfoghi pseudo-politici, le guerre fra curve, le scaramucce intorno agli stadi, le violenze annesse e connesse al calcio? Pausa: non di riflessione, ma di autocompassione. Volendo parafrasare Renzo Pezzani, si potrebbe dire:”Al spetacol l’è fnì e al stadio l svuda”.

Ho cominciato, come spesso accade, citando gli insegnamenti paterni. Concludo con un episodio tutto mio (mio padre non c’entra perché riguarda il periodo del Parma in serie A ed era ormai troppo anziano per frequentare lo stadio). Il Parma era stato promosso in serie A dopo un campionato trascinante ed entusiasmante, finalmente salivamo nell’Olimpo: da parte mia non ripudiavo gli anni difficili, quelli gloriosi e sofferti. La partita d’esordio in serie A ci metteva in soggezione davanti alla Juventus ed un pubblico strabocchevole si preparava a varcare i cancelli del “Tardini”, ampliato, ristrutturato, messo a nuovo anche se non ancora pronto per un ruolo diverso. Si respirava un’aria di attesa ma anche di confusione e di disorganizzazione da esordio, tale da creare una ressa pazzesca all’ingresso ed una lunga coda sotto un sole ancora cocente, in un clima nuovo a cui non si era abituati. Mi venne spontanea una battuta, molto meno bella rispetto a quelle che elargiva mio padre con la sua solita nonchalance, che tuttavia risultò abbastanza buona e fu accolta con una risata generale: “Mo se stäva bén quand al Pärma l’era in serie B o C. A s’ gnäva al stadio a l’ultim minud, sensa còvvi e sensa confuzjón. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”.

Non vorrei che, dopo un lungo periodo di chiusura degli stadi o, peggio ancora, di sospensione dei campionati, alla ripresa della kermesse mi capitasse di pensare amaramente ad alta voce: “Mo se stäva bén quand an gh’era miga il partidi par via dal coronavirus. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”. Volete scommetterci che andrà a finire così? Anzi, speriamo vada a finire così: vorrebbe dire che abbiamo passato la nottata, senza perdere il giusto spirito critico, anzi accumulando ancor più spirito critico verso il nostro sistema, che va ben oltre il calcio, senza poterne fare a meno.

 

 

 

 

Così bravi, così…

Quando facevo parte della Commissione teatrale del Regio di Parma, a volte mi scoraggiavo di fronte agli esperti, che criticavano il nostro operare vantando titoli accademici e preparazione culturale tali da farmi vergognare e sentire un usurpatore di un ruolo che sarebbe spettato a loro. Mi consolava un collega, assai più convinto e battagliero di me, che mi rassicurava: non preoccuparti, ascoltiamoli, ma poi andiamo avanti per la nostra strada; se fossero loro al nostro posto, con la smania perfezionista che si ritrovano e la radicalità del pensiero che hanno, probabilmente il sipario non si alzerebbe mai, perché loro continuerebbero a discutere su scelte che non avrebbero mai il coraggio di compiere. Non aveva tutti i torti.

Ha perfettamente ragione il presidente Mattarella a consigliare di affidarci alla scienza, ad avere fiducia in essa, ma quando si arriva al dunque…Dopo aver ascoltato gli agognati e seri pistolotti di Giuseppe Conte e Sergio Mattarella mi ero rassegnatamente e responsabilmente calmato di fronte alla valanga di notizie sempre più allarmanti sul coronavirus. Senonché poi arrivano i nostri, scienziati ed esperti, a rimettere in discussione tutto, a scontrarsi su tutto, ad esprimere pareri contrastanti. Sta succedendo sulla chiusura delle scuole: la gaffe del tira e molla sulla decisione adottata dal governo sarà stata indubbiamente una conseguenza delle titubanze ministeriali, ma anche di quelle scientifiche.

Una cooperativa sociale aveva un serio problema amministrativo da risolvere: fui invitato alla riunione e diedi un consiglio dettato più dal buon senso e dall’esperienza che dal rigoroso rispetto della teoria. Il consiglio di amministrazione era composto da fior di professionisti, avvocati, notai, commercialisti, che si sbizzarrirono a prospettare soluzioni tanto sofisticate quanto inagibili. Il presidente, uomo impegnato in prima linea, tra lo spazientito e il realistico, mise fine alla discussione, sposando in toto la mia proposta, che era stata massacrata dagli esperti, ma alla fine si rivelava quella più concreta e attuabile. Al di là della legittima soddisfazione personale, mi sembra che l’episodio abbia un significato: va benissimo la scienza, ma poi bisogna vivere, convivere e affrontare la cruda realtà.

Tutte le critiche possibili e immaginabili si possono rivolgere all’attuale consiglio dei ministri al quale riconosco tuttavia grande impegno e dedizione indiscutibile. Proviamo a immaginare se al posto della compagine ministeriale ci fosse il gruppo dei «magnifici otto», che comprende scienziati e tecnici di primo livello: a partire da Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, Agostino Miozzo, braccio destro di Borrelli alla Protezione civile, Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, Claudio D’Amario, direttore della prevenzione al ministero della Salute, Giuseppe Ruocco, direttore generale dello stesso dicastero. Per arrivare a Mauro Dionisio, direttore della sanità marittima e di frontiera, Francesco Maraglino, direttore della prevenzione alla Salute e Alberto Zoli, a capo dei servizi di emergenza lombardi. Metterebbero a confronto le loro opinioni, ma non ci salterebbero mai fuori. A ciascuno il suo mestiere. Che mi infastidisce è però il tono da salvatori della patria che questi signori assumono: brancolano nel buio tanto come noi e quindi stiano un tantino più controllati, moderati e magari a volte anche zitti, soprattutto a livello mediatico. A quanto pare il primadonnismo non è monopolio dei politici.

Dopo aver letto i pareri discordanti degli esperti sull’efficacia e la durata della chiusura delle scuole, ho perdonato tanti errori ed omissioni ai nostri governanti. Sono tornato sui discorsi di Conte e Mattarella per ritrovare un minimo di serenità. Ho sentito però dentro di me una vocina, che mi sussurrava: “È la scienza, stupido!”. Chiedo scusa e mi ritiro in buon ordine.

 

Emergenza continua e totale

Esiste una categoria di persone che non sa un cazzo, ma lo dice bene. Era la specialità di Gianfranco Fini, a detta degli uomini di cultura della sua area politica. La categoria è in continua espansione soprattutto in periodi in cui i problemi si fanno drammatici e aumenta il numero di quanti dettano ricette miracolose e sfoderano bacchette magiche.

Grazie a Dio e a lui, il professor Massimo Cacciari appartiene ad un’altra categoria, che effettivamente si esprime un po’ su tutto, ma non solo dice bene, ma dice cose intelligenti e profonde. Un tuttologo di grande rispetto, che merita di essere ascoltato. Sul tema coronavirus ha fatto due ragionamenti molto interessanti: li riprendo brevemente, aggiungendo qualche mia ulteriore valutazione, che mi auguro non stravolga il pensiero dell’illustre filosofo prestato alla società.

Il primo parte dalla necessità conclamata, per la nostra società e per chi la governa a tutti i livelli, di fronteggiare le emergenze continue e di vario genere, tipiche del mondo globalizzato in cui viviamo: dalle mastodontiche crisi finanziarie agli inarrestabili flussi migratori, dalle rovinose situazioni climatiche al degrado dell’ambiente, dalle guerre tra ricchi a quelle tra poveri, dagli insorgenti e sbracati razzismi alle emergenze sanitarie come il coronavirus. Bisogna cioè essere sempre e costantemente preparati al peggio e tarare conseguentemente strutture, strumenti, risorse umane e finanziarie in modo da farvi fronte. Una sorta di protezione civile totale.  A ben pensarci si tratta di un ribaltone culturale: dobbiamo passare da prospettive di miglioramento e progresso a sforzi di contenimento dei rischi e di mantenimento del positivo esistente.

Il secondo è un discorso etico: è inutile, retorico e fuorviante dichiarare, come avviene in questi giorni, che prima viene il contrasto alla malattia epidemica e poi viene l’emergenza economica. L’economia in grave crisi, infatti, soprattutto con i suoi contraccolpi a livello lavorativo, genera altrettante malattie psicologiche e sociali: disoccupazione, frustrazione, squilibri famigliari, devianze, etc. Non si può affrontare la situazione a fette, va vista nel suo complesso e come tale va governata. Tradurre in pratica questo ragionamento è di una difficoltà estrema, anche se diversamente si rischia di sbagliare la mira e creare panico su panico.

Tento di fare due esempi per riflettere sulle provocatorie ma imprescindibili analisi cacciariane. Il sistema sanitario dovrebbe essere tarato sulle possibili e probabili emergenze a livello di strutture, di personale, di organizzazione, senza sprecare nulla, ma senza risparmiare niente in termini di risorse umane e finanziarie. In campo economico, se crolla la domanda interna ed internazionale non basta iniettare qualche miliardo a sostegno della produzione, ma occorrerebbe una gigantesca cassaintegrazione capace di assorbire nel tempo e nello spazio gli aggiustamenti necessari a livello imprenditoriale. E i bilanci pubblici dove andrebbero a finire? Se vogliamo essere e rimanere uomini, dobbiamo trovare le risorse, considerando che tali indirizzi governativi a loro volta potrebbero e dovrebbero creare sicurezza, qualità di vita, salute e quindi rimettere in moto, seppur diversamente l’economia. Questi discorsi non valgono solo per l’Italia, ma per l’Europa e per il mondo. In questi anni ci siamo riempiti la bocca parlando di globalizzazione economica, sarà il caso di cominciare a parlare di globalizzazione sociale piuttosto che retrocedere nello sciocco sovranismo antivirale.

Al professor Cacciari è stato chiesto se ha paura di essere contagiato dal coronavirus, dal momento che ragionava di massimi sistemi e sembrava prescindere dal panico dilagante. Ha risposto di non avere alcuna paura, pur ammettendo che anche la paura è un elemento che contribuisce a creare il contesto su cui la politica in generale e chi governa in particolare devono intervenire. Mi permetto di aggiungere una mia affermazione personale: anch’io non avrei alcuna paura del coronavirus, se il rischio rimanesse circoscritto alla mia persona, alla mia vita, alla mia malattia ed eventualmente alla mia morte. Ma purtroppo non è così e la mia sorte è strettamente legata a quella altrui, sono connesso agli altri, a chi amo, a chi conosco, a chi non conosco e il mio disinvolto comportamento potrebbe creare guai seri a chi mi circonda. Ragion per cui non devo avere paura, ma devo stare ben attento a quel che faccio!

 

 

Un ignobile ping-pong sulla pelle dei disperati

Chiodo scaccia chiodo: è un modo di dire antichissimo, una locuzione entrata ormai nell’uso comune. Ma cosa significa realmente? L’espressione ha un significato intuitivo piuttosto semplice: per cacciar via un chiodo piantato male bisogna spingerlo via battendolo dall’altra parte con un altro chiodo. Generalmente il meccanismo funziona: quando sopraggiunge o immettiamo nel nostro circuito psicologico un nuovo forte evento, questo attutisce od elimina l’effetto di un fatto precedente che ci angustiava o preoccupava. Una sorta di rimozione artificiale di un problema tramite un altro generalmente più attuale.

Mi sto chiedendo se il coronavirus stia funzionando come chiodo di ribattuta nei confronti del problema immigrazione. Da quando è esplosa l’epidemia se ne parla pochissimo nonostante proprio in questi ultimi giorni si stia riaprendo il fronte caldo al confine tra Turchia e Grecia. Scene da inumanità conclamata: da una parte i turchi che spingono strumentalmente gli immigrati presenti sul loro territorio verso l’Unione europea, utilizzando la porta d’ingresso greca; dall’altra parte i greci che non ne vogliono sapere di fare da carta assorbente di questo nuovo flusso e reagiscono in modo brutale contro i disperati che tentano il passaggio.

La Turchia si impegnò nel 2016 ad ospitare in modo umanitariamente corretto i migranti siriani in base ad una sorta di contratto d’appalto, stipulato in modo piuttosto strano e inaffidabile a suon di miliardi pagati dalla Ue. Ora, per motivi economici (probabilmente ci saranno ritardi nei pagamenti o si vorrà alzare il prezzo) e per motivi di realpolitik (si cercano appoggi per la schizofrenica e vomitevole politica turca nei confronti della Siria), sembra sia partito il “liberi tutti” ed i migranti, evidentemente e disperatamente insoddisfatti della loro attuale sistemazione, stanno tentando di forzare i blocchi per entrare in territorio europeo.

I patti del 2016 erano sicuramente poco chiari e poco lungimiranti, roba fatta per guadagnare tempo, senonché il tempo è passato e il problema si sta riproponendo, finendo addosso, in prima battuta, alla Grecia. Il dittatore di fatto della Turchia, Erdogan, si sta rivelando squallido personaggio alla ricerca di alleati per le sue squallide politiche interne ed internazionali. Qualcuno sostiene che occorresse a suo tempo accogliere Erdogan in Europa per tentare di tenerlo al guinzaglio: un cane aggressivo e pericoloso è meglio averlo nel cortile di casa piuttosto che vederlo aggirarsi intorno a casa. Io rispondo che i cani di un certo tipo andrebbero messi in un canile tentando di calmarli con potenti farmaci ad hoc.

Qualcun altro ha preferito blandire il cane offrendogli invitanti ed abbondanti pasti, illudendosi, come si dice avvenga per le bestie feroci nei circhi, che, placata la fame, l’aggressività diminuisca e quindi possa essere controllata e domata. Altro errore perché l’appetito vien mangiando ed Erdogan di appetito ne ha parecchio. Fatto sta che la Grecia si trova ad affrontare un’emergenza, che diventerà presto, anzi è già europea e italiana. La polizia spara contro i migranti: si dice stiano avvenendo robe da chiodi, per rimanere in linea con il detto da cui sono partito. L’Europa, come al solito, a livello istituzionale, fa il solletico al problema con sopraluoghi inutili e dichiarazioni generiche; i singoli stati membri fanno, come al solito, i pesci in barile, considerato il fatto che in questo momento, oltre tutto, il barile è strapieno di coronavirus.

Non esiste una politica verso l’immigrazione, si naviga a vista, si vivacchia voltandosi dall’altra parte rispetto alle situazioni inumane che si vengono a creare. Le difficoltà non mancano, ma possibile che non si possa trovare un minimo di strategia di accoglienza basata sul rispetto dei principi umanitari ed una politica di integrazione basata sul ruolo che questi immigrati possono avere in Europa a livello lavorativo e sociale? Non penso possa valere il discorso del “chiodo scaccia chiodo”: i chiodi sono parecchi e tutti ben piantati. Forse sarebbe meglio trovare un nuovo modo di dire: “emergenza chiama emergenza”.

 

Tamponi a tutto…risparmio

Non voglio metterla sul patetico e infatti parto cinicamente con una battutaccia per sdrammatizzare il clima che sta montando ogni giorno di più. Un amico di mio padre, quando la compagnia slittava verso argomenti piuttosto tristi, reagiva con questa uscita: “Ragas, parläma ed còzi alégri: co’ costarala ‘na càsa da mòrt?”.

Però non posso rimanere sul tragicomico e devo per forza virare sul drammatico: mio padre stava per arrivare al traguardo, aveva ormai poche ore di vita, aveva perduto conoscenza e assieme a mia sorella manifestammo l’intenzione di rimanere al suo capezzale in ospedale per quella che per lui ormai sembrava l’ultima notte. Niente da fare. La regola voleva che rimanesse solo una persona per, come disse sarcasticamente mia sorella, “divertirsi a veder morire il proprio padre”. Non ci fu verso. Ricordo di aver detto al medico responsabile, peraltro giovane componente di una famiglia amica: «Pur con tutto il rispetto per la vostra professione, voi state facendo una sanità a vostra misura e non a misura d’uomo». Mio padre quella notte morì, rimasi io vicino a lui fino a quando si intravide la fine e telefonai a mia sorella, che era tornata a casa ad aspettare una mia chiamata definitiva.

Perché ho ricordato questo triste episodio? Perché ho avuto l’impressione che, dal punto di vista sanitario, la lotta contro il coronavirus fosse partita di gran carriera puntando sulla diagnosi precoce e sulla difesa delle persone: tamponi a tutto spiano (l’unico strumento per individuare il contagiato, isolarlo, curarlo adeguatamente anche a difesa dell’incolumità altrui).  Poi, strada facendo, il discorso si è ridimensionato per motivazioni strutturali: la spesa eccessiva dei tamponi, l’impiego di troppo personale, gli ospedali intasati, il sistema a rischio collasso.

In Italia, si dice, abbiamo il miglior sistema sanitario esistente al mondo, con punte di eccellenza soprattutto nelle regioni più colpite dal coronavirus. Sarà anche vero, ma alla prova emergenziale le strutture sembrano andare in tilt. Si scarica il discorso sulla “inutil precauzione” e ci si limita a fare accertamenti solo in casi di conclamata e grave sintomatologia: se andiamo avanti così, faranno probabilmente il tampone solo a chi è in coma. L’ordine sembra esser quello di dedicarsi solo ai casi obiettivamente più chiari e gravi.

Della serie non si può andare al bancone dei bar, ma si può avere la febbre a trentanove gradi, aspettando che passi con la tachipirina. Misteri del coronavirus.  Da una parte ho l’impressione che si intenda coprire, per lo meno in parte, la verità, sfoltendo la processione dei tamponi, dall’altra vedo un allarmismo pazzesco fomentato da misure preventive da tempo di guerra. Il filo logico, se può mai esservi, ha tentato di trovarlo il premier Giuseppe Conte, in una equilibrata e finalmente non più troppo reticente dichiarazione pubblica. Ha ammesso che l’obiettivo di fondo è quello di contenere la diffusione del virus (di più non si può fare) e di renderla compatibile con le nostre strutture sanitarie al collasso. Meglio saperlo, per sapersi regolare.

Mettiamoci d’accordo! Di fronte a tutto ciò v’è chi cerca di fregarsene altamente e di continuare la propria vita nella normalità. V’è chi si fa prendere dal panico e dalla paura e non vive più. Conte ha proposta una terza via della ragionevolezza e del buon senso. Non so se ci riusciremo. Una cosa è certa: alla fine dei colloqui, che si hanno con persone amiche, durante i quali la lingua va sempre a finire su questo argomento, non è un caso che si concluda sempre il discorso con uno “speriamo bene”, che la dice lunga non sulla virtù della speranza, ma sul realismo della rassegnazione.

E pensare che non volevo scrivere niente sul coronavirus…

Grillourlanti senza voce

Si sono svolte a Roma, pur nel clima a dir poco influenzato dai timori del coronavirus e dal blocco del traffico, le elezioni suppletive per scegliere il sostituto in Parlamento di Paolo Gentiloni, nominato commissario europeo. Alle urne è andato il 17,66% degli aventi diritto al voto, ovvero 32.880 persone su 186.234. Ha stravinto Gualtieri, ministro dell’Economia del governo Conte, supportato dal centrosinistra unito, che ha incassato il 62,2% dei consensi. Maurizio Leo, sostenuto dal centrodestra ha raccolto il 26% dei voti, mentre il M5S che si è presentato con Rossella Rendina ha ottenuto poco più del 4%.

La limitatissima portata quantitativa del test ed il suo condizionamento da fattori esterni alla politica non danno un grande significato ai risultati. Tuttavia qualche segnale si può cogliere anche in coerenza con l’esito delle recenti suppletive di Napoli. Il residuale e frastagliato popolo di sinistra si sta ricompattando e sta ritrovando un certo filo conduttore a livello ideale, sociale e politico: nonostante tutto la sinistra rimane un punto di riferimento irrinunciabile. L’elettorato di destra, dopo la brutta scottatura emiliana, preferisce stare sotto l’ombrellone, fare melina in attesa della stagione migliore e definitiva. I pentastellati non sono più in movimento, si sono fermati a guardarsi l’ombelico non osando scendere al di sotto per vergogna e non avendo la forza propulsiva per salire verso il cuore ed il cervello della gente: si stanno sciogliendo come neve al sole; sono spuntati a suo tempo come funghi e, passato quel tempo favorevole, i funghi si sono rivelati poco commestibili. E pensare che a Roma stanno (male) amministrando il comune.

I commenti non si sprecano, la politica è in tutt’altre pericolose faccende affaccendata, anche se mantiene ancor più la sua importanza vitale. I successi della sinistra, ad urne quasi vuote, da una parte non devono illudere i suoi esponenti considerata la bassa affluenza alle urne, dall’altra però stanno a dimostrare che le restanti forze politiche pescano in un elettorato assai superficiale e distratto al limite del qualunquismo, un elettorato in balia degli eventi e delle sensazioni momentanee. La politica italiana è molto fluida ma poco consistente. Non mi rallegro affatto del declino pentastellato e non mi iscrivo alla categoria dei grilloparlanti contro i grillourlanti: abbiamo malamente sprecato una possibilità di rinnovamento e non c’è niente da ridere. Dove finiranno i voti regalati frettolosamente al M5S? Temo restino in balia delle onde alla disperata ricerca di una scialuppa di salvataggio, disposti a salire sulla prima che si renda disponibile. Queste scialuppe vengono storicamente approntate dalla destra, capace di corrispondere alle paure ed alle frustrazioni della gente.

Beppe Grillo se ne è reso conto: si sta aggrappando alla tanto bistrattata sinistra rappresentata dal partito democratico, in attesa che si calmi la tempesta per poter riprendere ad urlare. Temo sarà troppo tardi e si dovrà accontentare di salvare politicamente la pelle e la faccia sulla barca democratica. Tanto andò il grillo all’urlo che ci lasciò la voce.

Nel pallone coronavirale

Mia madre osservava in modo attento, ma disincantato, le vicende del mondo del calcio: mi faceva compagnia mentre guardavo le partite in televisione, se ne usciva con osservazioni e domande simpatiche ed acute. A volte, davanti al vortice degli eventi calcistici accompagnati dalle solite ed insulse sbornie mediatiche, si lasciava andare ad una sferzante domanda/commento: «Cò farisla tùtta cla genta lì, se neg fis miga al balón?».  Ben detto dei protagonisti principali, secondari e terziari di un mondo sempre più paradossale ed assurdo: quelli che io amo chiamare “magnabalón”.

Il coronavirus ha il “macabro merito” di portare il fenomeno allo scoperto con tutte le contraddizioni al limite della buffonata, con tutti gli interessi al limite della sporcaccionata, con tutti i difetti al limite del bordello. Il mondo del calcio sta dando una dimostrazione della sua pessima capacità di autogoverno: ordini e contrordini, baruffe interne, privilegi e conflitti. Sui media viaggia la domanda: il campionato di calcio verrà falsato dal coronavirus così come è gestito, in modo a dir poco dilettantesco da un management super-pagato e super-impreparato? Ma il campionato di calcio è di per se stesso una falsificazione dei valori sportivi ridotti a rissa miliardaria! L’attuale emergenza non fa che evidenziare i mali preesistenti, non è che la ciliegina su una torta sofisticata e avvelenata.

Ho molto apprezzato il commento del ministro Spadafora sulla querelle “si gioca, non si gioca, si gioca a porte chiuse, si rinvia a data da destinarsi” etc.”, in risposta al tentativo di scaricare sul governo responsabilità tutte pallonare. Cito a senso: “Non mi preoccupo dello stress dei milionari calciatori costretti ad un super lavoro per ricuperare i rinvii; sono molto più interessato alle fatiche di medici, infermieri, operatori sanitari costretti ad un superlavoro, a turni faticosi, a rischi di contaminazione, etc.”. Finalmente, mi sono detto, il M5S, di cui Spadafora è un esponente, fa il suo mestiere di denuncia delle cose che non vanno: un pizzico di demagogia, questa volta, ci sta benissimo. Bravo Spadafora!

Il fronte sportivo è scombussolato dall’emergenza coronavirus: nei primissimi giorni dell’acclarato contagio sono stati sospesi gli avvenimenti sportivi localizzati nelle regioni più a rischio. Partite di calcio bloccate. Si doveva giocare la finale della coppa Italia di basket in un palazzetto dello sport sito in un comune del bolognese. Ero interessato a questo evento un po’ per uscire dalla routine calcistica dedicandomi alla pallacanestro. Mio padre la chiamava “palla al cesto” con un finto strafalcione ironico, ne era tuttavia interessato, anche se lo riteneva sarcasticamente lo sport inventato per gli spilungoni (“Pistolón”, per dirla in modo schietto e netto), che altrimenti non avrebbero saputo come e dove giocare per guadagnare fior di quattrini (sempre la solita storia).

Ebbene quella partita di basket si è giocata (in un ambiente chiuso ed affollatissimo, certamente molto più a rischio di uno stadio all’aperto) alla faccia dell’emergenza coronavirus, con tanto di dichiarato ed espresso ringraziamento al governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Guardando quell’incontro, peraltro bello e coinvolgente, mi chiedevo brutalmente e polemicamente, senza alcun intento offensivo: Bonaccini o è un delinquente o è un cretino… Propendo per la seconda ipotesi limitata a questo fatto (lo dico anche perché l’ho votato convintamente). Al di là dello smarrimento di Bonaccini e di tutti i pubblici amministratori, è emersa subito una confusione di idee del mondo sportivo incapace di autogestirsi ed autoregolarsi.

So benissimo che lo sport rappresenta una quota importante del pil nazionale, che ha una grossa portata umana e sociale, ma cerchiamo almeno di essere seri in occasioni come questa. Qualcuno dubita che il tira e molla sulle partite di calcio e la volontà di giocare col pubblico e non a spalti deserti siano dovuti alla preoccupazione di non dare all’estero dell’Italia un’immagine di paese contaminato ed appestato. Ebbene stiamo dando un’immagine ben peggiore, cioè quella di voler affrontare i più gravi problemi all’italiana, cioè “saltandoci fuori ad una qualche maniera”.

Ho cominciato il pezzo con mia madre e lo chiudo con lei. Fra le gustose chiacchiere, di cui mi onorava a margine delle partite di calcio, c’è una domanda sibillina, retorica, ma molto profonda e, per certi versi, molto attuale: se il pallone entra in porta e poi esce, il gol è valido? A parte il fatto che nella sua semplicità probabilmente profetizzava la cosiddetta “goal line Technology”, il marchingegno inventato per vedere se il pallone supera la linea di porta, certamente intendeva sdrammatizzare il calcio e ridurlo a quello che dovrebbe essere, vale a dire un gioco. Chi lo vuole enfatizzare e portare a fenomeno vero e proprio finisce col farne una buffonata virale.

Non fermate il mondo, io non voglio scendere

Era il 26 settembre 2001, cioè poco più di due settimane dopo gli attentati alle Torri Gemelle, quando Michele Serra, su Repubblica, lanciò il suo appello affinché i giornali ricominciassero ad occuparsi anche di altro, oltre che della notizia unica del momento, allora Ground Zero. Oggi, bisognerebbe farlo col coronavirus, non per nascondere la sporcizia sotto il tappeto, ma per smettere di battere la lingua solo dove il dente duole. I denti sono 32 e non si può curarne solo uno, lasciando andare in malora gli altri.

Purtroppo sono costretto a tornare sul dente che monopolizza la bocca mediatica. Cerco almeno di farlo cum grano salis, anche perché, indipendentemente dalla classificazione del rischio che comporta il coronavirus, mi sembra si stia prendendo la direzione sbagliata: non so se stiamo sparando con un cannone al moscerino, sicuramente ci stiamo sparando cannonate sui piedi. Si fa un gran parlare, discutere e decidere sul discorso di sostenere l’economia, come si fa, nel caso di chemioterapie per bloccare il tumore, al fine di rafforzare il fisico indebolito dalle cure necessarie, ma spesso devastanti.

Il paragone però non tiene: nel fisico si sa dove si può intervenire per compensare i deficit provocati nella lotta contro il tumore; nel tessuto economico non si sa da che parte voltarsi e si rischia di spargere risorse inutili e inefficaci. Il problema di fondo è infatti il crollo della domanda, provocato dalla paura e dai provvedimenti restrittivi: non si viaggia, non si gira, non si consuma, si sta rintanati in casa, si evitano gli spostamenti, si annullano gli incontri di tutti i tipi. Il gioco della domanda e dell’offerta è sempre e comunque falsato, in questo momento è interrotto.

O ripristiniamo, seppure in modo equilibrato e sensato, il clima economico-sociale in cui viviamo, oppure non ci saltiamo fuori. Non accetto il discorso della pubblica amministrazione delegata all’istituto superiore di sanità: la scienza, come sostiene giustamente il presidente della Repubblica, deve essere un riferimento forte e imprescindibile, ma non basta perché occorrono scelte di altro tipo. La politica è fatta di compromessi ai livelli più alti fra le diverse opzione delle forze in campo, ma è anche fatta di compromessi fra il bene maggiore e il male minore. E non è detto che il male minore a lungo andare non si riveli come il bene maggiore, mentre incaponirsi sulla difesa oltranzistica del bene maggiore può significare paralizzare la situazione sul punto di difesa senza più poter andare all’attacco. Sarebbe come se una squadra di calcio giocasse solo nella propria metacampo per la paura di subire dei gol: prima o poi i gol si subiranno comunque, meglio correre il rischio per ripartire e rimediare il risultato finale.

Che senso ha chiudere le chiese e vietare le celebrazioni comunitarie? Scrive autorevolmente Andrea Riccardi: «Un forte segnale di paura. Ma anche l’espressione dell’appiattimento della Chiesa sulle istituzioni civili. Le chiese non sono solo “assembramento” a rischio, ma anche un luogo dello spirito: una risorsa in tempi difficili, che suscita speranza, consola e ricorda che non ci si salva da soli».

A proposito di risorse in tempi difficili, il mio caro amico e grande uomo di cultura, Gian Piero Rubiconi, senza avere intenti megalomani e spendaccioni, riteneva che la cultura, la musica in particolare, fosse una opportunità imprescindibile anche e soprattutto nei periodi di crisi. «Proprio quando l’economia va male è il momento di investire nella cultura, per fare argine alla crisi che trascina in basso i valori e per stimolare i consumi di prodotti che non si logorano nel tempo». Sono stranamente d’accordo co Vittorio Sgarbi quando stigmatizza gli interventi penalizzanti sulle istituzioni culturali, musei, mostre, rassegne: la cultura, senza fare demagogia a rovescio, è il miglior antidoto al coronavirus, che si combatte più impostando un clima di serena convivenza e di solidarietà che alzando impossibili barriere e isolando la gente con assurde quarantene o peggio ancora scatenando un clima di caccia alle streghe e/o agli untori.

Sono quasi sicuro che, gira e rigira, riapriremo prima gli stadi delle chiese, delle scuole, dei musei. Niente contro i campionati di calcio e degli altri sport, ma in una scala di valori socio-culturali c’è qualcosa che viene prima e su cui vale la pena di rischiare qualcosa. Invece di fare a gara a chi combatte meglio contro il coronavirus, provino a fare discorsi seri alla gente, non prendendola in giro, ma trattandola come si fa con le persone serie: si ragiona, si valuta, si collabora e si decide per il meglio. A volte tutto il male non viene per nuocere, purché serva a scuoterci e a responsabilizzarci. Proviamoci, lasciando da parte le polemiche e mettendo nel cassetto le bacchette magiche.

Il profeta Daniele fa dire a Dio in occasione di situazioni gravissime, di fronte ad autentici disastri combinati dagli uomini: «Su, venite e discutiamo». Se lo fa Dio, forse lo possono fare anche i nostri governanti, alle prese con certe emergenze: “Discutiamo, prima di partire in tromba”. So che è difficile, ma proprio per questo conviene discutere e trovare soluzioni al minor rischio possibile e non alla maggiore garanzia impossibile.